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NELL'ABISSO DELLA FOLLIA
“Cuore di tenebra” è il libro di Kurtz: Kurtz ne è l’anima e la ragion d’essere, l’ombra e la luce, la grandezza e l’ambiguità. E’ curioso che una tale figura, circonfusa di una vivida aura epica, appaia direttamente in scena per non più di una decina di pagine, e per giunta nel crepuscolo della sua avventura umana. Curioso e, se vogliamo, paradossale, ma non illogico, se si pensa che Kurtz ha nel racconto una funzione essenzialmente simbolica. Solo così si può capire perché del Kurtz-uomo restano alla fine impressi nella mente una voce profonda e magnetica, un cranio pelato come una palla d’avorio, un fascio di incartamenti polverosi, e nulla più. La lenta, paziente e meticolosa preparazione all’incontro tra Marlow e Kurtz, che tiene lungamente avvinta l’attenzione del lettore in una tacita promessa di sconvolgenti rivelazioni, sfocia in un buco nero in cui l’agognato ritratto di Kurtz rimane quasi del tutto inespresso. Che ne è ad esempio della sua ammaliante eloquenza se Marlow ritiene di dover riferire una manciata di sue frasi soltanto? Se Conrad decide di procedere in maniera vaga e allusiva, in realtà, è perché Kurtz rappresenta un’idea, è lo sbocco conclusivo di una metafora che non può essere oggettivata fino in fondo senza perdere almeno in parte il suo indescrivibile fascino.
La risalita del fiume verso il cuore della foresta africana è interpretabile soprattutto in chiave psicanalitica: il viaggio di Marlow è infatti un viaggio conoscitivo che si svolge tanto nella realtà quanto all’interno dell’uomo. In questa accezione, Marlow, vera e propria coscienza critica del dramma, rappresenta l’essere tutto ragione e buon senso che si avventura, non importa se per caso o per libera scelta, alla scoperta del lato oscuro e irrazionale che si cela dentro di lui, del suo inconscio per dirla in termini freudiani. E’ il primitivo continente africano, con la sua natura tumultuosa e impenetrabile e le sue genti dall’arcaica vitalità (avvicinabile questa, è importante sottolinearlo, all’energia sessuale, che la cultura occidentale tende spesso a reprimere) a far scattare il dualismo tra razionalità e wilderness. Ciò che atterrisce e sgomenta Marlow non è tanto l’improvvisa presa di coscienza dell’esistenza di una scissione interiore (come avveniva ad esempio a Pietro il Rosso nella kafkiana “Relazione per una Accademia”) ma la scoperta di un’intima rispondenza, di una impalpabile affinità con la parte selvaggia e istintiva dell’io (“…laggiù ci si trovava in presenza di qualcosa di mostruoso e di libero… Quella gente urlava, saltava, piroettava, faceva certe smorfiacce orrende; ma quel che vi stringeva il cuore era… il senso di una remota parentela con quel selvaggio e appassionato tumulto. Una cosa orribile”). Non siamo più ormai nel territorio dei principi, ma in quello degli istinti primordiali, delle “mostruose passioni”, o ancora, anche se la parola può sembrare grossa, in quello della fede.
Kurtz è il punto di arrivo del viaggio, ma Marlow alla fine capisce che “in realtà io m’ero rivolto a quel mondo selvaggio più che non a Kurtz”. La natura rigogliosa e pulsante che accompagna la navigazione del narratore non ha quindi alcunché di decorativo, ma è essa stessa oggetto di conoscenza, simbolo di quell’”altro da se” che, nel momento stesso in cui è esecrato e respinto, esercita un fascino diabolico e tentatore. Kurtz è colui che ha avuto il coraggio di cedere a questa fascinazione, colui che è andato oltre (non si sa se per ansia di conoscenza o per impulso di autodistruzione) senza più tornare indietro. Dei suoi anni trascorsi nel cuore dell’Africa sappiamo solo che passava il tempo a farsi adorare dagli indigeni e a fare razzie nei villaggi vicini, ma non a questo è da attribuirsi la smisurata abiezione che persino Marlow gli riconosce, bensì alla sua resa totale e incondizionata alle forze tenebrose dell’irrazionale.
Se Kurtz si è tuffato nell’abisso, Marlow si è tirato indietro all’ultimo momento. E’ facile intuire che Kurtz altri non è in fondo che l’alter ego di Marlow, la sua metà dannata, quella che ha abbandonato i confortevoli e rassicuranti territori del macellaio e del poliziotto (simboli della civiltà e dell’ordine sociale) e, senza più un solido pavimento sotto i piedi, si è persa nel vuoto. Marlow invece, rifugiandosi nella sublimazione del lavoro e nel senso del dovere (pilotare il battello lungo il fiume) si è preservato dalla follia e dall’annientamento, pur conservando la capacità di comprendere la grandezza del gesto di Kurtz: quella di scoprire l’oscurità (la darkness del titolo) che è in lui, e ad essa sacrificarsi.
La follia di Kurtz (“La sua anima era folle – dice di lui Marlow. – Sola in quella solitudine selvaggia, aveva guardato dentro di se, e, per Iddio, vi dico ch’era impazzita”) è l’ultimo anello di una catena di insania che pervade il racconto e che va progredendo sempre più con il suo procedere: navi che bombardano la costa deserta, enormi buche scavate sul fianco della montagna senza alcun motivo plausibile, gli agenti della Compagnia che si aggirano con grottesche doghe in una atmosfera di tangibile irrealtà. La follia è una costante di “Cuore di tenebra”, e in un certo senso si può affermare, alla luce di quanto detto più sopra, che essa è il prezzo della conoscenza della Verità ultima. Ma, a differenza ad esempio di quanto avviene per i personaggi di Poe, la follia di Conrad non è veicolo di una conoscenza positiva. La natura che, come le sirene della leggenda, incanta e distrugge l’uomo, non è disposta infatti a rivelare i segreti che custodisce. L’incantamento con cui essa seduce Kurtz è infatti un’arma a doppio taglio: nel momento in cui si insinua nelle sue vene, consuma la sua carne, suggella la sua anima con la propria, essa lo costringe a guardare il vuoto che egli ha dentro: “Penso che gli debba aver sussurrato certe cose sul suo conto delle quali mai aveva avuto il sospetto, cose di cui non aveva idea alcuna prima di prender consiglio da quella immensa solitudine – e quel sussurro aveva esercitato su di lui un fascino irresistibile. Gli aveva svegliato dentro degli echi fragorosi, perché egli era vuoto nell’intimo…”. La natura primordiale, la sfera degli istinti, l’inconscio, sono quindi null’altro che uno specchio nel quale l’uomo vede riflessa la propria sconfitta esistenziale: è questa l’orrenda verità che, in punto di morte, si rivela a Kurtz come l’unica forma di autentica conoscenza. In questa dimensione di prometeica tragedia si consuma così il dramma di Kurtz e, per contrario, quello di tutti gli uomini, costretti a vivere una mediocre vita fatta di convenzioni, codici morali, ipocrisie, illusioni che essi si costruiscono per evitare di dover guardare nelle profondità dell’abisso. Inteso in questo senso, quindi, “Cuore di tenebra” non è solo un amaro apologo sulla colonizzazione europea in Africa (sebbene la critica conradiana dell’imperialismo abbia un’importanza straordinaria) ma è anche, e soprattutto, una testimonianza unica e premonitrice sulla crisi spirituale dell’uomo contemporaneo.
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