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TRE FRATELLI ALLA RICERCA DI DIO
La vicenda de “I fratelli Karamazov” è quella di Fedor Karamazov, ricco libertino di provincia, e dei suoi tre figli, il violento ma generoso Dmitrij, l’intellettuale Ivan, il mistico Alesa, nonché di un quarto figlio illegittimo, il cinico e perverso Smerdjakov. Non vi è persona, credo, che non conosca almeno a grandi linee l’intreccio del romanzo, imperniato sull’assassinio del padre a opera di Smerdjakov, a sua volta ambiguamente spinto ad agire da Ivan, e sul relativo processo, nel corso del quale Dmitrij, su cui si sono accentrati tutti i sospetti, viene condannato ai lavori forzati. In effetti, questo libro si presenta esteriormente come un avvincente e scorrevolissimo romanzo d’appendice, folto di personaggi secondari e con una trama da feuilleton. Ma se si guarda appena appena sotto la sua superficie, non si tarda a capire che la parossistica storia della famiglia Karamazov è nientemeno che la potente e sconvolgente rappresentazione della grande famiglia umana, nella quale sono magistralmente condensate sia le grandi problematiche esistenziali (vuoi teologiche, vuoi etiche e filosofiche) che l’assillano, sia le forze fondamentali che da sempre guidano la vita dell'uomo, vale a dire la sensualità, l'intelletto e la spiritualità. “I fratelli Karamazov” è quindi, principalmente, un libro di idee, il che spiega anche il particolarissimo realismo di Dostojevskij. I pochi ambienti che egli descrive con minuziosa precisione (la casa di famiglia e la trattoria, per fare due soli esempi) si rivelano ben presto per quello che veramente sono, e cioè un fondale, una scena aperta, dietro cui è possibile individuare altre importanti dimensioni della vita. L’opera di Dostojevskij si sviluppa infatti su un triplice piano: la realtà (nella quale i personaggi sono immersi profondamente, direi anzi carnalmente), la metafisica (verso la quale essi tendono o comunque con la quale, prima o poi, si trovano a fare i conti) ed il subconscio (che provoca in loro tremende tempeste morali, rendendoli senza eccezione figure dolorosamente scisse e sdoppiate). Tensioni e contraddizioni del mondo trovano perciò la loro espressione in problemi filosofici e religiosi, e questi a loro volta sono vissuti e sofferti nella vita interiore dei personaggi. Costoro, in Dostojevskij, cercano in continuazione, disperatamente, una verità, una base morale, per la loro vita. Anche quelli che, come Fedor, vivono solo nella sfera della sensualità, non possono esimersi dal porsi l’angosciosa domanda se esiste Dio e se c’è l’immortalità. E che dire di Ivan, apparentemente inattaccabile nel suo sprezzante cinismo, ma che in realtà soffre terribilmente della sua condizione di miscredente?
Questa riflessione mi porta a fare due distinte considerazioni. In primo luogo, è evidente la dicotomia degli eroi dostojevskijani, nei quali lottano senza tregua due io contrapposti e inconciliabili. Nessun personaggio sfugge a questi conflitti interiori. In Dmitrij, al tormento per la sua condizione di peccatore si accompagna la dolorosa consapevolezza dell’ineluttabilità della sua duplice natura (“Che vi può essere di più terribile che accogliere nell’anima l’ideale di Sodoma senza tuttavia negare quello della Madonna?… Ah, no: l’uomo è troppo complesso, io l’avrei fatto un pochino più semplice”); in Ivan, questo dualismo si materializza addirittura nella figura del diavolo, sorta di allucinata proiezione dell’io inferiore dell’uomo, cioè della sua parte più bassa e vile, che tuttavia condiziona il suo agire non meno dell’altra più elevata; anche Alesa, il quale rappresenta senza dubbio l’eroe positivo del romanzo, non è immune da questo travaglio, giacché la sua natura angelica presuppone necessariamente la possibilità di una caduta (e difatti per lui la tentazione viene davvero, dopo la morte dello starec Zosima).
La seconda considerazione riguarda la stupefacente complessità e poliedricità tematica di Dostojevskij scrittore. Non v’è dubbio che ne “I fratelli Karamazov” egli pervenga, come si vedrà più avanti, ad una conclusione cristiana fondata sulla fede in Dio e sull’amore per il prossimo. Tuttavia il suo non è un comodo e consolatorio sermone di stampo catechistico, ma un messaggio che passa continuamente attraverso il filtro dell'incredulità. Nel mondo religioso di Dostojevskij, l'affermazione e la negazione si alternano ad un ritmo incessante. In questo risiede, a mio avviso, la straordinaria grandezza de “I fratelli Karamazov”, nella capacità cioè di proporre alla meditazione del lettore un ventaglio talmente ampio di interpretazioni da rendere difficile capire quali di esse Dostojevskij accolga e quali respinga. Accingendosi all’esegesi del romanzo, il lettore è portato così a seguire un percorso autonomo e originale, ed addivenire magari a conclusioni opposte a quelle dell’autore, senza per questo poter essere tacciato di arbitraria faziosità. La grande generosità di Dostojevskij lo ha condotto qui a non cercare di nascondere quegli insolubili problemi che avrebbero potuto essere di ostacolo alla sua tesi, ma al contrario a mostrarli in tutta la loro enigmaticità, quasi a significare che la strada della fede è dura e impervia e deve in ogni momento fare i conti con essi. Dostojevskij era sicuramente un conservatore, eppure nessun radicale ha versato più veleno di lui sul mondo della borghesia; egli era un fautore dello status quo, eppure i suoi romanzi svelano impietosamente il disordine e la corruzione della società; egli predicava la bontà e la fratellanza e intanto descriveva come nessun altro aveva mai fatto la capacità umana di crudeltà e di depravazione. E a chi gli rimproverava il suo essere reazionario e la sua retrograda fede in Dio, così rispondeva: “Questi stupidi non hanno mai concepito, neppure in sogno, una negazione di Dio altrettanto potente di quella che c’è nel “Grande Inquisitore” e nel precedente capitolo… Io non credo in Dio come un fanatico. Ed essi volevano ammaestrarmi e ridevano perché ero retrogrado! Ma le loro stupide nature non hanno mai immaginato una negazione così potente come quella che ho vissuto io”.
I due personaggi chiave intorno ai quali ruota tutto il romanzo sono Alesa e Ivan. Benché non immuni dalla bramosa e famelica voglia di vivere karamazoviana, da quella sensualità quasi animalesca che contraddistingue il padre Fedor e il fratello Dmitrij e che è fonte di tante disgrazie, essi tuttavia si collocano ai due poli opposti della scala umana dei sentimenti, Alesa simboleggiando la vita spirituale e Ivan quella intellettuale. Ho già accennato al fatto che in Dostojevskij questi due poli sono così vicini da sfiorarsi in continuazione: quindi, è vero che Alesa è il modello di virtù e Ivan l’eroe negativo, ma nel corso del romanzo i ruoli sembrano sul punto di rovesciarsi più e più volte. In particolare, alla radice di entrambi, ciò che li fa essere così unici e diversi, c’è il problema di Dio. Già nelle pagine introduttive, ad esempio, Dostojevskij conclude che “se Alesa avesse deciso che l’immortalità e Dio non esistono, sarebbe diventato subito un ateo o un socialista”. E più oltre si vedrà come anche le convinzioni etiche di Ivan siano determinate principalmente dal suo particolare approccio alla religione.
Alesa è un adolescente spiritualmente libero e animato da un tranquillo e fermo amore per l’umanità. Ha un cuore caldo e nostalgico e perennemente si irradia da lui una luce di gioia e di chiarezza. In Alesa vi sono molti tratti profondamente cristiani: egli è incapace di serbare memoria delle offese ricevute, poiché il suo spirito ignora risentimenti e rancori, non giudica mai ma si limita ad ascoltare e a distinguere il giusto dall’ingiusto, senza approvare quando approvare non è possibile ma anche senza mai condannare, e infine non si dà mai pensiero del domani, come dimostra il fatto che “mai si preoccupava di sapere a spese di chi vivesse". La caratteristica che di Alesa più mi ha impressionato è pero la sua sincerità. Egli è talmente sincero da confessare persino le cose più imbarazzanti. Di fronte al perfido Rakitin, che lo incita ad ammettere di avere già pensato tra sé all’eventualità che avvenga un delitto nel seno della sua famiglia, Alesa confessa con candore: “Io… io… non credo d’averci pensato, ma quando m’hai cominciato a parlare così sibillino, m’ha quasi preso l’idea di averci pensato anch’io”. C’è in Alesa una forza di verità che non solo non mente ma afferma apertamente quello che è, a dispetto di tutte le convenzioni. In una scena di particolare intensità, che lo vede insieme a Ivan e a Katerina Ivanovna, una ragazza orgogliosa che dentro di sé forse ama Ivan ma si costringe ad amare Dmitrj come paradossale reazione ad una cocente umiliazione da questi ricevuta, Alesa confida all’interdetto uditorio: “Forse a dirlo non faccio bene, ma debbo tuttavia spiegar quello che sento… ho compreso, come per illuminazione improvvisa, che voi non amate mio fratello Dmitrij, fin da principio non l’avete amato… E davvero non so come m’azzardi a dir tutto ciò, ma qualcosa bisogna pur dire nel modo più schietto… perché qui non c’è nessuno che dica le cose come stanno…”. Talvolta la sua sincerità trasforma il semplice fatto di dire il vero in un atto quasi religioso, come quando, quasi fuori di sé, dice a Ivan: “Tu hai accusato te stesso, a te stesso hai confessato che l’assassino non potevi essere altro che tu. Ma non sei stato tu a uccidere, tu sbagli, non sei tu l’assassino, mi capisci? Non sei tu. Dio mi ha mandato a te perché te lo dicessi”.
Dal suo canto, Ivan è un giovane intellettuale, fortemente innamorato della vita, a dispetto della logica (“Che io non creda nell’ordine delle cose, però mi son care le umide e vischiose foglioline che si schiudono a primavera, mi è caro il cielo azzurro, mi son care certe persone che, talvolta, credimi, nemmeno sai perché le ami”), ma privo di quell’unità interiore, di quell’energia creatrice che solo il cuore può dare. Ivan è prigioniero di un orgoglio immenso, retaggio di uno spirito solitario e distante. Dostojevskij ce lo presenta, all’inizio del romanzo, mentre sostiene l’aberrante teoria che, con il venir meno della fede nell’immortalità, tutto diventa lecito all’uomo, persino il delitto. In realtà, Ivan e Alesa sono due facce della stessa medaglia: Ivan nega ciò che Alesa afferma, ma l’affermazione di Alesa ha valore solo come risposta alla negazione di Ivan.
In tre stupendi capitoli del libro quinto, Ivan svela ad Alesa la propria visione del mondo. Nonostante che di fronte allo stesso Alesa e al padre avesse affermato recisamente che Dio non esiste, Ivan è in realtà disposto a credere nella sua esistenza e nella necessità del concetto di Dio. “Accetto Dio, e non soltanto volentieri, ma oltre a ciò accetto anche la Sua sapienza, credo nell’ordine, e che l’esistenza abbia uno scopo; credo nell’armonia, e che in essa dovremo tutti, quando che sia, riunirci”. Tuttavia, Ivan, pur accettando teoricamente Dio, rifiuta il mondo da lui creato, e lo fa in una maniera così convincente e inoppugnabile da lasciare completamente interdetto Alesa. Per argomentare la sua rivolta, Ivan narra al fratello diversi episodi di inaudita violenza e crudeltà aventi per infelici protagonisti dei fanciulli. “Immaginati un po’: un bambino che poppa fra le braccia della madre tremante, e intorno i Turchi. Essi hanno ordito una piacevole burla: accarezzano il bambino, ridono per farlo ridere, e la cosa riesce: il bambino ride. In quel momento un turco punta una pistola a quattro palmi dal suo visino. Il fanciullo ride tutto contento, allunga le manine per afferrare la pistola, e ad un tratto l’artista tira il grilletto e gli manda in pezzi la testina… Una cosa d’arte, non è vero?”. E poi c’è la bimba selvaggiamente picchiata con la frusta dai due rispettabili genitori; c’è la bambina rinchiusa per tutta la notte in un cesso che “si dibatte al buio, al freddo, e col piccolo pugno colpisce il suo petto straziato e piange, innocente, lacrime di sangue, miti lacrime, invocando il «piccolo Dio» che accorra in suo aiuto”; ed infine c’è il fanciullo fatto sbranare dai cani davanti alla madre per avere inavvertitamente ferito con un sasso ad una zampa il levriero prediletto del ricco e potente generale (“Sembra che il generale sia stato leggermente punito”, aggiunge Ivan con macabro humour). Di fronte a tutto questo orrore, la mente umana vacilla e si perde, incapace di trovare una qualsiasi giustificazione. “Capisci tu perché sia stato necessario permettere una cosa tanto assurda? Ma senza tanto assurdo, dicono, l’uomo non potrebbe vivere sulla terra, perché non conoscerebbe che cosa è bene e che cosa è male. Ma perché stabilire questa distinzione tra bene e male, questa diabolica distinzione, una volta che costa tanto cara?”. La requisitoria di Ivan è sottile e implacabile, e invade il terreno della fede, cioè punta diritto al cuore di Alesa. “Io voglio esistere quando, tutto ad un tratto, tutti sapranno la causa di tutto… Ma ecco, i bambini, che ne farò allora di essi? Ecco la questione cui non posso rispondere… Perché anche loro caddero come materia e concime per una qualche futura armonia?… Comprendo il gaudio dell’universo quando nel cielo e sotto terra sarà tutto un inno di lode, e tutto ciò che vive ed è vissuto griderà: «Tu hai ragione, Signore, poiché le tue vie si sono rivelate!». Quando la madre abbraccerà colui che le straziò il figlio e tutti e tre grideranno piangendo: «Tu hai ragione, Signore!» allora la conoscenza verrà glorificata e tutto sarà spiegato. Ma ecco, qui sta la questione, io non posso accettare tutto ciò… Finché c’è ancora tempo mi affretto a preservarmi da questo, e non ammetto quindi assolutamente la più alta armonia. Essa non vale le lacrime della bambina straziata che si batte il petto col piccolo pugno e prega il «piccolo Dio» con le sue lacrime non riscattate… Troppo hanno avuto a cuore l’armonia; ma il suo prezzo non è per le nostre tasche. E perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso… Non è che io non accetti Dio, Alesa, soltanto gli restituisco nel modo più rispettoso il biglietto”. Appunto in questo “rifiuto di complicità” consiste la rivolta di Ivan: egli tira le somme e conclude che, finché la malvagità del mondo rimarrà a smentirlo, non è possibile credere in Dio, non è possibile credere nella Provvidenza e consolarsi nel mito di un sopramondo che giustifichi ciò che di assurdo e di bestiale vi è nella vita. Dostojevskij mostra di avere un grandissimo rispetto per le tesi di Ivan, perché qui siamo veramente di fronte al problema dei problemi, quello del male e della sua tollerabilità. Quante volte noi stessi, magari in modo inconsapevole, ci siamo posti le stesse domande, in presenza di episodi di ingiustizia e di sofferenza? Quante volte abbiamo dovuto reprimere in noi stessi i fremiti di ribellione di Ivan, perché ci sentivamo di fronte a qualcosa di troppo più grande di noi? Dostojevskij decide coraggiosamente di non eludere il problema: egli non avrebbe mai permesso ad alcuna teoria di trascinarlo a negare un aspetto dell’esperienza che gli si presentasse come autentico. Qual è allora la sua risposta? L’autore ce la fornisce indirettamente nell’arco di tutto il romanzo con le parole e gli atti di Alesa, di Zosima, dello stesso Dmitrij. Dostojevskij sa infatti perfettamente che a Ivan non si può rispondere nei suoi termini. Quando Ivan domanda ad Alesa: “Immaginati d’esser tu a costruire l’edificio della sorte degli uomini, e di dar loro, in ultimo, pace e quiete, ma che per ottener ciò sia necessario e inevitabile tormentare soltanto una minuscola creatura, ecco: quella stessa bambina che si colpiva col piccolo pugno il petto, e sulle sue lacrime invendicate costruire questo edificio; accetteresti d’essere un tale architetto a queste condizioni?”, questi è costretto ad ammettere: “No, non accetterei”, e non potrebbe rispondere altrimenti. Ma la questione deve essere affrontata in un modo diverso. Abbiamo or ora visto che la conclusione di ordine razionale che Ivan ricava dall’esame della realtà è che l’ingiustizia è inerente alla struttura del mondo e non può essere eliminata. A questo punto l’alternativa è: o rifiutare ogni compromesso con questo stato di cose che ci sovrasta e spaccarsi la testa contro di esso, oppure accettare tale situazione, convivere con essa e, al suo interno, adoperarsi per cercare una via personale alla felicità. La seconda è la strada fiduciosamente imboccata da Alesa; la prima è invece la sterile alternativa di Ivan, che Dostojevskij utilizza come monito per dimostrare l’errore di fondo su cui si reggono tutte le dottrine razionaliste e materialiste, socialismo compreso.
Il pensiero di Ivan viene inteso compiutamente solo se si leggono le suggestive pagine del “Grande Inquisitore”, nelle quali viene espresso, da un lato, il rapporto implicito nel conflitto tra Dio e la libertà e, dall’altro, lo sforzo dell’ateismo di portare il cielo sulla terra facendo a meno di Dio. Il senso della leggenda è, a grosse linee, il seguente. Cristo è venuto sulla terra per dare agli uomini la piena libertà spirituale e la responsabilità assoluta delle loro azioni. Così facendo, egli ha però gettato sulle spalle degli uomini un peso insopportabile. Gli uomini sono stati sì resi liberi, ma hanno avuto paura di questa libertà (“Nulla è più attraente per l’uomo della libertà di coscienza, e nulla tuttavia gli è di più tormentoso”). Essi si sono rivolti allora alla Chiesa, cercando un conforto, una guida: sulla soglia della Chiesa hanno deposto la loro libertà, chiedendo che ci fosse qualcuno che decidesse per loro. Cristo ha parlato inoltre soltanto di un pane celeste, ma gli uomini hanno bisogno soprattutto di un pane terreno. Nell'ottica di Ivan, ciò vuol dire soprattutto che Cristo ha permesso il male nel mondo in nome di una ricompensa futura. La Chiesa ha cercato di attenuare il male che Cristo ha fatto: al posto della libertà ha perciò messo l’”autorità”, al posto dello spirito il “miracolo”, al posto della verità il “mistero” (non il mistero implicito nella fede, ma la magia, la superstizione). Ora il popolo vive come un gregge sereno e pasciuto: ha i piaceri, la sicurezza e si sente felice. Per assicurargli la sua parte di felicità, la Chiesa si è levata contro Dio e si è consacrata a Satana. Ma per Ivan, gli uomini che hanno corretto l’opera di Cristo non sono esseri diabolici: sono uomini che dapprima hanno cercato di percorrere la via dell’elezione ma che poi un giorno si sono ricreduti e non hanno più potuto sopportare un mondo siffatto, un’esistenza cristiana troppo esigente per i più, che finivano col disperare, dove i pochi, nonostante i loro sforzi, forse avrebbero fallito ugualmente, e dove la sofferenza non aveva più fine. Il significato della leggenda, a questo punto, appare evidente: più che essere un attacco alla Chiesa cattolica, come molta parte della critica ha affermato, essa è il punto d’arrivo della logica euclidea di Ivan. Il Grande Inquisitore che rivolge il lungo discorso di rimprovero al Cristo ridisceso tra gli uomini altri non è infatti che Ivan stesso. In questo amaro apologo Ivan esprime coscientemente il rifiuto di riconoscere questo mondo e il desiderio di strapparlo dalle mani di Dio per dargli un ordine diverso e migliore. La sua filosofia, volta a distruggere nell’uomo l’idea di Dio, potrebbe preludere a una sorta di socialismo idealista e riformatore (“Una volta che l’umanità abbia voltato le spalle a Dio, nel modo più spontaneo, senza antropofagia, l’antica concezione del mondo dovrà cadere, e quel che più conta tutta la vecchia morale, e cominciarne una nuova. Gli uomini faranno allora lega per prendere dalla vita tutto quanto può offrire, ma soltanto per essere contenti e felici, in questo mondo”). In realtà, c’è un insormontabile ostacolo che impedisce a Ivan la realizzazione di questi nobili impulsi: la mancanza di fede nell’uomo. Alla base della leggenda del “Grande Inquisitore” c’è infatti la convinzione che gli uomini vadano trattati come massa e non possano aspirare se non a una felicità mediocre. Mi sembra importante ricordare che, in precedenza, Ivan aveva confessato ad Alesa: “Non ho mai potuto capire come sia possibile amare la gente che ci sta vicino. E’ precisamente tal gente che non è possibile amare, forse chi ci sta lontano sì… Secondo me, l’amore del Cristo su questa terra è un miracolo impossibile. Certo, egli era Dio. Ma noi non siamo dei”. A Ivan manca completamente la virtù trasformatrice dell’amore che Alesa invece possiede in sommo grado. Egli è un intellettuale scettico e solitario, arroccatosi in una torre d’avorio e convinto di essere l’unico ad avere una chiara nozione del vero.
All’inizio di questa recensione avevo detto che è il problema di Dio a determinare il carattere dei protagonisti del romanzo. Ora ribadisco che alla radice dell’atteggiamento di Ivan c’è proprio l’incredulità. Così come Ivan crede in Dio ma, per mancanza di fede, cioè per incapacità di accettare le disarmonie del mondo, gli si ribella, allo stesso modo, prendendo a prestito le parole di Alesa, “egli non disprezza nessuno, ma anche non crede a nessuno; e se non crede, allora vuol dire anche che disprezza”. Il suo ateismo (con una felice intuizione, Ivan è stato definito un credente ateo) lo spinge ad arrogarsi il diritto di sorvolare sulla distinzione, valida per la maggior parte degli uomini, tra bene e male. E’ la teoria, già accennata in precedenza, del “tutto è permesso”. In base ad essa, Ivan finisce per sostituire il suo intelletto alla legislazione divina ed autoeleggersi uomo-dio. Dei perversi effetti di questo superomismo, che legittima anche il delitto più efferato dal momento che l’immortalità non esiste, Ivan non sembra rendersi conto appieno. Egli si serve della sua teoria per divenire irresponsabile di fronte al mondo, dichiarandolo irrazionale, si limita a desiderare l’assassinio del padre sapendo che non arriverà mai a commetterlo. Invece Smerdjakov prende i suoi discorsi ed il suo ambiguo comportamento come un’autorizzazione a procedere e compie senza scrupoli l’omicidio. La responsabilità, sotto forma di istigazione e di complicità morale, viene quindi a ricadere pesantemente su Ivan. In questa circostanza, la teoria dell’uomo-dio di Ivan si rivela una costruzione fatiscente, incapace di reggere l’impatto con la realtà. Egli non appare cosciente della propria influenza nefasta, o meglio è convinta di poterla dirigere in un ambito esclusivamente teorico, a profitto e verifica delle proprie dottrine. Ma queste dottrine iniziano, da un certo punto in poi, a sfuggire di mano al loro creatore, a vivere di vita autonoma, e Ivan si accorge di colpo di essere attanagliato da un atroce complesso di inferiorità che gli impedisce di seguirle fino ai loro estremi sviluppi. Il cinico e orgoglioso Ivan, che sembrava inattaccabile nella sua sicumera, diventa una patetica figura senza più certezze, il novello Prometeo pronto a innalzarsi al livello di Dio non è più nemmeno in grado di sopportare il confronto con il vile e spregevole Smerdjakov. Alesa, nella sua chiaroveggenza, comprende tutto ciò e quando dice a Ivan, nella scena già citata in precedenza, “non sei tu che hai ucciso il babbo”, vuole significare: “L’origine del delitto non è in te; non è un atto della tua volontà sovrana. Tu non sei il Grande Inquisitore, il bestemmiatore di Dio, che si è arrogato il diritto di decidere del bene e del male ed ha permesso agli altri il delitto. L’idea dell’assassinio non l’hai concepita tu, quell’atto non l’hai voluto tu. Non sei, come credi, un essere superiore, ma soltanto un pover’uomo sedotto da Satana, e per questo non sei ancora perduto ed hai aperta la via della salvezza, perché puoi pentirti”. Ivan non si salverà ma, non essendo capace di rinunciare al suo orgoglio e di sottomettersi al volere divino, cadrà preda della follia. Proprio nell’episodio che anticipa la malattia di Ivan, quello cioè dell’apparizione del diavolo, si registra un profondo anelito alla redenzione (“Ed ecco, io te lo giuro su quanto c’è di più sacro, anch’io avrei voluto unir la mia voce al coro di tutti e gridare: «osanna»”), il quale però non riesce a tradursi in realtà e volontà sincera (“Ma il buon senso, oh, la più disgraziata delle mie facoltà!, poté trattenermi nei limiti dovuti, e io lasciai passare quell’attimo! Infatti, dopo il mio osanna, che cosa potrebbe succedere?… Addio termine negativo tanto necessario”).
Nel descrivere il personaggio di Ivan, Dostojevskij esprime la sua profonda sfiducia nel razionalismo. Lo smodato orgoglio di Ivan, che è la causa prima del suo delirio di onnipotenza, è dovuto infatti alla convinzione che la scienza e l’intelligenza siano sufficienti allo sviluppo della vita umana. L’uomo razionale, cioè, si autoconvince di non aver bisogno né degli altri uomini né di un aiuto metafisico, incurante del fatto che questa strada lo porta verso l'isolamento e il suicidio spirituale. C'è un personaggio de “I fratelli Karamazov” che mi sembra più eloquente di tutte le parole che su questo argomento si possono dire: è Kolja, un quattordicenne sensibile e intelligente, ma già sulla via della corruzione a motivo del suo gigantesco amor proprio. Kolja è un Ivan ragazzo, e per suo tramite Dostojevskij credo voglia stigmatizzare il comportamento di coloro che, per andar dietro alla scienza e all’orgoglio intellettuale, perdono quella fanciullesca semplicità, quell’ingenua e fiduciosa disponibilità ad amare che deve essere propria dell’uomo di fede. All’antirazionalismo dostojevskijano si può affiancare l’avversione per le dottrine materialiste e socialiste. Il socialismo, come è noto, vorrebbe che l’uomo determinasse il suo destino in termini esclusivamente storici, negando la validità o per lo meno la necessità di agenti metafisici. Secondo Dostojevskij, il rifiuto di Dio, che il socialismo presuppone, implica come ovvia alternativa la felicità senza la libertà, la mancanza di valori, la menzogna. Nel corso del romanzo, incontriamo diverse figure di umanisti, di liberali e di socialisti, dal velenoso Rakitin al vacuo Miusov, e Dostojevskij non si lascia mai sfuggire l’occasione di denunciare il velleitarismo, l’ambiguità e l’ipocrisia dei loro tentativi miranti a sostituire alla religione una sorta di meliorismo laico. Ma Dostojevskij non è, lo sappiamo bene, un propagandista e tanto meno un dogmatico, e difatti fa dire all’inizio del romanzo allo starec Zosima: “Non odiate gli atei, gli eretici, i materialisti, e badate che fra loro molti sono buoni, specialmente ai nostri tempi”, convinto che in molte epoche storiche l’uomo è stato migliore senza Dio che con Dio.
Accanto alla lussuria intellettuale di Ivan, nel romanzo troviamo la lussuria dei sensi di Dmitrij. Dmitrij è un uomo violento, intemperante e sventato, ma romantico e capace di slanci appassionati. Nonostante il lezzo ed il fango in cui si trova immerso fino al collo, nonostante i suoi vizi e i suoi difetti, egli è un cuore puro e generoso, che soffre come nessun altro l’offesa al proprio senso di onore delle bassezze commesse. In lui, più che in altri, Dostojevskij rivela la duplice, ambigua natura dell’uomo, la sua capacità cioè “di guardare ad un tempo in tutti e due gli abissi: quello che sta sopra di noi, abisso di alti ideali, e quello che sta sotto di noi, abisso della più bassa corruzione”. “Non mi importa di essere maledetto, basso e vile – dice ad Alesa – purchè possa anch’io deporre un bacio su uno dei lembi della veste che ricopre Iddio. Anche se per il momento do retta al diavolo, sono sempre uno dei tuoi figli, mio Dio! Ti amo, e sento e comprendo quella gioia senza la quale il mondo non potrebbe essere né durare”. Dmitrij incarna in fondo l’intero popolo russo, con la sua fede elementare e primitiva, ma incrollabile. Più ancora, egli simboleggia un principio caro all’autore, cioè che spesso solo cadendo nell’abisso è possibile redimersi. L’umanità derelitta e cenciosa, macchiata dal peccato, avvilita nell’abiezione e nella colpa, incontra Dio proprio nell’ora più buia e più triste, e davanti a lei, attraverso una profonda rigenerazione morale, si dischiude un senso nuovo della vita. Il destino di Dmitrij è emblematico: egli viene punito per un delitto che non ha commesso, ma accetta con cristiana rassegnazione l’ingiusto verdetto, disposto ad immolarsi in nome di Dio. Quando lo starec Zosima afferma che “ognuno di noi è responsabile di tutti e per tutto su questa terra” non possiamo non pensare al terribile sacrificio di Dmitrij, scottante materializzazione di questa fondamentale verità cristiana. Durante i preliminari di istruttoria, Dmitrij ha l’occasione di fare uno strano sogno e nella sua immaginazione passano immagini di case bruciate, di donne magre e dall’aspetto patito, di bambini che piangono. Il problema del male, sia pure inconsciamente, si affaccia quindi anche alla mente di Dmitrij. Ma mentre Ivan si rifugia, come si è visto, in un’implacabile quanto sterile immaginazione, il fratello, alle angosciose domande “perché quella gente è povera, perché la creaturina è ammalata, perché la steppa è nuda?”, reagisce con un’ansia febbrile di fare qualcosa contro l’ingiustizia, di aiutare il prossimo più sfortunato affinché non abbia più a soffrire. Quella di Dmitrij è la prima risposta positiva al nichilismo di Ivan. La seconda risposta, quella definitiva, ce la offre Alesa, il terzo fratello, l’angelo.
Ad Alesa ho avuto già modo di accennare all’inizio di questa trattazione. Quanto detto allora è sufficiente per capire che Alesa ha una grandezza di cuore innata, eppure in lui, accanto a slanci di santità, vi sono potenziali tendenze alla perdizione. Egli è il discepolo prediletto dello starec Zosima, di cui assorbe con filiale devozione gli illuminati insegnamenti religiosi, ma è influenzato anche da Ivan. E’ sbagliato perciò considerarlo un personaggio senza sfaccettature. Nell’episodio della morte dello starec, ad esempio, Alesa rimane profondamente deluso dalla “giustizia del cielo”, che ha consentito che il corpo dell’amato maestro in odore di santità fosse soggetto ad una accelerata putrefazione, e ciò lo porta a rifiutare momentaneamente il mondo di Dio, proprio come Ivan (Alesa è soprattutto disgustato dalla malignità degli uomini, cui piace sadicamente “la caduta del giusto e la sua ignominia). Ma Alesa riesce a superare la crisi, perché ha solide basi morali in cui credere. Egli ha soprattutto una fiducia innata e irresistibile nella vita. “«Io penso che prima di ogni altra cosa tutti dovrebbero nel mondo amare la vita». «Amare la vita più del suo significato?» (gli chiede Ivan). «Precisamente così, amarla più della logica, e soltanto allora ne comprenderemmo il significato»”. La vita si comprende solo vivendo e se ne intuisce il senso solo se non lo si cerca. Per Dostojevskij, esso è talmente semplice che la scienza non può aiutare a cercarlo. E nemmeno la logica: perché la vita è al di là della logica.
Per Ivan la vita è l’inferno, è il generale con i suoi cani, è il padre che prende a vergate la figlia indifesa. L’errore di Ivan è quello di riversare la malvagità degli uomini su Dio e di credere che solo senza Dio l’umanità potrà migliorare e salvarsi. Persino l’ingenua fede di Dmitrij capisce però che così non può essere: “Se lui non c’è, vuol dire che l’uomo della terra è il signore. Magnifico! Soltanto, come farà l’uomo ad essere virtuoso senza Dio? Ecco il problema… Chi potrà amare allora, l’uomo? Chi ringraziare, a chi cantare un inno?”. Ecco invece che Alesa e Zosima capovolgono la prospettiva di Ivan. “La vita è un paradiso – dice Zosima, ricordando le parole del fratello Markel – e noi non vogliamo saperlo, ma se lo volessimo sapere, anche domani sarebbe nel mondo tutto un paradiso”. “Paradiso”, secondo lo starec, significa però uno stato in cui il mondo e Dio non sono due realtà separate, ma il mondo è in quanto esiste Dio e il desiderio divino d’amore si compie in quanto Dio può aprirsi nella creatura che si è data a Lui. Per realizzare il paradiso in terra bisogna non solo riuscire ad amare il prossimo (“Io credo – dice Zosima – che l’inferno sia il dolore di non poter amare”), ma amarlo di un amore operoso e attivo: “L’amore attivo, credetemi, non ha nulla a vedere coi sogni; è una cosa crudele e terribile. Poiché l’amore contemplativo brama sollecite gesta, vuole essere subito soddisfatto, ammirato. Con questa specie d’amore si arriva, sì, fino al punto di sacrificare la vita, purché la prova non abbia troppo a durare, ma si compia al più presto, quasi come sulla scena, in modo che tutti ammirino e lodino. Ma l’amore attivo è fatica, è costanza…”. Quello proposto da Zosima è un duro stile di vita, ma non vale l’obiezione di Ivan sopra riportata che gli uomini non sono dei. Dio infatti non pretende dagli uomini la perfezione. Quello che importa è, prendendo a prestito la poetica immagine di Grusenka (un personaggio che nello spirito si avvicina molto a quello di Dmitrij), “dare una cipolla”, fare cioè quel che si può, ma farlo, senza prendere come scusa la propria debolezza per non fare niente. E non fa nulla se si sbaglia, perché c’è sempre in serbo il perdono e la possibilità del riscatto. Per questo motivo, Dmitrij, nonostante la sua debolezza, è di gran lunga migliore di Ivan, il cui ipertrofico sviluppo intellettuale porta solo all’inerzia. La vita dello stesso starec Zosima ha percorso un travagliato cammino, che lo ha portato dalla sregolata e viziosa vita mondana fino alla sofferta redenzione e alla santa missione monacale. La conversione di Zosima è operata proprio nel punto di maggior resistenza: i rapporti sociali tra persona e persona, e in particolare fra padrone e servitore. “Qual è il mio merito che un altro uomo, tale e quale come me, fatto a immagine e somiglianza di Dio, debba servirmi?… Anch’io vorrei essere servitore dei miei servitori, al modo stesso che loro mi servono”. Da questo fondamentale concetto di fratellanza universale, discende l’altro principio essenziale della religiosità dostojevskijana: “ognuno è colpevole in tutto verso gli altri”. Non si tratta della colpa derivante dal peccato originale, ma della colpa che presuppone la solidarietà umana nel peccato e la fine del terribile isolamento in cui vivono gli uomini.
Confesso di non trovare completamente convincenti le dottrine di Zosima. A prescindere dal fatto che il personaggio di Zosima, e di riflesso quello di Alesa, appaiono scoloriti e quasi insipidi rispetto ai tormentati personaggi di Ivan e Dmitrij, il compendio elevatissimo di sublimi virtù che Dostojevskij propone come risposta all’ateismo di Ivan non riesce quasi mai ad elevarsi al di sopra di una edificante predicazione e di un alto catechismo. Proprio là dove viene esaltata la grandezza del mistero religioso si aprono imbarazzanti falle logiche. Ad esempio, l’episodio biblico di Giobbe (che in sé è in grado di riassumere l’intero senso della requisitoria di Ivan sul male del mondo) è giustificato dallo starec con queste parole: “Il vecchio dolore, per un grande mistero della vita umana, adagio adagio si trasforma in una tenera letizia”. Un po’ poco, mi sembra, per confutare lo sdegno di Ivan per l’irrazionalità dell’esistenza. Il fatto è che alcuni presupposti dell’impalcatura dostojevskijana mi sembrano assai deboli. In primo luogo, la supremazia della morale cristiana di Alesa e di Zosima si fonda in gran parte sulla negatività della logica distorta di Ivan. Ma, qui sta l’errore, la logica del personaggio Ivan non può essere fatta coincidere, come invece fa Dostojevskij, con la logica umana tout court. C’è una bella differenza tra il condannare il razionalismo superomistico di Ivan, sicuramente sbagliato, e il condannare, insieme ad esso, tutte le teorie fondate sulla scienza e sul razionalismo, in quanto ritenute intrinsecamente ingannevoli e fallaci. Facendo ciò ci si colloca irrimediabilmente su posizioni utopistiche e antistoriche. Ma c’è di più. Zosima e Alesa brandiscono troppo disinvoltamente il principio che senza Dio non ci possa essere amore. In realtà, tra le righe de “I fratelli Karamazov”, si legge soprattutto una meravigliosa fede nell'uomo, anche se poi Dostojevskij si ostina a subordinarla alla fede in Dio. Il valore basilare che emerge dal romanzo è quello umano, imperniato sulla integrità ed inviolabilità dell’io individuale e sull’anelito ad una fratellanza universale. Spero di non essere considerato blasfemo se affermo che ne “I fratelli Karamazov” Dio è soprattutto tormento, eterno problema che affatica la mente e lacera l’esistenza degli uomini. A risplendere sul mondo enigmatico e colpevole dell’uomo è invece l’immagine luminosa di Cristo. E’ lui il vero, insostituibile punto di riferimento, ed è lui a ristabilire quella prospettiva terrena che mi preme venga riconosciuta al romanzo. Solo così è possibile far convivere l’umile e gioioso amore di Alesa con lo sconsolato atteggiamento di Ivan, il paradiso e l’inferno, ed apprezzare in giusta misura un romanzo che si rivela, nella sua capacità di “scrollare ogni briglia ideologica”, un inarrivabile capolavoro.
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