Dettagli Recensione
IL POEMA DEL RIMPIANTO
“Sono come un uomo che sbadiglia a un ballo, ma non torna a casa a dormire solo perché non è ancora arrivata la sua carrozza. Ma appena la carrozza sarà pronta? Addio, allora.” (Michail Jurevic Lermontov)
“Evgenij Onegin” è un poema-romanzo dalla struttura estremamente complessa, nel quale si fondono, unificate dall’inimitabile stile puskiniano, molteplici intonazioni diverse: vi si trovano il tono sentimentale e quello satirico, l’elemento realistico e quello fantastico-onirico, la componente lirica e quella filosofica. Alla stessa stregua, la storia dell’”Onegin” può essere letta come quella di un amore affatto privato oppure, addentrandosi fra le righe, come il ritratto, più o meno realistico, più o meno oggettivo, di una generazione o addirittura di un’intera nazione. Non importa il punto di vista che si sceglie, perché i punti di vista sono tanti, e tutti indifferentemente legittimi. A me per esempio è piaciuto privilegiarne uno molto ristretto, forse parziale, ma a mio avviso affascinante. Ho deciso infatti di lasciare un po’ in disparte la figura di Evgenij, intesa sia come centro di rapporti con gli altri personaggi sia come precursore dei numerosi anti-eroi della letteratura russa successiva (da Pecorin a Oblomov), per concentrarmi su un particolare aspetto dell’opera puskiniana: la poetica del rimpianto.
“Evgenij Onegin” è, tra le altre cose, il poema degli addii: addio all’amore, addio alla giovinezza, addio ai romantici luoghi delle estati agresti. Emerge in continuazione, spesso slegata dalle esigenze dell’intreccio romanzesco, una vena malinconica e mesta che impregna di echi lirici e musicali le rime apparentemente distaccate dell’autore. Trasfigurato dall’ispirazione di Puskin, il tempo della narrazione non è più assimilabile al convenzionale presente della finzione letteraria, ma diventa quello di un passato ineluttabilmente lasciato alle spalle. Già i primi capitoli sono disseminati, sia pure in maniera molto sfumata, quasi a voler sembrare casuale, di fugaci accenni alla perdita della giovinezza: la nostalgia delle attrici e delle ballerine di una volta, inesorabilmente rimpiazzate da nuove e non più familiari fanciulle (“Col mesto sguardo non scorgerò / più i volti noti su una scena di noia”), la rievocazione dei “bei piedini” delle ragazze amate in gioventù (“Svanì la gioia giovanile / come la vostra orma gentile”), sono tutti pretesti per mostrare l’implacabile trascorrere del tempo. La distanza dagli anni giovanili è misurata tutta in termini sentimentali: il costante affiorare di un antico desiderio, mai sopito perché mai soddisfatto, sancisce con la sua sproporzione nei confronti dei sempre più flebili moti del cuore, l’impossibilità di tornare ad amare come una volta. “D’ogni età è amore; ma i suoi assalti / al giovin cuore salutari / sono come per i campi / a primavera i temporali: […] ma nell’età del declinare, / negli anni sterili, è tristezza / l’orma di una mortale ebbrezza: / fredda tempesta autunnale, / trasforma in palude il prato / e il bosco intorno ne è spogliato”.
Da questa inadeguatezza nasce il rimpianto, doloroso e pungente, mascherato appena da una intonazione a tratti sarcastica, a tratti cinica e disillusa. Lo stesso solipsistico elogio dell’egoismo e dell’individualismo (“Tu, di fantasmi inseguitore, / non sprecare più sforzi adesso, / ma unicamente ama te stesso”) non riesce a nascondere la delusione per la caduta delle illusioni e delle speranze giovanili. L’autore ironizza sì sul candore e sull’ingenuità di Lienskij, che dell’amore e del matrimonio vede solo i lati piacevoli, senza immaginare “di Imene i guai e gli scompigli / e il freddo turno degli sbadigli”; ma poi, in un accesso di sincerità, confessa: “Cento volte beato chi / fa tacere il ragionamento, / si affida al tenero suo cuore / come l’ebbro viaggiatore / all’albergo […] / Ma infelice chi sa già tutto / chi raggelato dall’esperienza / proibisce al cuore ogni demenza!”
Eppure, nonostante il disincanto di chi ha capito da tempo l’ineluttabilità della propria condizione, trapela a volte un attonito stupore, quasi che il poeta non riesca ancora del tutto a capacitarsi di avere definitivamente archiviato un’età della propria vita che prometteva di essere infinita. “Dov’è, miei sogni, la dolcezza, / rima eterna di giovinezza? / Davvero è appassita, è appassita / la ghirlanda della mia vita? […] / Davvero non tornano gli anni? / Davvero presto avrò trent’anni?”
La perdita della giovinezza, l’ingresso nel pomeriggio della vita, trova una felice corrispondenza nel ciclico susseguirsi delle stagioni. E’ soprattutto l’arrivo della primavera (il “mattino dell’anno”) ad ispirare, con il doloroso contrasto tra la vitalità della natura rifiorita e l’aridità del cuore appassito, una indicibile malinconia: “Com’è triste per me il tuo apparire, / primavera! Tempo d’amore! / Quanto agitato languire / nel mio sangue, nel mio cuore! […] / O forse estranea m’è ogni gioia / e tutto che rallegra e vive, / tutto ciò che brilla e ride, / porta solo tormento e noia / alla mia anima ormai spenta / che tutto tenebra gli sembra?”
Ma la primavera porta con sé anche il ricordo di antiche passioni e di notti arcane, di amori puri e appassionati ma – ahimè – sprecati con incosciente leggerezza. Davanti agli occhi del narratore scorrono, in un lugubre flashback, le immagini del proprio passato, quelle di Tatjana (“la mia cara Tatjana”) e del suo amore egoisticamente rifiutato dal protagonista, e ancora quelle dell’amico Lienskij, ucciso in duello e sepolto in un boschetto sotto “un pino antico”. In questa lunga carrellata di errori e, ancor peggio, di occasioni sciupate, la commozione è talmente sincera e autentica (anche se virilmente dignitosa e artisticamente controllata) che viene quasi naturale sovrapporre la figura dell’io narrante a quella di Onegin e di identificare l’uno con l’altro. Non si tratta, una volta tanto, di cedere alla tentazione di interpretare il romanzo in termini autobiografici. L’opera puskiniana è così stratificata, così ricca di piani di narrazione e di punti di vista, che anche ad una lettura poco approfondita di essa appare evidente che in più di un’occasione l’autore Puskin risulta terzo rispetto all’io narrante e questi a sua volta differisce dal protagonista. Eppure, se è innegabile che Puskin abbia messo, come è stato dimostrato da più di un autorevole critico, moltissimo di sé nell’”Onegin”, è altrettanto vero che il poeta che racconta la vicenda ha innumerevoli punti in comune con l’eroe, al punto che gli elementi di diversità (Onegin, ad esempio, non sa scrivere versi) o di incongruenza (la rivelazione dei meccanismi creativi del romanzo mette in risalto la natura fittizia, inventata dei personaggi) sembrano quasi essere stati accentuati ad arte per impedire una sgradita e imbarazzante identificazione. Non mi sembra davvero il caso di investigare a fondo sugli argomenti a favore di questa teoria (come la lettera di Tatjana, che nel terzo capitolo è davanti al poeta mentre nell’ottavo si dice essere nelle mani di Evgenij), a maggior ragione se si pensa che essa per me non è nulla più di un abbandono (illogico e irrazionale, perché no?) alla suggestione di immaginare un Onegin invecchiato che rievoca, in un raptus sublime di alienazione artistica, la propria privata vicenda come se fosse quella di una terza persona. C’è forse in lui il desiderio-necessità di trasfigurare il passato, di idealizzare gli anni giovanili “di ozio e di eccitamento” pieni, e a questo scopo il poeta si affida all’arte come all’estrema opportunità di salvezza. “Ma tu, giovane ispirazione, / muovi la mia immaginazione, / rianima il cuore sonnolento, / vola al poeta più sovente, / che tu non lasci raggelare / l’anima mia, né inacerbarsi, / né infine pietrificarsi / in questa ebbrezza mortale / del gorgo, dove sono immerso / con voi, cari amici, e perso!”
Ma neppure l’arte è in grado di modificare la percezione della propria vita, e un senso di tradimento (non solo perpetrato ma anche subito) e di rimorso per ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato è tutto quello che rimane in fondo all’animo. “Ma triste è pensare che invano / la giovinezza ci fu data, / che sempre tradita l’abbiamo / e che essa ci ha ingannato; / che le migliori aspirazioni, / le nostre più fresche visioni, / come foglie sono marcite / in un autunno infracidite.”
Il tempo, anziché suturare le ferite, le riapre impietosamente sotto forma di un invincibile rimpianto, condannando il poeta al tremendo supplizio di non poter più liberarsi dai fantasmi della vita e di doverli trascinare con sé fino al sepolcro, sperando forse nella comprensione dei posteri. E’ difficile però pensare a un Onegin che invecchia banalmente come una persona qualunque: come tutti gli eroi dell’epoca romantica, anche lui si trova di fronte al “quinto atto”, al momento del trionfo o della morte. Leggiamo attentamente gli ultimi versi dell’ottavo capitolo, quelli che chiudono il romanzo: “Molto il destino ci rubò! / Beato chi lasciò il festino / della vita senza bere / tutto il vino del bicchiere, / non lesse il suo romanzo fino / in fondo e seppe dirle addio / d’un tratto, come a Onegin io.”
Se accettiamo l’idea dell’identità tra narratore e Onegin, si prefigura addirittura in queste strofe, clamorosamente, il suicidio di questi: lungi dall’immaginare per se stesso un futuro di rivoluzionario decabrista, il poeta-eroe, straziato dal rimorso, capisce mestamente di dover lasciare la scena. La carrozza finalmente è pronta e la fine del festino non ci appare più come la conclusione della fatica poetica di Puskin, ma diventa il commiato, l’addio alla vita di un’anima esasperata e crudelmente punita dal destino, ma che al destino, in un ultimo impeto di dignità e di orgoglio, si ribella.
Indicazioni utili
Commenti
4 risultati - visualizzati 1 - 4 |
Ordina
|
4 risultati - visualizzati 1 - 4 |