Dettagli Recensione
UN DECAMERONE GOTICO
Non sono un esperto di letteratura fantastica, e quindi non sono in grado di valutare quanto originale e innovativo possa essere giudicato il “Manoscritto trovato a Saragozza” del polacco Jan Potocki. La mia impressione è tuttavia che esso ricicli, attingendovi a piene mani senza troppi scrupoli e ancor meno genialità (cosa che rende addirittura paradossali le numerose vicissitudini di plagi e appropriazioni indebite subite negli anni successivi), gli elementi più disparati ed eterogenei di un immaginario il quale, a cavallo tra il ‘700 e l’800, doveva essere alquanto fertile, come dimostrano i tanti personaggi (come il celeberrimo Frankenstein) nati in quegli anni: incontriamo così, in rapida e spesso caotica successione, spiriti malvagi e geni benigni, mostri, fantasmi e vampiri (che addirittura, come in un bignamino del fantastico, l’autore distingue pedantemente tra vampiri della Transilvania e vampiri spagnoli), e ancora eremiti, indemoniati e cabalisti, principesse, banditi, zingari e cavalieri; e anche le atmosfere oscillano tra l’orrorifico, il picaresco, il favolistico e il romantico, in un pot-pourri di generi che lascia a dir poco disorientati. I modelli di riferimento sono sicuramente le “Mille e una notte”, con tutti quei fastosi palazzi principeschi e quelle bellissime fanciulle che l’autore ama descrivere con meticolosa precisione, e con quel gusto inconfondibile per il meraviglioso e per l’esotico, e soprattutto il “Decamerone” del Boccaccio, con la sua divisione in giornate ed il ruolo assunto, all’interno di ciascuna di esse, dai racconti orali dei vari personaggi: ma, con la predilezione all’accumulo che, come si è visto, contraddistingue Potocki, qui le storie si intersecano, si sovrappongono, si stratificano, in un meccanismo a scatole cinesi che, in alcuni casi (ad esempio, il protagonista Alfonso che ascolta la storia del capo degli zingari, il quale a sua volta riporta la storia di Giulio Romati, e quest’ultimo quella della principessa di Monte Salerno) crea addirittura tre o quattro livelli successivi di narrazione.
In un romanzo la cui fama è sicuramente superiore ai suoi meriti effettivi (senza nulla togliere al suo valore di puro intrattenimento), gli aspetti che mi sembrano degni di menzione critica sono soprattutto la presenza di un sotterraneo, e forse involontario, umorismo con cui viene caratterizzato il giovane protagonista, il quale, stolidamente e fanaticamente convinto che il codice d’onore possa validamente guidare tutti i passi della sua esistenza, rimane dolorosamente meravigliato quando si accorge che anche persone moralmente inferiori a lui, come banditi e contrabbandieri, si vantano di uniformare allo stesso principio la propria vita; un’atmosfera libertina e sensuale che, pur con tutte le prudenze e le “cinture di castità” verbali suggerite dallo spirito dell’epoca, riesce ad essere estremamente audace e provocante; e infine quell’ossessività che pervade la storia e che, a dispetto delle peregrinazioni dei personaggi i quali sono perennemente in viaggio, impedisce alla stessa di evolvere, costringendola a tornare sempre sui suoi passi, in quel vero e proprio cul-de-sac narrativo che è la “venta Quemada”. Questa locanda, infestata dagli spiriti eppure, come avveniva in un analogo palazzo nell’indimenticabile film “Racconti della luna pallida di agosto” del giapponese Kenji Mizoguchi, capace di attirare con le sue irresistibili lusinghe i viaggiatori che transitano nei paraggi, è la cosa più memorabile del “Manoscritto”, anche se alla lunga rischia di intrappolare il romanzo in un vicolo senza uscita. Il fatto che esso sia rimasto incompiuto, se da una parte non ci permette di sapere come vanno a finire le avventure di Alfonso van Worden, dall’altra finisce quasi per risultare di giovamento a un’opera la quale, nonostante tutti gli sforzi dell’autore, non riesce mai ad avere una vera e propria trama, in quanto vive e trova la sua ragion d’essere quasi esclusivamente nei singoli episodi di cui è composta.