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I demoni
 
I demoni 2018-05-14 08:31:29 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    14 Mag, 2018
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LA TRAGEDIA DELL'ATEISMO

“Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!” (Friedrich Wilhelm Nietzsche: “La gaia scienza”)

In “Delitto e castigo”, il giovane studente Raskolnikov, in nome di un equivoco ideale di superiore giustizia, si arrogava arbitrariamente il diritto di calpestare i più sacri e inviolabili diritti dell’uomo, fino ad arrivare a compiere un orribile assassinio. La stessa problematica etica la troviamo trasposta ne “I demoni”, ma qui ad attribuirsi questo assurdo diritto è addirittura un intero gruppo di individui. La dimensione sostanzialmente privata del primo romanzo, peraltro già pervaso dal fermento delle “nuove idee”, lascia perciò il posto a una dimensione più marcatamente sociale o, se si preferisce, sociologica. L’andamento del romanzo è fortemente tortuoso, ambiguo ed ellittico: una piccola cittadina di provincia non identificata ne è l’allucinato e spettrale scenario. Nonostante che fin dall’inizio si respiri un’aria fosca di tragedia in procinto di scoppiare (lo stratagemma di costruire la storia sotto forma di rievocazione postuma fatta da un personaggio secondario ed estraneo alla maggior parte degli avvenimenti serve piuttosto a “oggettivare” le intenzioni critiche dell’autore che a raffreddare la tensione narrativa), nonostante questo, dicevo, bisogna attendere a lungo prima di iniziare a sentir parlare di cospirazioni, sette segrete e atti terroristici. Per tutta la durata della prima parte, Dostojevskij si sofferma invece a descrivere le figure di Stefan Trofimovic, della sua protettrice Varvara Petrovna e degli altri esponenti, blandamente liberali, della borghesia provinciale.
Questo procedimento narrativo, questo lento indugiare prima di scendere nel vivo del racconto, non è operato a caso ma ha una sua precisa giustificazione ideologica. Dostojevskij mira infatti da una parte a criticare e mettere in ridicolo le vecchie e sclerotizzate istituzioni della Russia zarista (con ciò intendendo prendere le distanze da quelle posizioni reazionarie che più volte gli erano state rimproverate) e dall’altra a dimostrare che la tolleranza e il lassismo dell’intellighenzia russa nei confronti delle nuove idee è stata una delle cause principali della degenerazione morale dell’epoca e dell’affermazione di ideologie torbide e perverse. Personaggi come la moglie del governatore Julia Michajlovna e il letterato Karmazinov, meschinamente preoccupati, per civetteria o paura, di acquisire il favore degli uomini nuovi e di non apparire in ritardo con le idee alla moda, diventano i galoppini della più squallida marmaglia e aprono con il loro laicismo, con il loro libero pensiero e con il loro razionalismo a sfondo materialista la breccia attraverso la quale farà irruzione il socialismo e la rivoluzione. Dostojevskij è impietoso con la borghesia liberale e non esita a raffigurare la connivenza irresponsabile tra intellettuali e rivoluzionari nel rapporto, direi quasi simbolico, tra Stepan Trofimovic Verchovenskij e suo figlio Pjotr Stepanovic. Stepan Trofimovic rappresenta l’intellettuale velleitario e magniloquente, idealista e sentimentale, che si trastulla con le idee senza riuscire a scorgerne le conseguenze pratiche, salvo poi, puntualmente, ritrarsi spaventato di fronte ad ogni avvisaglia di cambiamenti sociali, pur a lungo evocati. Al superficiale idealismo progressista del padre fa da controcampo il cinismo pragmatico di Pjotr Stepanovic, il quale si serve delle nuove idee non come passatempi teorici ma come strumenti per raggiungere machiavellicamente i propri loschi fini. In lui si può riconoscere, è vero, un atteggiamento provocatoriamente iconoclasta nei confronti della retorica altezzosità della società borghese, ma nel suo personaggio spregevole e privo di scrupoli oltre ogni dire (perfino un assassino matricolato come Fedka il forzato si sente in diritto di dargli una lezione di moralità) è adombrata soprattutto una fondamentale convinzione dell’autore: che le nuove correnti di pensiero progressiste e socialiste, tese a negare qualsiasi forma di trascendenza nel nome di un ideale esclusivamente terreno di ordinamento sociale, sono inevitabilmente destinate ad apportare distruzione (dei valori della tradizione così come del concetto di personalità e di libertà verso cui Dostojevskij è particolarmente sensibile) senza essere in grado di lasciare nulla di positivo in cambio. La negatività delle dottrine socialiste e nichiliste è censurata pesantemente nel corso del romanzo, ma la puntualizzazione più caustica della falsità e dell’ipocrisia insite in esse la fa Satov (che pure è stato in passato nell’organizzazione dei cospiratori) quando dice che “loro per primi sarebbero terribilmente infelici se la Russia cambiasse a un tratto il suo ordine sociale, sia pure a modo loro, e divenisse infinitamente ricca e felice. Allora non avrebbero più nessuno da odiare, più nessuno da insultare, più nessuno da schernire! Non c’è altro che un odio mortale, infinito…”. L’idealismo rivoluzionario sarebbe quindi, per Dostojevskij, una maschera dietro la quale si nascondono solo una cieca rabbia distruttiva e un assoluto disprezzo per l’umanità.
La dimostrazione di questo assunto si trova paradossalmente esposta nelle parole stesse di Sigaliov, un membro dell’organizzazione sovversiva, che simboleggia la fede fanatica e a suo modo “pura” nell’idea e nella dottrina. Sigaliov “propone, come soluzione definitiva della questione sociale, la divisione dell’umanità in due parti disuguali. Una decima parte riceve la libertà della personalità e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi, invece, devono perdere la personalità e trasformarsi in una specie di gregge e, con un’ubbidienza illimitata, raggiungere, attraverso una serie di rigenerazioni, la loro innocenza primordiale”. E’ vero che “le mie conclusioni contraddicono direttamente le idee originarie, dalle quali prendo le mosse: partendo dalla libertà illimitata, concludo col dispotismo illimitato”; ma questo è l’unico paradiso, l’unico Eden immaginabile sulla terra. La sua è una vera e propria religione, analoga a quella del “pane terrestre” enunciata da Ivan Karamazov nella leggenda del Grande Inquisitore e parimenti fondata sulla mancanza di rispetto per l’essere umano. L’egualitarismo che sta alla base del socialismo non è perciò realizzazione delle più elevate aspirazioni umane, ma livellamento verso il basso, perdita della libertà individuale, schiavitù, tirannia. Tutto il resto non conta, sono solo utopie di favoleggiatori, vuote chiacchiere, ricette scritte sulla carta. E’ in questa lacerante contraddizione tra vacuo idealismo e cinico pragmatismo che le dottrine materialiste, magari oneste negli intenti ma incapaci per scelta ideologica di accettare la semplice esistenza di una terza via, si perdono e si danno in pasto ai Verchovenskij o agli Stavroghin di turno.
Ad onta di queste considerazioni, sarebbe un errore, a mio avviso, ridurre “I demoni” alle dimensioni di un romanzo esclusivamente, o prevalentemente, “politico”: in esso Dostojevskij sconfessa sì l’etica del socialismo rivoluzionario, ma dà anche una descrizione potentemente tragica della fenomenologia del demoniaco, che si riverbera nei vari personaggi secondo modalità riconducibili piuttosto alla negazione di Dio che al fatto di essere socialisti. Lo stesso Verchovenskij conferma indirettamente questa tesi quando ammette di essere “un mascalzone, non un socialista”. Il romanzo deve perciò essere correttamente ricondotto nell’alveo naturale della ideologia dostojevskijana, in cui i conflitti umani avvengono sempre in chiave filosofica e religiosa piuttosto che in chiave politica e sociale. In questa prospettiva, le teorie nichiliste sono negatrici della libertà e della personalità umane principalmente perché senza Dio è inevitabile per l’uomo far violenza a questi principi. Una volta di più, quindi, al centro dei problemi dell’umanità c’è Dio.
Il personaggio intorno al quale ruotano tutti gli altri, pur essendo il più distaccato e indifferente nei confronti della vicenda, è Stavroghin. Stavroghin è un uomo per molti versi affascinante, titanico e dotato di un carisma tale da imporre rispetto e venerazione a chiunque, ma, non credendo in nulla e tantomeno in Dio, è destinato a diventare un personaggio tragicamente negativo. Stavroghin è l’emblema della falsa infinità, delle formidabili forze del senso e dell’intelletto che, non riuscendo a darsi una direzione morale e un centro etico, rimangono malinconicamente inutilizzate, disperse nel vuoto metafisico della sua noia esistenziale e della sua apatia. Gli altri personaggi del romanzo vedono in lui il custode di ricchezze enormi e misteriose: da Satov a Kirillov, da Pjotr Stepanovic a Lebjadkin, tutti coloro che lo hanno conosciuto ne sono rimasti profondamente influenzati. Ma è un’influenza nefasta, mortale per lo spirito come lo può essere una malattia maligna per il corpo. La verità è che in Stavroghin c’è il vuoto assoluto, e la luce che egli emana è come un fuoco fatuo in un cimitero di emozioni ormai spente, del tutto incapace di riscaldare sé stesso ma ancora in grado di ingannare e sviare coloro che gli si accostano. E’ in questo modo, per una curiosità intellettuale, che Stavroghin converte Kirillov all’ateismo e Satov al fideismo populista, allontanandoli entrambi, irrimediabilmente, da Dio. Per gli stessi motivi, per il gusto cioè di togliersi un capriccio amorale, egli si unisce ai nichilisti, suggerendo a Verchovenskij di far giustiziare un membro del gruppo come spia, al fine di ridurre gli altri membri al rango di schiavi docili e obbedienti. In assenza di un principio etico idoneo a fargli da guida, Stavroghin si getta senza ritegno alla ricerca di sensazioni forti, di eccitazioni animalesche, di capricci anormali (come il matrimonio con Marja Timofejevna, una donna sciancata e demente), immergendosi sempre più freddamente e lucidamente nella voluttà dell’infamia e dell’abiezione. In Stavroghin, come in tutti gli uomini, c’è ovviamente la possibilità del bene, ma in lui è morta la capacità della scelta, della discriminazione. Se egli disperde le proprie potenzialità nella negazione è per essere ormai diventato indifferente al male e al bene, al punto di provare, come gli rinfaccia Satov, un identico piacere in un gesto bestiale e libidinoso così come in un atto eroico. Se la sensualità sfrenata e la presenza nel suo animo degli istinti più opposti e inconciliabili richiamano alla mente il personaggio di Dmitrij Karamazov, Stavroghin se ne distacca subito, in quanto a differenza del precedente in lui non c’è una tensione alla redenzione, una direzione del male verso il bene. La pretesa di fare a meno di Dio puntellando la propria esistenza su una libertà tanto grande quanto assurda e senza scopo e la volontà di vivere secondo il comandamento del “tutto è lecito” svuotano progressivamente il senso della vita di Stavroghin. Egli stesso ne è tragicamente consapevole e nella lettera dell’epilogo confessa: “Ho provato la mia forza dappertutto… Ma a che cosa applicare questa forza? Ecco quel che non ho visto e neppure ora vedo… posso desiderare di fare un’azione buona e ne provo piacere; insieme desidero anche il male e ne provo pure piacere. Ma l’uno e l’altro sentimento sono sempre troppo meschini: grandi non sono mai. I miei desideri sono troppo poco forti; non possono servire di guida… da me è sgorgata solo negazione, senza alcuna generosità e senza alcuna forza”. In queste parole si legge il tormento disperatamente lucido di una coscienza scissa (le apparizioni descritte nella seconda parte, ennesimo punto in comune con Ivan Karamazov, sono molto significative al riguardo), incapace di amare e vittima di una carica di autodistruzione che non può che portare al suicidio.
A Kirillov è riservata da Dostojevskij la stessa sorte di Stavroghin, ma i due personaggi differiscono enormemente tra loro: infatti, se quest’ultimo è soprattutto dispersione delle proprie potenzialità, Kirillov è assoluta, maniacale concentrazione su un unico pensiero fisso. Questo pensiero che si agita in continuazione nella sua testa non è altro che l’ineffabile mistero di Dio. Nonostante l’ateismo che egli professa, Kirillov aspira intensamente a Dio (Verchovenskij stesso lo capisce quando dice di lui che “crede in Dio peggio di un prete”). Razionalmente, però, Dio è percepito come un limite intollerabile alla propria volontà e, proprio nel momento in cui è più forte il bisogno di avvicinarsi a Lui, viene neutralizzato attraverso la sua radicale negazione. Dio non esiste, conclude Kirillov, o meglio Dio è un’illusione, un effetto psicologico dell’angoscia del nulla. Con una ardita e geniale analogia, Kirillov paragona l’essenza del concetto di Dio alla paura che un uomo proverebbe se avesse un pietrone grosso come una montagna sospeso sopra la testa; razionalmente, è ovvio che, se il pietrone cadesse, non si sentirebbe alcun dolore, eppure tutti, anche il più grande scienziato, avrebbero in quel frangente paura del dolore. Ora, secondo Kirillov, Dio non esiste, ma è solo “il dolore della paura della morte”, generato dall’angoscia dell’uomo e a sua volta generatore di angoscia. L’uomo deve liberarsi da questa trappola e, sconfiggendo il dolore e la paura, sostituirsi a Dio. “Allora si avrà una vita nuova, allora si avrà un uomo nuovo, tutto sarà nuovo… L’uomo diventerà un dio e si trasformerà fisicamente. E si trasformerà il mondo e si trasformeranno le vicende, e i pensieri e tutti i sentimenti”. Il fondamento su cui dovrà sorgere l’ideale società kirilloviana è il libero arbitrio, che segnerà il trionfo della finitezza pura e l’avvento della completa autonomia dell’uomo nei confronti degli agenti metafisici che lo hanno finora condizionato. Kirillov è il nuovo Messia chiamato a proclamare di fronte al mondo il regno dell’arbitrio, ma, per dimostrare agli uomini che possono diventare dei, egli deve uccidersi, perché "ci sarà piena libertà soltanto il giorno in cui sarà indifferente vivere o non vivere”. Kirillov è l’infelice vittima della sua implacabile logica raziocinante: lui che, come Prometeo, ha scoperto il segreto dell’immortalità e dell’armonia universale, è “obbligato” a sacrificare sé stesso e a farsi dolorosamente da parte. E’ una libertà che costa cara, non meno spietata e crudele della pseudo-libertà rivendicata da Sigaliov e, come quella, viziata da un errore di partenza, consistente nella confusione tra libertà e arbitrio, nella degenerazione della prima nel secondo e nella conseguente distruzione dei principali valori morali. Nel descrivere la costruzione filosofica di Kirillov, Dostojevskij mostra un atteggiamento decisamente anti-razionalista. Kirillov appare infatti un personaggio circuito dai suoi stessi sofismi cerebrali, che la coerenza logica ricercata ad ogni costo ha condotto nel vicolo cieco della disperazione. Il lungo dialogo tra Stavroghin e Kirillov della seconda parte ne è un esempio illuminante: qui Kirillov afferma che “l’uomo è infelice perché non sa che è felice; solo per questo… Non sono buoni, perché non sanno di essere buoni… Bisogna che scoprano di essere buoni, e subito tutti diventeranno buoni, tutti dal primo all’ultimo”. Il bene, quindi, anziché una realtà oggettiva, sembra la conseguenza inevitabile di una premessa logica: io so di esser buono quindi sono buono; io non so di esser buono quindi non sono buono. A queste parole, Stavroghin commenta beffardamente: “«Scommetto che la prossima volta che verrò qui avrete ritrovato la fede in Dio». «Perché?». «Se aveste scoperto che credete in Dio, allora credereste; ma poiché ancora non sapete di credere in Dio, allora non ci credete»”. Il fatto è che Kirillov, sebbene a differenza dei nichilisti rispetti l’uomo come individualità, pure è sostanzialmente estraneo alla sua realtà. Il suo concetto dell’armonia universale, che a tratti appare quasi il risultato delle crisi di un epilettico, manca soprattutto di vitalità. Kirillov ama la vita, ama i bambini, ma si domanda anche “a che pro i bambini, a che pro l’evoluzione, se la meta è raggiunta? Nel Vangelo è detto che nella risurrezione non procreeranno più, ma saranno come gli angeli di Dio. E’ un’indicazione”. L’ideale esistenziale di Kirillov è quindi qualcosa di contemplativo, di statico, destinato a naufragare a contatto con l’impetuosa corrente della vita. Che l’uomo non sia in grado di salire fino a Dio ma rischi anzi di regredire allo stato bestiale lo si desume poi dalla tragica e grottesca scena del suicidio: nell’ora suprema, davanti a Kirillov non c’è la nuova vita che egli immaginava, ma solo la nuda orrenda morte, e il protagonista, da freddo loico, si trasforma con una raccapricciante metamorfosi in un automa invasato che urla selvaggiamente e morde. Kirillov è, di tutti i personaggi de “I demoni”, quello che, sia pure in negativo, meglio incarna il pensiero religioso di Dostojevskij: egli vive come nessun altro la inquietante dialettica fede-ateismo (“Dio mi ha tormentato tutta la vita!”), arrivando a fare ciò che neppure Ivan Karamazov, evidentemente più preoccupato della disarmonia presente che non attirato dall’armonia futura, aveva fatto: negare totalmente Dio. Il messaggio di Dostojevskij è di un’evidenza direi quasi cristallina. L’ateismo, questo demone che mette in crisi la civiltà contemporanea, oltre a costituire l’attentato più pericoloso contro la libertà dell’uomo, carica le sue spalle di un peso che egli non è in grado di sopportare: il peso di ordinare lui stesso, da solo, la realtà.
Assai contrastata è anche la religiosità di Satov, il quale è forse l’unico eroe positivo del romanzo. Satov non crede in Dio, come è costretto ad ammettere in un serrato dialogo con Stavroghin, bensì nel popolo, che egli innalza al livello di Dio: “Chi non ha popolo, non ha nemmeno Dio! Sappiate bene che tutti coloro che cessano di capire il proprio popolo e perdono il contatto con esso, perdono subito, nella stessa misura, anche la fede dei loro padri, e diventano o atei o indifferenti…”. La fede di Satov è qualcosa più vicina al paganesimo che all’ortodossia religiosa ma, mentre in Kirillov il bisogno di Dio, come abbiamo visto, sfocia nel distacco “razionale” da Dio, Satov dimostra come la violenza della negazione a volte può portare verso Dio. Anche se Dostojevskij lo ha fatto morire anzitempo trucidato dai suoi ex compagni, è indubbio che Satov rappresenti il peccatore che, faticosamente, si avvia lungo la strada della salvezza. L’autore rivela una grande simpatia per questo introverso e scontroso personaggio, forse perché egli conserva l’animo puro di un fanciullo e, nell’episodio dell’improvviso ritorno a casa della moglie gravida, incarna l’etica cristiana della comprensione e del perdono.
Il personaggio più vicino a Satov è sicuramente Marja Timofejevna, la zoppina, che con lui condivide una fede sui generis. In Marja Timofejevna, che pur avendo la mente sconvolta e vivendo in condizioni disgraziate non conosce l’angoscia, c’è una intima comunione, di carattere quasi religiosa, con la natura. Nella sua coscienza, la Madre di Dio e la terra si fondono nella pagana Magna Mater e il sole parla un linguaggio malinconico ma soave. E’ curioso che Dostojevskij abbia messo in bocca a una demente alcune tra le verità più profonde del suo romanzo (tra l’altro essa è l’unica a provocare un reale turbamento nell’impassibile Stavroghin, trattandolo come una vile controfigura), così come appare provocatorio che l’autore abbia scelto il vacuo e ampolloso Stepan Trofimovic per pronunciare pubblicamente l’invettiva contro i nichilisti, nella quale paragona la situazione della Russia a quella evangelica dei demoni e dei porci. Questa complessità non deve sorprendere. La fede, sembra dirci Dostojevskij, è un traguardo che si conquista con fatica, in maniera quasi mai lineare e coerente: appare perciò ampiamente giustificato il fatto che il grande maestro descriva prima con tenerezza il culto pagano della zoppina per la grande madre terra e per il sole, e poi lanci strali contro il cattolicesimo romano, colpevole di aver ceduto alla terza tentazione del demonio.
E’ significativo inoltre il fatto che in nessun altro romanzo Dostojevskij abbia disperso tra tanti personaggi “negativi” le proprie convinzioni religiose più profonde: è nientemeno che l’amorale Stavroghin a dire che se gli avessero dimostrato matematicamente che la verità è fuori di Cristo, avrebbe acconsentito piuttosto a rimanere con Cristo che con la verità; è Stepan Trofimovic a proferire quelle parole (“…tutti quanti siamo colpevoli, gli uni verso gli altri”) che rappresentano il fulcro del messaggio cristiano dell’autore; è infine l’ateo Kirillov ad amare in maniera commovente Cristo, sia pure un Cristo privo degli attributi divini. In fondo, per dirla con Satov, “anche in questa gente c’è della generosità” e solo le false e ingannatrici ideologie provocano l’allontanamento dell’uomo dalla retta via. La mancanza, per contro, di eroi completamente positivi, oltre a essere una testimonianza della difficoltà del cammino che porta verso Dio, è anche un preciso segnale ideologico: la tragedia finale dei nichilisti è l’iter attraverso cui l’errore finisce col negare se stesso e travolgersi, condannando con tremenda forza anticipatrice tutte quelle avventure, dalla rivoluzione russa al terrorismo dei nostri giorni, che hanno fatto della distruzione dei valori della tradizione e dei principi etici la loro bandiera. Dostojevskij questa volta non lascia aperta una porta verso la redenzione, ma solo un piccolo spiraglio: non è possibile sapere se esso sarà sufficiente all’umanità per raggiungere quella verità alta e luminosa cui da sempre essa aspira.

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"L'idiota" e "I fratelli Karamazov" di Fedor Dostojevskij
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Commenti

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Un libro molto bello e terribile. Una decina di anni prima, Turgenev in Padri e figli" aveva rappresentato il nichilismo che si stava diffondendo negli ambienti universitari. Sono bastati pochi anni, ecco qui una sua trasformazione. Sono tante le analogie con la nostra storia recente. L'annientamento di valori fondamentali torna indietro come un boomerang
In risposta ad un precedente commento
kafka62
15 Mag, 2018
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Concordo con te sulle tante analogie di questo romanzo con la storia del XX secolo (ma anche nel mondo di oggi, se ci guardiamo intorno, di demoni ne continuiamo a vedere parecchi). In effetti Dostojevskij è stato davvero profetico e anticipatore sotto molteplici punti di vista (pensiamo solo alla psicanalisi).
Nonostante abbia frequentato spesso la letteratura russa, è invece imperdonabile da parte mia non avere mai letto "Padri e figli" di Turgenev (di cui ho visto solo due drammi teatrali, "Pane altrui" e "Una domenica in campagna"). Grazie quindi per il prezioso rimando che a me era inevitabilmente sfuggito (sei davvero una fonte inesauribile di informazioni!).
Analisi complessa e interessante, sul romanzo non posso esprimermi perché non l'ho letto; Il Turgenev citato da Emilio è davvero bello.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
16 Mag, 2018
Segnala questo commento ad un moderatore
Grazie Laura. A questo punto, penso che non potrò più esimermi dal leggere Turgenev!
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