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Guerra e pace
 
Guerra e pace 2018-04-03 09:00:17 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    03 Aprile, 2018
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UN CLASSICO INDIMENTICABILE

“… di tutti gli scrittori che scoprì durante la sua reclusione, quello che le parlò di più fu Tolstoj, quel mago di Tolstoj, che aveva capito tutto della vita, secondo lei, tutto quello che c’era da sapere del cuore e della mente umana, maschile e femminile che fosse, com’era possibile, si chiedeva, che un uomo sapesse quello che Tolstoj sapeva delle donne, non aveva senso che un solo uomo potesse essere ogni uomo e ogni donna.” (da “4 3 2 1” di Paul Auster)

Nelle sue postille a “Il nome della rosa”, Umberto Eco si sofferma ad analizzare il significato da attribuire al romanzo storico e conclude che tre sono i possibili modi di raccontare intorno al passato. Il primo è quello, puramente immaginario e favolistico, del romance, dal ciclo bretone alla gothic novel passando attraverso le storie di Tolkien; il secondo è quello del romanzo di cappa e spada alla Dumas, in cui i personaggi storici sono utilizzati come mero pretesto per rendere più riconoscibile l’epoca narrata, mentre i personaggi di fantasia manifestano sentimenti che potrebbero essere indifferentemente attribuiti anche a personaggi di altre epoche; infine c’è il romanzo storico vero e proprio, in cui sia i personaggi dell’enciclopedia sia i personaggi inventati vivono, pensano e agiscono in un mondo che rimanda inequivocabilmente al passato, e ciò che essi fanno serve a far capire meglio ciò che è avvenuto, cioè la storia. “Guerra e pace” potrebbe a buon diritto essere fatto rientrare in quest’ultima categoria, insieme a capolavori come “I promessi sposi” o “La Certosa di Parma”, ma è davvero difficile resistere alla tentazione di considerarlo come un romanzo a se stante, incomparabile e inclassificabile, vuoi per la capacità di conferire un assoluto rilievo alla dimensione umana dei grandi protagonisti della storia (da Napoleone allo zar Alessandro e al generale Kutuzov) facendoli per la prima volta assurgere al ruolo di personaggi letterari veri e propri, vuoi per l’ambizioso tentativo di proporre una ampia e originale riflessione sul senso della storia.
Confesso di non amare particolarmente le pagine “storiche” di “Guerra e pace” e di non giudicarle, forse perché troppo tendenziose e filosofeggianti, tra le migliori in assoluto del romanzo, ma la lucidità e l’onestà di intenti che caratterizza l’analisi tolstojana, e l’importanza che le conclusioni raggiunte in questa sede dall’autore assumono, una volta applicate su scala più piccola, per la comprensione dei molteplici destini individuali, mi inducono a non parlarne in maniera frettolosa e superficiale. L’obiettivo di Tolstoj è dichiaratamente quello di smitizzare la storia e i personaggi che della storia sono i fautori. La scienza storica, da quando è sorta, tende infatti a spiegare gli avvenimenti attribuendoli sempre e comunque alla volontà di un solo individuo o di un numero ristretto di individui, siano essi condottieri, politici o pensatori. Il presupposto logico di una simile affermazione è che ogni volta che ci sono state le conquiste ci sono stati anche i conquistatori, ogni volta che si sono prodotti rivolgimenti negli stati si sono avuti grandi uomini, e ciò è dovuto, secondo gli storici, ad un preciso e innegabile rapporto di causa ed effetto. Con sottile e bonaria ironia, Tolstoj fa però osservare che se, “guardando il mio orologio, vedo che la lancetta si avvicina al numero dieci e sento che nella chiesa accanto le campane cominciano a suonare, dalla concomitanza di questi due fatti non ho il diritto di concludere che la posizione della lancetta del mio orologio è la causa del movimento delle campane”. In realtà, secondo Tolstoj, la storia non è affatto determinata dai grandi uomini, sebbene costoro si aggrappino vanamente all’illusione di dirigere il corso degli eventi. Durante la battaglia di Schoengraben, il principe Andrej, ascoltando le conversazioni di Bagration con i suoi ufficiali, nota con grande stupore che egli in realtà “non dava ordine alcuno, ma si sforzava soltanto di far credere che tutto ciò che capitava per forza del caso e per la volontà dei capi dei vari corpi si faceva solo per suo ordine o almeno conformemente alle sue intenzioni”. Questa singolare constatazione di Andrej si sposa bene con il paradosso tolstojano secondo cui più in alto si è nella piramide dell’autorità, più lontano ci si trova dalla sua base, e di conseguenza minore è l’effetto che si produce sulla storia. E’ sicuramente più esatto concepire la storia come la sommatoria di milioni di volontà individuali piuttosto che il prodotto della volontà di pochi uomini.
Come potrebbero, d’altronde, le volontà degli eroi determinare gli avvenimenti storici? La risposta sembrerebbe a prima vista estremamente semplice: per mezzo del potere. Ma a questo punto occorre spiegare in cosa consiste il potere, e se anche si concordasse sul fatto che il potere è la somma delle volontà trasferita in una sola persona non si risolverebbe il problema, anzi si entrerebbe in un circolo vizioso. A quale condizione infatti si trasferiscono le volontà delle masse in una sola persona? Probabilmente alla condizione che il personaggio eletto esprima la volontà di tutti. Così dicendo però si dimostra solo che il potere è il potere, vale a dire che il suo significato intrinseco ci sfugge. Ma se anche decidessimo di trascurare simili questioni, tacciandole di oziosità, e ci limitassimo ad osservare l’esperienza, la quale ci dice che la causa degli avvenimenti è la volontà di un uomo munito di potere e che tale volontà è espressa mediante gli ordini, non saremmo soddisfatti. Infatti, per ogni ordine eseguito, se ne hanno sempre moltissimi non eseguiti. Questi ultimi non sono attuabili perché non hanno alcun legame con gli avvenimenti; gli ordini eseguibili sono tali invece perché compatibili con la concatenazione degli eventi. In altre parole non sono gli ordini che precedono gli avvenimenti, ma viceversa; quindi un ordine non può essere la causa di un avvenimento, ma tra i due vi è tutt’al più un legame di interdipendenza. Osserva Tolstoj che “sull’esito di qualsiasi avvenimento sono tante e tali le previsioni che in qualsiasi modo questo evento poi si attui, si trova sempre della gente che dice: «Avevo detto fin da allora che sarebbe accaduto così», dimenticando che, fra le innumerevoli supposizioni, c’erano anche quelle del tutto opposte”. Nonostante la presunzione insita in questo modo di ragionare, gli storici hanno sempre buon gioco, a posteriori, nell’estrapolare dalla miriade di ordini che furono emanati un numero limitato di essi che concorda esattamente con gli avvenimenti prodottisi e nel supporre che tali avvenimenti siano derivati da questi ordini.
Per dimostrare, non solo dal punto di vista concettuale, la falsità di queste affermazioni, Tolstoj non esita a far uso di una satira mordace e beffarda. Riferendosi agli avvenimenti del 1812, vale a dire all’invasione della Russia ad opera dell’esercito francese, lo scrittore ribalta la tesi degli storici secondo le quali i Russi attirarono intenzionalmente i Francesi all’interno del loro paese, per fare terra bruciata intorno a loro e distruggerli all’arrivo della stagione fredda. Secondo Tolstoj, l’analisi dei fatti dimostra che né Alessandro né i capi militari russi avevano lo scopo preciso di attirare Napoleone indietreggiando, ma tendevano semmai al contrario. Se le cose andarono diversamente dalle intenzioni, che, lo ripeto, erano quelle di dar battaglia e di fermare a tutti i costi l'invasione del nemico, il motivo vero consiste esclusivamente nell’odio nutrito da Bagration nei confronti del comandante in capo dell’esercito, il tedesco Barclay de Tolly, e nel desiderio di riunire il più tardi possibile la propria divisione a quella dell’inviso superiore. “Tutto accade soltanto per caso”, come frutto di una serie incalcolabile di combinazioni e di coincidenze. Dietro a queste coincidenze (al cospetto delle quali diventano insignificanti e prive di importanza le cause a tutta prima più evidenti), Tolstoj vi scorge una legge necessaria e ineluttabile, ancorché non intelligibile. Riferire i fatti accaduti al caso non è infatti una spiegazione soddisfacente, ma semplicemente il risultato di una comprensione difettosa dei fenomeni. “Solo rinunciando a voler conoscere lo scopo prossimo e comprensibile, e ammettendo che lo scopo finale sia per noi irraggiungibile, noi vediamo una conseguenza logica nella vita; allora… non avremo più bisogno della parola caso… ma vedremo che questi avvenimenti erano inevitabili”. Tolstoj costruisce così una vera e propria filosofia dell’inevitabilità, sorretta dalla convinzione che gli uomini, e più degli altri i grandi uomini, non sono in grado di costruire la storia (della quale sono anzi altrettanti involontari strumenti) e che alla storia e alle azioni degli uomini presiede una misteriosa e inesplicabile Provvidenza.
Una volta raggiunta una simile consapevolezza, il passo successivo non può che essere la distruzione del concetto di libero arbitrio. E difatti Tolstoj, pur ammettendo che per la coscienza umana è difficile rinunciare all’idea che l’uomo è sempre libero di agire come meglio crede, afferma che, alla luce dell’esperienza e della ragione, le azioni dell’uomo soggiacciono inevitabilmente a leggi generali immutabili. Se è vero quindi che in ogni atto dell’uomo vi scorgiamo l’effetto in parte della libertà e in parte della necessità, ciò è dovuto esclusivamente alla nostra ignoranza di tutte le condizioni nelle quali si trova l’uomo il cui atto viene giudicato e di tutte le cause dell’atto stesso. Ogni ulteriore conoscenza in questa direzione altro non è se non un atto di sottomissione dell’essenza della vita alle leggi della ragione e della necessità. Dal punto di vista della storia, riconoscere la libertà degli uomini come forza sufficientemente grande perché possa influire sugli avvenimenti storici, è come per l’astronomia rinunciare alle leggi di Keplero e di Newton. Quindi, per poter formulare delle leggi storiche adeguate, è necessario abbandonare un’idea di libero arbitrio che è puramente illusoria e accettare invece una dipendenza che oggi ancora non conosciamo, ma che indubbiamente esiste.
Il simbolo più vistoso dell’impotenza storica dell’individuo è, in “Guerra e pace”, Napoleone Bonaparte. Napoleone, che appare finalmente non come una figura astratta ma come un personaggio in carne e ossa, rappresenta l’uomo scioccamente perduto nell’illusione di poter reggere da solo, con la propria intelligenza e la propria abilità di statista e di condottiero, le sorti del mondo. Di lui Tolstoj dice: “Napoleone… è come la figura scolpita sulla prua di un vascello, che i selvaggi prendono per la forza che lo guida durante la navigazione; in tutto questo tempo egli si comportò come un bambino che, tenendosi alle corregge fissate all’interno di una carrozza, si illude di guidarla”. Alla luce delle considerazioni fatte più sopra, la presunzione, l’orgoglio e la sicumera con cui egli si muove sul palcoscenico della storia, fanno necessariamente di lui un anti-eroe, un personaggio totalmente negativo. Sennonché, Tolstoj non si limita ad additare Napoleone come l’esempio di una grandezza umana destinata a ridimensionarsi drammaticamente nell’impatto con le leggi della storia: lo scrittore russo, di solito così misurato ed elegantemente distaccato, si accanisce in queste pagine a ridicolizzare impietosamente l’imperatore francese. Non c’è in lui un solo lineamento tragico, che susciti orrore o pietà: il Napoleone di Tolstoj è piatto, volgare, persino comico nella sua artificiosa ampollosità e nel suo falso sentimentalismo (basti pensare all’episodio dell’incontro con il cosacco Lavruska). Tolstoj, in fondo, non analizza per nulla la personalità di Napoleone, ma la distrugge soltanto, lasciando trapelare un astioso livore che mal si concilia con la pretesa di studiare in maniera obiettiva e spassionata le vicende storiche di quegli anni.
Al polo opposto nella variopinta scala dell’umanità tolstojana troviamo Platon Karataev, il soldato-contadino che Pierre incontra nel corso della sua drammatica prigionia e che, con la sua fede semplice e primitiva, gli permette di superare una intensa crisi interiore. Karataev è l’incarnazione della dolce, sorridente, contadina madre Russia: la sua voce è melodiosa e quasi effeminata, i suoi modi sono sempre affabili e gentili, i suoi discorsi vengono continuamente inframmezzati da motti e proverbi che rivelano una profonda saggezza popolare. Quando vuole riferirsi ai movimenti, al corpo e perfino al sorriso di Karataev, Tolstoj dice solamente che essi sono rotondi, e in questa “rotondità”, più che in ogni altra caratteristica, si rivela la sua piena appartenenza allo spirito della semplicità e della verità. Karataev sente e capisce che la vita è più forte di lui, che ciascun uomo è soltanto un fuscello nel burrascoso torrente dell’esistenza: è per questo che egli, senza far resistenza, rinunciando a qualsiasi volontà personale, accetta questo burrascoso torrente. Tale accettazione, lungi dall’essere una rassegnata rinuncia, è al contrario la massima espressione di amore per la vita, un amore intessuto di fede nella Provvidenza e di certezza che Dio è sparso in ogni cosa attorno a noi. “La sua vita, come egli la vedeva, non aveva significato considerata in se stessa. Acquistava significato solo come frammento d’un tutto, di cui egli sentiva costantemente la presenza”. La filosofia di Karataev si condensa in una parabola che egli ama raccontare sovente e ogni volta con un particolare senso di gioia. La storia narra di un vecchio mercante che viene ingiustamente accusato di un omicidio e condannato ai lavori forzati. Il vecchio, nonostante la sua innocenza, si sottomette di buon grado ai lavori forzati, accontentandosi di pregare Iddio di farlo morire presto. Quando dopo diversi anni il vero assassino, venuto casualmente a conoscere la triste vicenda e mossosi a pietà, scagiona finalmente il vecchio innocente, è troppo tardi: Dio lo ha già chiamato a sé. In questo racconto, che fa brillare gli occhi di Karataev di serena esaltazione e colma di confusa dolcezza l’animo degli ascoltatori, si può trovare la morale più profonda di “Guerra e pace”, vale a dire la remissiva e silenziosa accettazione della sofferenza in ossequio alla misteriosa e inesplicabile volontà del cielo.
Il personaggio storico più vicino a Platon Karataev è, in aperta contrapposizione a Napoleone, il generale Kutuzov. Il vecchio che si addormenta ai consigli di guerra, colui che fa di tutto per evitare uno scontro con l’esercito francese in ritirata, è per Tolstoj uno di quegli “uomini rari sempre isolati che, comprendendo la volontà della Provvidenza, sottomettono ad essa la propria volontà”. La sua lunga esperienza della vita, che si esprime, fra l’altro, in proverbi quali “tutto viene a tempo per chi sa aspettare”, “nel dubbio, astieniti”, “non c’è guerriero più forte di questi due: pazienza e tempo”, conduce Kutuzov alla convinzione che né i pensieri né le parole che servono ad esprimerli sono ciò che muove gli uomini. Egli perciò non dà mai ordini, ma si limita a contemplare con calma il corso degli eventi, agevolando ciò che gli sembra in armonia con esso, ostacolando ciò che non lo è. “Egli capisce che c’è qualcosa di più forte e importante della sua volontà: l’inevitabile corso degli avvenimenti, ed egli li sa vedere, ne sa comprendere il significato e, in considerazione di questo significato, sa rinunciare a prender parte in essi ed alla propria volontà personale”.
Tutti gli altri personaggi del romanzo si collocano idealmente tra questi due poli, Napoleone da una parte, Karataev e Kutuzov dall’altra, e quanto più sono vicini al secondo tanto più sono degli eroi agli occhi di Tolstoj. Mi sembra esemplare a questo proposito il complesso itinerario spirituale di Pierre Bezuchov. Pierre cerca con febbrile insistenza un saldo principio etico cui ancorarsi, interrogandosi continuamente sul senso della vita (“Che cosa è male? Che cosa è bene? Chi bisogna amare e chi bisogna odiare? Perché bisogna vivere? Che cos’è la morte? Che cos’è la vita? Chi sono io? E chi è la forza che dirige tutto?”). Posto dalla sua stessa ansia intellettualistica di fronte a questi angosciosi rovelli, Pierre reagisce in due modi: dapprima rifugiandosi nel vino, nelle donne, nelle distrazioni mondane per tentare di sfuggire all’insopportabile giogo della vita, di cui egli non vede che male e menzogna (“l’unica cosa che conta è salvarsi dalla vita come meglio si può! Occorre soltanto non vederla, questa spaventosa vita”); quindi inseguendo illusioni e falsi ideali nella politica, nella filantropia, nella massoneria o nella filosofia. I suoi sforzi sono tanto generosi quanto velleitari, se non addirittura patetici, come quando, convinto da cabalistici presagi, si propone di uccidere nientemeno che Napoleone Bonaparte. In realtà, Pierre è un uomo debole e inconcludente, un’anima smarrita che procede a tentoni, annaspando goffamente nel buio fitto del suo deserto spirituale. Ma è sufficiente il casuale incontro con Platon Karataev perché tutto improvvisamente si faccia chiaro in lui. Pierre capisce che non serve cercare lo scopo della vita, perché lo scopo della vita semplicemente non esiste, cancellato dalla fede, che è allo stesso tempo amore della vita e umile accettazione della propria condizione terrena. Il Dio che Karataev fa intravedere a Pierre è di gran lunga più grande, più infinito e più inaccessibile che non quell’entità astratta che prima, vanamente cercandola nei simboli esoterici dei libri massonici, chiamava Grande Architetto dell’Universo. Dio non è contenuto in formule vuote e fumose, ma è vicino a noi, in ogni luogo e in ogni cosa, e Pierre sperimenta questo non con le parole o con i ragionamenti, bensì con l’immediatezza dei sensi. “Prima non aveva saputo vedere in nessun posto quella grandezza inaccessibile, infinita… In tutto ciò che era familiare e comprensibile, egli vedeva solo qualcosa di limitato, di meschino, di comune, di assurdo. Si muniva d’una specie di cannocchiale morale e guardava lontano, là dove queste cose irrisorie e vane, dissimulate dalla lontananza brumosa, gli sembravano grandi e infinite solo perché non erano chiaramente visibili… Ora invece egli aveva imparato a vedere la grandezza, l’eterno, l’infinito in tutto; e per contemplare questo tutto, …, egli abbandonava il cannocchiale con cui fino ad allora aveva guardato sopra la testa degli uomini, e gioiosamente ammirava intorno a sé lo spettacolo della vita eternamente cangiante, eternamente grande, inaccessibile e infinito. E quanto più guardava da vicino, tanto più era tranquillo e felice… Ora alla domanda perché? Nella sua anima era sempre pronta una semplice risposta: perché c’è Dio, quel Dio senza la volontà del quale non cade un capello dalla testa dell’uomo”.
Un giorno Pierre fa un sogno molto significativo: egli vede la vita come una viva, tremolante sfera, la cui superficie è formata da milioni di gocce d’acqua, strettamente serrate fra loro. Al centro c’è una goccia più grande, quella di Dio: Dio è dunque dentro la sfera, nel cuore della vita, è la vita stessa; non sta in alto, lontano da noi. Tutte le gocce riflettono Dio: tendono a dilatarsi, a occupare il massimo spazio, in modo da poterlo riflettere in misura sempre maggiore. Le gocce inoltre si muovono e cambiano di posto in continuazione: molte si fondono in una, oppure una si suddivide in molte; ciascuna goccia cerca di espandersi, ma le altre spingono da ogni parte e a volte l’annientano, a volte si fondono insieme; e tutto questo movimento non è che il piacere dell’autoconoscenza di Dio. Questo sogno, che ad essere sinceri non possiede intrinsecamente un grande valore artistico, versa tuttavia una luce inattesa sulla concezione religiosa di Tolstoj: in esso infatti l’egoismo e la brama vitale, simboleggiati dalle gocce che tendono ad allargarsi, sono giustificati e consacrati non meno del comportamento opposto di annullamento di se stessi in Dio. Così Pierre, che cerca a tutti i costi di salvare la propria pelle, senza propositi eroici ma badando esclusivamente al proprio interesse personale, è altrettanto santo di Karataev il quale, dopo essersi perfettamente arrotondato, muore con la stessa indolore facilità del sonno. Il senso della trasformazione di Pierre è che la passività anziché l’aspirazione ad alti ideali, la remissività al destino piuttosto che il prometeico tentativo di scoprire le leggi dell’universo, l’amore concreto di sé e della vita anziché l’amore astratto per un’idea od un pensiero, sono le uniche strade possibili per raggiungere la felicità.
L’altro “cercatore di infinito” del romanzo, il principe Andrej Bolkonskij, pur seguendo un cammino spirituale per molti versi simile a quello di Pierre, subisce una sorte assai diversa da quella dell’amico. Quando conosciamo per la prima volta Andrej, egli ci appare freddo e altero, insofferente della vita dell’alta società pietroburghese e disamorato della giovane moglie Lise che in quella vita invece si trova pienamente a suo agio. Ciò che lo caratterizza, insieme alla noia snobistica e all’ironica indifferenza, è il razionalismo spietato che gli fa rifiutare la realtà che non obbedisce a nessuna forma e a nessun ordine razionale. Andrej è molto vicino a quel polo esistenziale negativo che prima ho identificato in Napoleone Bonaparte, e difatti anch’egli sogna con impazienza il giorno della sua Tolone, il giorno in cui, combattendo contro il suo idolo, potrà conquistare la gloria e la fama tra gli uomini. Ma nel corso della battaglia di Austerlitz, Andrej viene ferito gravemente e all’improvviso, mentre ancora giace disteso sul terreno del combattimento, percepisce la ridicola vanità delle ambizioni umane: “Sopra di lui non c’era nulla: soltanto il cielo, un cielo velato, altissimo, immensamente alto… «Che calma, che pace, che solennità, - pensava - che differenza con la nostra folle corsa, con le grida e la battaglia!… Come mai non ho notato prima quel cielo? Come sono felice di averlo scoperto, finalmente! Sì, tutto è vanità e tutto è menzogna, fuorché questo cielo sconfinato. Non c’è nulla, nulla: c’è solo questo cielo. Ma forse anche questo cielo non esiste: e c’è solo il silenzio e il riposo»”. Questa inattesa rivelazione non è ancora sufficiente a condurre Andrej alla percezione di Dio: quella forza indefinita e misteriosa che si è manifestata sotto forma di un cielo maestoso e lontano sfugge ad ogni umana comprensione, può essere il gran tutto oppure semplicemente il nulla. L’esistenza di Andrej è però inesorabilmente segnata da quell’istante: fatta eccezione per una breve infatuazione per le idee riformatrici del ministro Speranskij, Andrej è incapace di tornare alle passioni e agli interessi della vita terrena, chiudendosi sempre più in se stesso e immergendosi profondamente nella religione della morte. Solo l’impetuoso amore per l’incantevole Natasa riesce a risuscitarlo da quella torpida apatia, restituendogli la gioia di vivere e la fede nell’uomo. Anche questa vitalistica fiammata è però di breve durata: abbandonato da Natasa, la realtà gli si rivela irreparabilmente disgregata in innumerevoli e insignificanti frammenti: “Tutta la vita gli appariva come se egli a lungo l’avesse osservata attraverso il vetro di una lanterna magica, alla luce di un’illuminazione artificiale. Improvvisamente la vedeva non più attraverso il vetro dell’illusione, ma alla chiara luce del giorno, e ciò che vedeva erano quadri sbiaditi. «La gloria, il bene sociale, l’amore di una donna, la stessa patria! Come mi sembravano maestosi e magnifici questi quadri! Di quale profondo senso mi parevano impregnati! E tutto questo è ora così semplice, così pallido e rozzo, alla bianca e fredda luce di questo mattino…»”. Questa riflessione è quasi un presagio della sua fine imminente. A Borodino, Andrej viene ferito mortalmente e, in extremis, capisce che “qualche cosa c’è nella vita”: essa è l’amore per l’umanità, il sacrificio di se stesso (“Amare il prossimo, amare i propri nemici, amare tutto è amare Dio in tutte le sue manifestazioni. Amare una persona cara è amare di un amore umano, ma soltanto un nemico si può amare di un amore divino”). La morte di Andrej, anticipata da un bellissimo sogno in cui essa è paragonata a un risveglio, è tragica e naturale nello stesso tempo: “egli si allontanava sempre più profondamente, con tranquilla lentezza, verso l’ignoto”.
Credo sia sbagliato leggere l’episodio della morte di Andrej solo in termini positivi, come un sereno approdo alla placida e solenne quiete dell’eternità. Così come in vita Andrej era lontano dal mondo e privo di slancio vitale (è significativo che, guardando i suoi soldati lavarsi in uno stagno, egli provi ribrezzo per i loro corpi nudi, che gli appaiono solo come carne da cannone), allo stesso modo l’amore totale che sperimenta in punto di morte, seppur più elevato dell’amore prosaico e mediocre di Pierre, è un amore incorporeo, disincarnato, che rinnega in fondo la vita terrena. “Nelle ore di sofferente solitudine e di delirio che egli trascorse dopo la ferita, quanto più si addentrava col pensiero nel nuovo principio di amore eterno che gli si rivelava, tanto più, senza neppur rendersene conto, si estraniava dalla vita terrena. Amare tutto, tutti… significava non amare nessuno, significava non vivere di questa vita terrena”. La morte di Andrej è in realtà una cocente sconfitta.
Il fine dell’uomo si realizza anche e soprattutto attraverso la rinuncia ai grandi sogni e alle grandi aspirazioni della vita. Si consideri, ad esempio, il meraviglioso personaggio di Natasa: essa è una figura straripante di grazia e di sensualità, di giovanile voglia di vivere e di incosciente felicità. Così robustamente realistica, Natasa rappresenta l’incarnazione dell’eterno femminino, e più ancora il simbolo della natura, della vera natura russa. Ma facciamo un salto in avanti di qualche anno e, nell’epilogo di “Guerra e pace”, cosa vediamo? Dopo sette anni di matrimonio, “Natasa era alquanto ingrassata, si era fatta più florida, così che era difficile riconoscere in questa robusta madre di famiglia la sottile e vivace Natasa d’un tempo… Ella si trascurava a tal punto che i suoi abiti, il suo modo di pettinarsi, le sue parole fuori posto, la sua gelosia… erano oggetto di scherzo fra i suoi familiari”. Qual è il senso di questa trasformazione? Che rapporto c’è tra la Natasa che dieci anni prima faceva innamorare di sé tutti gli uomini e la Natasa che ora, col volto raggiante, accorre dalla stanza dei bambini per mostrare una fascia macchiata di giallo invece che di verde? La risposta, secondo Tolstoj, è che non vi è contraddizione alcuna, bensì un legame di organica successione e di sviluppo. La prima immagine di Natasa non si è rimpicciolita né offuscata o deformata, ma si è solo mutata, approfondita nella seconda. Solo la vecchia contessa, con il suo senso materno, capisce che tutte le irrequietezze e gli impeti giovanili di Natasa nascevano dal desiderio di sposarsi e di avere una famiglia. Ora che Natasa può concedersi completamente a suo marito, in un legame indefinito ma “saldo e solido come il legame della propria anima al suo corpo”, ella non ha più bisogno del fascino e della poesia che prima la rendevano così amabile, perché finalmente ha raggiunto la completezza della propria natura, che consiste nell’essere una madre forte, bella e feconda, di cui “si scorgevano il volto e il corpo, ma non l’anima”. Si capisce così che sposo di Natasa non poteva essere altri che Pierre Bezuchov, non il Pierre misticheggiante e pieno di nobili ideali ma il Pierre preoccupato anzitutto della soddisfazione dei propri impulsi naturali. C’è nel romanzo una frase molto illuminante a questo proposito: è quella con cui Pierre, innamorato segretamente di Natasa, si rivolge alla ragazza, ancora in lutto per la morte del principe Andrej, rivendicando il suo diritto alla felicità: “Io non sono colpevole di essere vivo e di voler vivere; e neppure voi”.
Pierre e Natasa esemplificano bene la filosofia di “Guerra e pace”, che si sostanzia in pochi, semplici principi: privilegiare la vita privata, accontentarsi di stare al proprio posto, agire per il proprio tornaconto. Per gli eroi tolstojani non esiste altra via d’uscita: o muoiono o giungono a questo punto. Nikolaj Rostov, il fratello di Natasa, è anch’egli un personaggio mediocre e limitato. Come la sorella, non possiede il senso dell’infinito, non sospetta cioè che esistano valori non immediatamente riconducibili al “qui”; non ha dubbi o incertezze di sorta, ma tutto per lui è reale, evidente e definito, come le parti fissate nel gioco della caccia. Ciononostante Nikolaj è un personaggio totalmente positivo, e questo, ora che abbiamo imparato a capire la morale tolstojana, non ci deve sorprendere. La forza di questa colonna della patria, della famiglia e del matrimonio consiste proprio nella sua limitatezza: se, ad esempio, egli tratta umanamente i contadini della sua proprietà, non lo fa per ragioni etiche o liberali (egli è al contrario un rigido conservatore) ma solo perché identifica i contadini con il proprio tornaconto, e non esita a maltrattarli violentemente se essi vanno contro ai propri interessi. Coerentemente con queste idee, Tolstoj giunge a sostenere che, nel corso dell’invasione napoleonica, gli elementi più utili alla salvezza della patria furono proprio quegli uomini che non si curarono affatto dell’andamento generale delle cose, ma si lasciavano guidare solo dagli interessi personali e contingenti, senza abnegazione ed eroismo. Personaggi come Andrej o Sonja, nettamente migliori sotto molteplici punti di vista ed animati da autentico spirito di sacrificio, sono invece condannati ad essere messi impietosamente da parte dalla cieca forza della vita. Con il suo solito acutissimo intuito, Natasa dice giustamente di Sonja: “Sai?… c’è un versetto che si applica esattamente a Sonja. «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto». Ricordi? Ella è colei che non ha: perché? Non lo so: in lei forse non c’è egoismo; non so, ma tutto le sarà tolto, tutto le è stato tolto… E’ un fiore sterile, sai? come ce ne sono sulle piante di fragole. A volte mi fa molta compassione, ma altre volte penso che non senta come lo sentiremmo noi”. Natasa ha visto giusto: Sonja non è egoista; ella ha sacrificato la sua vita all’amore (non corrisposto) per Nikolaj e la vita, crudele, l’ha punita. Il destino di Sonja è la legittimazione di una sorta di principio di selezione naturale, in base al quale sopravvivono e sono destinati alla felicità non i più virtuosi e i più meritevoli, ma coloro che possiedono il dono della vita, quella grazia naturale che proprio sull’egoismo si fonda.
L’uomo è fatto per la felicità, viene detto più volte nel corso del romanzo; questa felicità, però, deve essere strenuamente difesa dalla realtà. Pierre, ad esempio, si sente sempre più distante da Karataev a mano a mano che le forze fisiche di quest’ultimo vanno decadendo, e, quando i francesi lo fucilano perché non riesce più a camminare con gli altri prigionieri, Pierre finge con se stesso di non essersene accorto, per non compromettere con lo spettacolo straziante di una realtà che egli non sa impedire il nuovo equilibrio morale da lui conquistato in prigionia, e per tanta parte legato all’esempio stesso di Karataev. Il diritto legittimo dell’uomo alla felicità implica perciò come condizione necessaria il bisogno di chiudere vigliaccamente gli occhi di fronte al problema del male. Queste conclusioni sanciscono a mio parere la convinzione che il cristianesimo di Tolstoj sia più razionale che mistico, più terrestre che soprannaturale. Nel cuore dell’uomo che si sottomette a Dio non ci sono infatti amore e fiducia, ma paura e tormento. Si annida in fondo al suo animo un terribile pensiero: io so che Tu sei un Signore crudele; anche se io non Ti darò il mio cuore, Tu lo prenderai ugualmente, lo prenderai con la forza; se io mi rassegno, perciò, è solo per fare buon viso a cattiva sorte. Ebbene, non è forse vero che un semplice capello divide qui la più grande umiltà dalla più grande rivolta? La dottrina dell’accettazione e della passività nella quale il cristianesimo tolstojano si concreta, inoltre, va sì nella direzione di una sostanziale negazione dell’individuo, ma è anche supportata, non va dimenticato, dalla considerazione che, di fronte all’insondabile mistero della vita, è più conveniente vivere nell’illusione di un Dio “senza la volontà del quale non cade un capello dalla testa dell’uomo” piuttosto che sbattere la testa contro l’insormontabile muro del significato dell’esistenza. Lo stesso Pierre, che all’inizio del romanzo si proclama ateo, rivela nel colloquio col massone il suo inesauribile, “razionale” bisogno di credere (e difatti “Pierre aveva timore dell’oscurità e della debolezza degli argomenti del suo interlocutore, temeva di non potergli credere”).
Nelle pagine in cui più scoperto è il messaggio religioso di “Guerra e pace”, Tolstoj si trova tra due limiti. Il primo è quello espresso dal principe Andrej morente: “Gli uccelli che volano nell’aria non seminano e non mietono, ma li nutre il Padre Vostro che sta nei cieli”. Il secondo, cui aderiscono istintivamente Natasa, Nikolaj e, alla fine, Pierre, è rappresentato dalla lotta per l’esistenza come dovere dell’uomo. Tolstoj non mi sembra che in questo frangente si trovi del tutto a suo agio: per congiungere i due limiti, egli mescola i suoi ingredienti, prendendo un po’ di timida “inerzia” buddistica invece della troppo audace spensieratezza evangelica, un po’ di darwiniana “lotta per l’esistenza”, invece delle troppo minacciose parole dell’Antico Testamento: “mangerai il pane col sudore del tuo volto”. Ritrova comunque armonia e coerenza in quello che è il pilastro centrale della sua impalcatura filosofica: la constatazione che gli individui, pur credendo di essere liberi e di muoversi autonomamente sulla strada della vita, non sono per nulla padroni del loro destino. Come il corso della storia è determinato (lo abbiamo visto all’inizio di questa trattazione) da una istanza superiore, così la vita umana è tutta intessuta di necessità. Quando Pierre viene presentato alla bella Helene, egli capisce subito di non amarla, eppure non è minimamente in grado di opporsi al matrimonio che intorno a lui si sta organizzando. La frase che un’anziana ospite dei Kuragin dice nella circostanza (“Les mariages se font dans les cieux”) suona qui come una battuta beffarda, ma assume nel contesto del romanzo una sua incontestabile verità. Allo stesso modo, Natasa, pur legata al principe Andrej che ama, non può fare a meno di cedere alla violenta passione che l’affascinante Anatol scatena in lei. Quando, nell’epilogo, si chiude il sipario sui protagonisti, noi abbiamo la precisa sensazione che la loro sorte non poteva essere diversa, e se per caso ci accadesse di riprendere in mano il romanzo, difficilmente potremmo sottrarci alla tentazione di leggere ogni accadimento della vita dei personaggi come rivolto necessariamente a realizzare ciò che Tolstoj fa abilmente discendere, attraverso una fitta trama di combinazioni solo in apparenza fortuite, dalla sua teoria dell’inevitabilità.
Mentre ne “I fratelli Karamazov” il ruolo del peccato nella vita dell’uomo è tragicamente mostrato nella sua duplice valenza, come diabolica attrazione verso l’abisso ma anche come vivo anelito di redenzione, in “Guerra e pace”, proprio a motivo del fatalismo di cui il romanzo è impregnato, il peccato è semplicemente assente, oppure è visto come un’insana ribellione all’ineluttabile. Tolstoj disprezza profondamente Napoleone, e non perde mai occasione per schernire la sua stupida vanagloria, ma poi, in ossequio alle convinzioni finora esposte, è costretto ad ammettere che l’imperatore francese era solo uno strumento della storia, “destinato dalla provvidenza alla triste e servile parte di carnefice dei popoli”. Napoleone è quindi colpevole della sua prosopopea e del suo smisurato orgoglio, ma non dei milioni di morti lasciati sui campi di battaglia nel corso delle sue campagne. Se la storia doveva necessariamente andare in quella direzione, è indifferente che alla testa dell’esercito francese ci fosse Napoleone o un qualsiasi altro generale dell’epoca: costui, in fin dei conti, sarebbe stato soltanto una vittima, un capro espiatorio. Se si vuole però evitare che il problema del male venga scandalosamente e opportunisticamente accantonato, bisogna avere il coraggio di sostenere che, se è vero che quell’”opera orrenda” che è la guerra “si compie non per volontà degli uomini, ma per volontà di Colui che regge uomini e mondi”, allora è altrettanto inevitabile chiamare in causa Dio come imputato principale. In “Guerra e pace”, Dio si mostra ai nostri occhi in diversi modi: il Dio cristiano di Maria è una pura istanza amorosa, il Dio del principe Andrej è un principio vuoto e infinitamente lontano, il Dio di Pierre è armonicamente panteista. Ma nelle pagine storiche, non c’è alcun dubbio, Dio si rivela atroce e tirannico, inesorabile nel chiudere le porte ad ogni speranza di redenzione. Laddove la vita elegge i propri beniamini, Pierre anziché Andrej, Natasa anziché Sonja, Dio si rivela inoltre terribilmente parziale e crudele: a chi ha la sola colpa di non aver ricevuto il dono prezioso della gioia, Egli riserva infatti un futuro di solitudine e di desolazione, di lacrime e di morte.
“Guerra e pace” è un libro intessuto di molteplici contrapposizioni: c’è quella, fondamentale nell’economia del romanzo, tra Napoleone e Kutuzov, quella tra Mosca e Pietroburgo (“Tutti gli innumerevoli modi di vivere si possono suddividere in due gruppi: quello in cui prevale il contenuto, la sostanza, e quello in cui prevale la forma. Al primo gruppo appartiene il modo di vivere di Mosca, al secondo quello di Pietroburgo”), quella tra la civiltà russa e la civiltà francese, e molte altre ancora. Uno dei contrasti più appariscenti ed importanti è quello tra il mondo genuino e autentico degli “eroi” tolstojani (i Rostov ed i Bolkonskij) e il mondo artefatto e finto dei salotti e dei ricevimenti. Accanto a quello storico e a quello individuale, l’ambiente dell’alta società russa del XIX secolo rappresenta il terzo côté del romanzo. I salotti di Anna Pavlovna Serer e di Helene Bezuchova, dove si svolgono fastose riunioni mondane cui partecipano i personaggi più in vista del tempo, sono inequivocabilmente il regno del falso: tutti coloro che vi sono introdotti, anziché essere semplicemente se stessi, si adattano a recitare una commedia preconfezionata e, ciò che più conta, tutti sono perfettamente coscienti di questa finzione. I vari principi Vasilij, Anna Pavlovna e Anna Michajlovna rivestono con ben dissimulata affettazione un unico, immutabile ruolo, quello cioè che gli altri si aspettano da loro, e, lungi dal cercare di esprimere una propria autenticità, ripropongono all’infinito stereotipati modelli di comportamento, che non è lecito disattendere. A noi lettori sembra quasi di assistere ad una rappresentazione teatrale, in cui ognuno, senza eccezione di sorta, indossa fino all’ultima scena la sua brava maschera. E’ per questo che, quando entra per la prima volta in società, Pierre vi getta lo scompiglio, perché la sua ingenua schiettezza e la sua semplicioneria mal si adattano a quegli schemi paludati e uniformi. Tutti in questo ambiente si accalorano e si entusiasmano parlando della guerra, eppure nulla qui è in realtà più lontano della guerra, gli echi della quale non hanno nulla della spaventosa drammaticità dei campi di combattimento, ma sono solo meri pretesti per dar sfoggio della propria abilità nell’arte della conversazione. Tolstoj è indubbiamente critico nei confronti di questa società, fatta di artifici, ipocrisie e dissimulazioni, eppure non si può negare che egli la osservi, non solo con grande competenza, ma anche con un pizzico di malcelata simpatia, facendole sì qualche sberleffo con garbata ironia, ma mai deridendola apertamente.
La capacità di armonizzare e di fondere indissolubilmente tra loro una mole così ampia e così varia di situazioni artistiche, storiche e filosofiche è forse il pregio maggiore di “Guerra e pace”: è con pieno merito che questa potente epopea ottocentesca è stata tramandata ai posteri come una delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi. Tolstoj vi dispiega uno stile inconfondibile, olimpicamente tranquillo e sereno anche quando è accorato e triste. E’ con notevole sobrietà, senza mai adoperare una parola di più del necessario che Tolstoj è in grado di ottenere effetti sublimemente tragici. Per fare un esempio significativo, è sufficiente al grande scrittore russo un’unica, breve frase per descrivere la fine del principe Nikolaj Bolkonskij: “Una gran folla di servitori e di militi le veniva incontro, e in mezzo a quella folla alcuni uomini reggevano da sotto le ascelle il piccolo vegliardo nell’alta uniforme coperta di decorazioni”. In quel corpo inerme, ancora rivestito dei simboli dell’illusoria potenza terrena, è racchiuso perfettamente, senza un solo effetto superfluo, l’intero senso della nullità del vecchio principe, prima aristocraticamente sprezzante e altero, di fronte alla morte. Tolstoj è anche un maestro nel descrivere la complessa psicologia dei suoi personaggi. Il suo procedimento artistico preferito è quello che va dal visibile all’invisibile, dal corporeo allo spirituale: così la pigra pinguedine senile di Kutuzov, le mani piccole e bianche di Napoleone, la rotondità di Karataev, le spalle marmoree di Helene, il piccolo labbro superiore di Lise coperto da un’ombra di peluria, dicono di più sull’animo di questi personaggi che non lunghe frasi zeppe di minuziose notazioni psicologiche. E’ principalmente in questo modo che Tolstoj rivela la sua strabiliante e ineguagliabile capacità di narratore: personaggi come Natasa, Nikolaj e Andrej sono figure indimenticabili che, fin dal loro primo apparire, si imprimono in maniera indelebile nella nostra mente. E’ per questo motivo che, dovendo scegliere tra il Tolstoj pensatore e filosofo e il Tolstoj disegnatore di memorabili caratteri umani, non ho alcun dubbio: il secondo è di gran lunga il migliore.

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Lettura consigliata
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"I promessi sposi" di Alessandro Manzoni
"Vita e destino" di Vasilij Grossman
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Un'opera meravigliosa. Merita una rilettura (e anche più di una). La figura di Pierre penso sia uno dei più bei personaggi maschili della Letteratura, a pari merito col Principe Myskin protagonista del romanzo "L'idiota".
In risposta ad un precedente commento
kafka62
03 Aprile, 2018
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Hai perfettamente ragione, Emilio, personaggi come Pierre e il principe Myskin (e aggiungerei Onegin, Aljoscia e Ivan Karamazov, lo stesso Andrej di "Guerra e pace") sono personaggi talmente ricchi di sfaccettature e di sfumature da domandarsi come abbiano fatto Tolstoj, Dostojevski e Puskin più di cento anni fa a raggiungere simili vertici creativi (è del resto quello che Paul Auster fa dire a uno dei personaggi del suo ultimo romanzo nella frase da me posta in esergo alla recensione).
L'ho letto due anni fa ed ho perciò ancora impressa vividamente la sensazione di maestosa monumentalità che questo capolavoro mi ha ispirato.
Su tutte mi rimane, sublime, la scena di Natasa e Nikolaj di ritorno dalla battuta di caccia, l'incontro di due anime pure, sullo sfondo di una Russia contadina.
Vetta assoluta!
In risposta ad un precedente commento
kafka62
04 Aprile, 2018
Segnala questo commento ad un moderatore
E' bello vedere come ognuno di noi conservi di "Guerra e pace" un ricordo personale, una scena del cuore che magari non entra nelle antologie scolastiche ma rimane occultata, come un tesoro ancora da scoprire, tra le pieghe di tanta perfezione!
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