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«Nulla conta se non la vita»
È una verità universalmente riconosciuta che Jane Austen sia una delle autrici più talentuose mai entrate nell’Olimpo dei grandi classici – “l’artista più perfetta tra le donne” secondo Virginia Woolf – e che Orgoglio e pregiudizio, la sua opera più nota e più amata, sia un capolavoro capace di suscitare ancora lo stesso interesse da parte di pubblico e critica a duecento anni dalla sua prima pubblicazione. Ci sarà un motivo, in fondo, se la Austen si ritrova ad essere oggetto di studio e di riflessione sui banchi scolastici e universitari. Eppure non mancano detrattori che arricciano il naso davanti alle pagine dei suoi romanzi, nella convinzione che siano soltanto storie d’amore ben scritte e che uno stile cristallino e i personaggi straordinari bastino appena a riscattare un contenuto da romanzetti rosa in vendita nelle edicole, fra intraprendenti signorine in cerca di marito, fughe d’amore, matrimoni contrastati e ricchi gentiluomini inseguiti da madri fin troppo ansiose di catturare un genero come se fosse una caccia alla volpe.
La superficie, certo, non svela nient’altro: nella piccola cittadina di Longbourn, nell’Hertfordshire, alla fine del Settecento, seguiamo le vicende sentimentali delle cinque sorelle Bennet e dei loro corteggiatori, tra i quali spiccano l’intelligente, acuta e ironica Elizabeth – alter ego dell’autrice – e l’orgoglioso, freddo, altero signor Darcy, protagonisti di una storia d’amore ormai diventata leggendaria.
Solo un romanzo rosa, dunque, per quanto scritto magistralmente, a tratti un po’ frivolo e capace di attrarre un pubblico quasi esclusivamente femminile. Ma dietro ai piccoli intrighi della buona società inglese di provincia, dietro all’eterna caccia al marito, ai balli e ai tè pomeridiani si cela qualcosa di ben più profondo.
Con Jane Austen «inizia l’epoca in cui nulla conta se non la vita». Le sue opere costituiscono uno step decisivo per lo sviluppo del “romanzo di destino”, che nasce alla fine del Settecento e diventa la forma principale del realismo per il romanzo ottocentesco, da Stendhal, a Flaubert, a Tolstoj. Esso affonda le proprie radici nel novel, la forma di narrazione che nel corso del Settecento si afferma con le sue caratteristiche – personaggi comuni collocati in contesti ordinari, ampliamento del narrabile fino a comprendere la vita particolare e gli eventi quotidiani raccontati in chiave seria e celebrati per il loro intrinseco valore – a scapito del romance, un racconto di avventure tra peripezie, stati di eccezione e protagonisti eroici o singolari. Nel romanzo di destino, naturale evoluzione del bildungsroman (il romanzo di formazione), la vita quotidiana di persone qualsiasi acquista interesse e diventa degna di essere narrata alla luce del rapporto tra desiderio e realtà: nell’incontro (o scontro) tra l’individuo, con le sue ambizioni e i suoi desideri, e il mondo esterno, si determina il destino del personaggio. E le svolte che, come uno stampo, plasmano le esistenze, «la ricerca di quella felicità privata» che è «l’unico vero dio condiviso e ancora vivo, l’unica cosa che conta davvero per gli individui moderni», si collocano proprio nel mezzo del quotidiano.
«Ad Austen interessa esclusivamente, o quasi esclusivamente, una stagione della vita: i pochi mesi o i pochi anni nei quali le eroine dei suoi romanzi, sposandosi bene o sposandosi male, diventano adulte». Per le protagoniste dei suoi romanzi, giovani donne che conducono un’esistenza limitata ai rapporti sociali tra vicini, in un mondo che non le favorisce in alcun modo e che vede nel matrimonio l’obiettivo principale dell’esistenza femminile, l’unica strada per non diventare zitelle povere, derise e mal sopportate dai familiari che dovranno farsi carico del loro sostentamento è trovare marito e neppure la narrazione briosa e vivace della Austen, a volte, è sufficiente a scacciare l’amara consapevolezza che fino a non molto tempo fa l’unica, vera svolta nella vita delle donne era proprio il matrimonio, prive della possibilità di lavorare, essere indipendenti e plasmare la propria vita liberamente. Elizabeth, Jane, Emma e le altre riescono infine a sposare l’uomo che amano e a condurre vite felici e appagate, è vero, e in fondo Jane Austen è colei che in Mansfield Park scrive: «Lasciamo che altre penne trattino del peccato e della desolazione. Abbandono simili argomenti prima possibile, impaziente di restituire a tutti coloro che non hanno gravi colpe un tollerabile conforto, e di precisare tutto il resto». Se la lettura è uno dei piaceri più grandi di cui si possa godere, tralasciando ancora una volta la superficie e cioè il lieto fine che conclude ogni romanzo, non c’è dubbio che ben poche penne siano capaci di donare conforto quanto quella di Jane.
È così che gli incontri fra vicini, i ricevimenti, i pettegolezzi nel piccolo mondo della gentry inglese acquistano un’importanza insospettabile, perché è questo e solo questo il percorso attraverso il quale una ragazza di buona famiglia può entrare nel mondo e realizzare se stessa nell’unico modo che le è concesso.
Con il romanzo di destino, un evento decisivo nella storia della narrativa occidentale, emergono pienamente aspetti impliciti nel romanzo come genere, a cominciare dal relativismo e dal prospettivismo che rendono proprio il romanzo la forma d’arte più adatta ad esprimere il particolarismo e la frammentazione della società moderna. Se ogni individuo è un epicentro fra gli altri e in quanto tale ha pieno diritto ad un punto di vista assoluto, per quanto umile possa essere la sua prospettiva, se domina una logica del microcosmo, se una vita qualunque è degna di essere narrata, se il destino di una giovane donna si decide tra un ballo e una visita di cortesia, si può affermare senza esitazione che ben pochi autori sono capaci di catturare inesorabilmente il lettore nel banale flusso della quotidianità quanto la giovane figlia di un ecclesiastico inglese di provincia vissuta ai margini di tutto ciò che è grande e maestoso, ma immersa nella stessa battaglia quotidiana che ci accomuna tutti in ogni luogo e in ogni epoca: «si tratta di essere felici in questo mondo».
Le citazioni sono tratte da:
J. Austen, Mansfield Park, Milano, Oscar Mondadori, 2013;
G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011.
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Commenti
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Concordo : è un libro bellissimo, un capolavoro.
Molto bello il film, peccato solo per i costumi che non erano in stile regency, se ricordo bene... Erano pienamente ottocenteschi.
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Rileggerò appena possibile questo libro.
Ricordo ancora il mitico film con Lawrence Oliver ....