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L'imperatore di Portugallia
 
L'imperatore di Portugallia 2018-03-06 18:54:42 viducoli
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
viducoli Opinione inserita da viducoli    06 Marzo, 2018
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Il realismo fiabesco di un romanzo consolatorio

***Attenzione: anticipazioni sulla trama ***

'L’imperatore di Portugallia' è il primo romanzo di Selma Lagerlöf che leggo, e non essendo, a detta di molti critici, il suo capolavoro, può darsi che la sua lettura non sia sufficiente per articolare complessivamente un giudizio sull’autrice. Tuttavia pare che questo romanzo sia pienamente ascrivibile alla poetica della scrittrice svedese; se così fosse mi sento di affermare sin da subito che Selma Lagerlöf rappresenta, nel panorama della letteratura europea del primo ‘900, una autrice minore, se non secondaria.
'L’imperatore di Portugallia' viene pubblicato nel 1914, cinque anni dopo l’attribuzione all’autrice del premio Nobel per la letteratura, prima donna a riceverlo. Questa data assume quasi un valore simbolico, essendo l’anno della deflagrazione del primo conflitto mondiale. Da almeno un ventennio le varie forme di espressione artistica stanno subendo una sorta di irreversibile rivoluzione, dovuta alla consapevolezza della crisi di valori e della crescente ingiustizia sociale che caratterizzano lo sviluppo della società industriale. L’ottimismo di facciata della Belle Époque in un progresso tecnologico e morale che avrebbe condotto inevitabilmente l’umanità verso la felicità, che trovava la sua espressione teorica nel determinismo positivista, aveva ormai da tempo lasciato spazio ad una visione angosciosa ed angosciante della società, nella quale prevalevano elementi disgregatori e la coscienza dell’alienazione come cifra dell’esistenza. Il movimento operaio, la prospettiva di una trasformazione radicale della società in senso egualitario era vissuto dalla società borghese come un incubo in grado di demolire i privilegi della classe dominate, e gli stessi socialisti (almeno i più avvertiti tra di loro) erano consci delle difficoltà e dei sacrifici che la rivoluzione avrebbe comportato. Il capitalismo delle grandi potenze si era evoluto in imperialismo, e venti di guerra per il dominio delle risorse africane ed asiatiche erano all’ordine del giorno. La nascita della psicanalisi fornisce nuovi strumenti per la conoscenza del comportamento umano e delle pulsioni profonde che lo condizionano, evidenziando il ruolo primario della sessualità, grande tabu della società ottocentesca.
L’arte, la grande arte, interpreta questa coscienza della crisi a vari livelli in tutte le forme della sua espressione. In pittura movimenti come l’espressionismo tedesco e il cubismo rappresentano una autentica rottura con ciò che li precede, tentando di visualizzare l’angoscia esistenziale dell’uomo moderno e la poliedricità della realtà in cui è immerso. La composizione musicale esplora nuove regioni del suono, cercando di rendere i ritmi della società industriale e le sue intrinseche dissonanze. La letteratura abbandona sia il naturalismo positivistico sia il decadentismo estetista 'fin de siècle' per esprimere, anche attraverso l’uso di inusitate tecniche narrative, la crisi dei valori e la disumanizzazione della società.
I grandi scrittori e poeti del primo novecento affrontano la crisi di petto, alcuni riconoscendone ed evidenziandone i tratti costitutivi a livello sociale, altri scavando in profondità l’effetto che essa produce sulla vita di gruppi di uomini o di singoli personaggi; alcuni si limitano all’analisi della crisi, altri indicano, nelle loro pagine, possibili strade per il suo superamento. Ciò che li accomuna è che essi comunque scrivono della crisi e nella crisi, non la nascondono, anzi ne fanno l’elemento essenziale della loro opera. È per questo, al di là della loro capacità di scrittura, della forma che essa concretamente assume, che a mio avviso possiamo definirli grandi, perché interpretano – ciascuno a modo suo – il tempo in cui vivono.
Anche all’inizio del ‘900 c’erano ovviamente altre tipologie di scrittori: quelli che scrivevano rifacendosi all’800, al romanticismo, al naturalismo, o semplicemente non si rifacevano a nulla ma scrivevano per guadagnarsi da vivere assecondando – o contribuendo a formare – il gusto del pubblico della nascente industria culturale. Di essi non ci è rimasto molto: quando ancora oggi ci imbattiamo in uno di questi scrittori è perché ha creato qualche personaggio che è entrato nell’immaginario collettivo oppure perché, a volte, l’inadeguatezza di contenuti è in qualche modo compensata da una particolare abilità nella forma della scrittura.
Tra questi due estremi si colloca però a mio avviso anche una 'terra di mezzo letteraria' composta dagli scrittori che, trovandosi di fronte alla crisi valoriale del primo ‘900, in qualche modo cercano di negarla, o di superarla, proponendo il recupero di una qualche forma di società o di rapporti sociali arcaici, ancestrali, ricercando in piccoli eden passati ed idealizzati o in prospettive palingenetiche la negazione dell’angoscia esistenziale e sociale proposta dal presente. Questi scrittori, tra i quali ve ne sono anche di eccellenti, sono pienamente immersi nella crisi, ma invece di affrontarla nei loro scritti cercano di esorcizzarla, facendo ricorso ai valori che l’evoluzione sociale generatrice della crisi ha spazzato via oppure immaginando una capacità autorigeneratrice dell’umanità che da sola sarà in grado di portarla verso un futuro migliore.
Per quello che emerge dalla sua lettura ritengo di poter affermare che 'L’imperatore di Portugallia' possa essere considerato uno dei romanzi paradigmatici di questo atteggiamento intellettuale.
Al fine di giustificare questa affermazione, che per la mia sensibilità nei confronti della letteratura assume una accezione negativa, è necessario riassumere la trama del romanzo.
Jan Andersson di Skrolycka è un non più giovane bracciante che vive nelle Askedalar, remote valli della Svezia centrale. Ha sposato da non molti anni Kattrinna, e con lei vive in una casetta isolata che ha costruito grazie ad una concessione del padrone.
Quando alla coppia nasce una figlia Jan si accende di amore per lei: la chiama Klara Fina Gulleborg (Chiara, Bella e d’oro, detta Klara Gulla) e ne segue con trepidazione la crescita, descritta in brevi capitoli del libro che riguardano il battesimo, la vaccinazione, la scarlattina, i primi successi a scuola, insomma l’infanzia della piccola, cui il padre dedica tutto l’amore di cui è capace idealizzandola come un essere perfetto.
Quando la ragazza è diciassettenne, ed è ormai una vera bellezza, accade un grave imprevisto. Il genero del buon padrone di Jan, nel frattempo morto in un incidente sul lavoro, mette in discussione la proprietà della casa e del terreno del bracciante, non essendovi documenti che la provino, e pretende, per non far sloggiare la famiglia, il pagamento di duecento scudi entro pochi mesi, somma del tutto al di fuori delle possibilità di Jan.
Klara, che da tempo sogna di uscire dall’ambiente isolato delle Askedalar, si offre per andare a servizio a Stoccolma, dove con un po’ di fortuna potrebbe guadagnare la somma necessaria. Il padre finisce per dare il suo doloroso consenso quando si rende conto dei desideri della figlia: così la ragazzina un giorno viene accompagnata al molo del grande lago da cui parte il traghetto che porta a Stoccolma. Dopo qualche settimana giunge una sua lettera nella quale dice di essersi infine sistemata ed entro il termine previsto la somma necessaria giunge alla famiglia tramite un deputato locale.
In seguito Klara non fa più avere notizie, ma da allusioni di giovani che sono stati a Stoccolma si viene a sapere che è una prostituta.
Jan si rifiuta di accettare questa realtà, e la sua mente sconvolta si rifugia in un mondo immaginario nel quale Klara è l’imperatrice di Portugallia, una terra in cui non ci sono miseria e ingiustizia, di cui lui è l’imperatore in esilio, in attesa del ritorno di Klara che porterà i genitori con sé nel suo regno.
La pazzia di Jan, che si orna di un alto cappello, di un bastone e di alcune onorificenze di carta, ne fa ovviamente lo zimbello della comunità, anche se egli è circondato da un qualche alone di rispetto perché ha la capacità di vedere il futuro, capacità che viene riconosciuta quando predice la tragica morte del suo nuovo padrone, non senza colpe nella morte del suocero.
Per anni Jan si reca sul pontile dove attracca il traghetto, certo del ritorno di Klara, finché dopo quindici anni, un giorno in cui Jan non c’è, la figlia torna davvero. È segnata dalla vita, ma ora ha un impiego rispettabile e vuole portare con sé i genitori. Quando però si rende conto della pazzia del padre non accetta che questa sia stata generata dal suo amore per lei e lo maltratta, sino a progettare di andarsene con la madre, abbandonandolo. Kattrinna si piega a malincuore alla decisione della figlia ed un giorno, mandato Jan lontano per una commissione, prendono il traghetto. Mentre questo si stacca dal molo vedono Jan che giunge trafelato e si butta in acqua. Tornate indietro, le due donne apprendono che il corpo di Jan non è riemerso. Klara affitta una casetta nei pressi del pontile e per mesi ogni giorno si reca al lago sperando nel ritrovamento del cadavere del padre: è convinta che solo dopo che sarà sepolto potrà liberarsi del suo ricordo e del senso di colpa nei suoi confronti.
Quando viene a sapere che la madre sta morendo va ad assisterla, incontrando un amico che le narra come avesse incontrato Jan il giorno della partenza, e lo avesse accompagnato con il carro al molo: Jan gli aveva detto di aver sentito che Klara era in pericolo e che qualcuno gliela stesse portando via. Klara Gulla può quindi liberarsi del senso di colpa, perché il padre non si era suicidato, ma si era buttato in acqua convinto di poterla sottrarre al pericolo: illuminata da questo episodio capisce anche l’immenso amore che il padre aveva per lei.
Katrinna muore e quando il feretro, accompagnato da poche persone, giunge fuori della chiesa, trova tutta la comunità, che sta accompagnando un’altra bara: il corpo di Jan è stato ritrovato e tutti vogliono rendergli l’onore che merita. Sulla bara di Jan vengono posti il cappello e il bastone imperiali e i due vengono seppelliti insieme.
Una storia commovente, quindi, piena di un sentimento religioso di amore, pietà e comprensione per gli umili che trae le sue origini, oltre che dalla figura intellettuale dell’autrice, anche dal suo attaccamento alla terra delle origini, il Värmland, regione della Svezia centrale fatta di foreste, laghi e piccole comunità contadine. Una storia che va analizzata attentamente per cercare di andare oltre i sentimenti che provoca e cercare di comprenderne le basi strutturali e ideologiche.
Centrale a mio avviso a questo proposito è l’ambientazione. La piccola comunità rurale delle Askedalar è il mondo idealizzato in cui si svolge questa fiaba per adulti. È un mondo in cui esistono delle differenze sociali, dove ci sono i ricchi e i poveri, ma dove tutti in fondo cooperano per il bene comune: il pastore, il sacrestano, i buoni vecchi padroni di Jan, tutti sono portatori di valori positivi e di solidarietà umana. Al massimo ci può essere qualche piccola invidia, qualche fraintendimento subito ricomposto. Nel romanzo c’è solo un personaggio negativo: il giovane padrone che – essendo genero del vecchio Erik di Falla non appartiene alla famiglia e, sembra di capire, neppure alla comunità – non esita a favorire la morte del suocero per accaparrarsi la proprietà, cadendo vittima della giustizia non umana, ma divina. Il male, la disgregazione dei valori, è al di fuori di questo mondo, e la giovane Klara Gulla ne sarà subito vittima, cadendo in una condizione che – nella rigida concezione luterana di Selma Lagerlöf – rappresentava non solo il paradigma della degradazione morale, ma anche la conseguenza inevitabile della ricerca della modernità e dell’apparenza, se è vero che tutto nasce da un vestito rosso e dal suo venditore. Il 'piccolo mondo antico' quindi come rifugio consolatorio rispetto alla violenza e alle tentazioni del mondo moderno, che non a caso non appare mai nel racconto ma è solo evocato indirettamente. Un piccolo mondo antico le cui immutabili regole, perturbate dall’irruzione della modernità, si ricompongono nella redenzione finale, e che è capace di riconoscere la grandezza dell’amore anche quando si traveste da pazzia. Proprio il tema della pazzia di Jan e come questo viene trattato costituisce, a mio avviso, l’elemento di maggior interesse di questo romanzo, forse l’unico che gli conferisca un appiglio per farcelo sentire in sintonia con i tempi in cui fu scritto. Le migliori pagine sono infatti secondo me quelle in cui l’autrice descrive lo iato che esiste tra il pensiero dell’imperatore Jan, la sua interpretazione dei fatti, e la loro realtà, pagine che denotano una acuta capacità di analisi psicologica del personaggio.
Negli stessi anni in cui Selma Lagerlöf scriveva i suoi romanzi quelle terre esprimevano il genio di August Strindberg, e poco più a ovest si stava spegnendo Henrik Ibsen. Senza ricorrere a grandi scrittori di altre parti d’Europa credo che il semplice confronto con questi due scandinavi sia piuttosto impietoso per questa sorta di realismo fiabesco della scrittrice svedese, almeno per quanto emerge da questo romanzo.

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Che sorpresa, Vittorio! Personalmente (l'ho pure riletto) l'ho trovato bellissimo, poeticamente simbolico e di grande profondità. Mi ha commosso sapere che pare sia stato una specie di 'risarcimento postumo' al padre, che molto soffrì quando lei abbandonò la casa per proseguire gli studi a Stoccolma.
In risposta ad un precedente commento

07 Marzo, 2018
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Ciao Emilio.
Credo che molti dissentano dalla mia recensione: in rete ho trovato infatti quasi solo commenti positivi se non entusiasti.
Io l'ho trovato consolatorio, nostalgico di un piccolo mondo rurale in cui tutti in fondo si volevano bene che non credo sia mai esistito nella realtà. Una "fiaba realista", come ho cercato di definirlo, che mi ha ricordato tanta letteratura piccola piccola.
Non pretendo però che altri la pensino come me, e ti ringrazio per avere comunque trovato utile la mia sbrodolata.
A presto
V.
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