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IL TEMPO RITROVATO
“Alla ricerca del tempo perduto” inizia con il pronome “io” e termina con la parola “Tempo”. Se l’uso della prima persona singolare è in qualche modo fuorviante, perché ingenera la convinzione non del tutto corretta che di un romanzo autobiografico si tratti (mentre più che alla propria vicenda esistenziale o alla rappresentazione soggettiva di un mondo a Proust interessa la ricerca dell’essenza profonda, assoluta e ontologica dello stesso), il termine “Tempo” è invece quanto mai appropriato per definire l’opera. La “Ricerca” è infatti la più approfondita, magistrale e incredibile riflessione sul tempo e sul ruolo che esso esercita sulla vita degli uomini che mai si sia avuto modo di leggere (per lo meno in ambito narrativo). La “Ricerca” mette infatti in perenne tensione tra loro il passato e il presente, non solo (come sarebbe facile pensare) come mero confronto tra i due opposti cronologici, ma sforzandosi di riempire il “buco nero” che sta in mezzo, di sciogliere la matassa di fili che il tempo ha intrecciato, di scoprire le leggi universali che governano i cambiamenti non solo fisici, ma anche psicologici, ambientali e sociali, dell’umanità. La grande abilità di Proust di descrivere il mondo aristocratico in maniera quanto mai minuziosa e particolareggiata, quasi da miniaturista (fino quasi a sfiorare la pedanteria), non deve far credere che egli possa essere apparentato con la quasi coeva letteratura verista, di cui al contrario è sempre stato un critico accanito. Compito dell’arte per Proust non è di descrivere le cose o le idee, bensì di portare in luce il proprio mondo interiore. Ma per fare ciò non è sufficiente una mera attività intellettuale: l’artista deve essere “poroso” nei confronti di impressioni e ricordi, farsi assalire da essi e in questo modo costruire dei ponti verso il passato, con ciò creando una dimensione extra-temporale che sola può contenere quella verità che l’esperienza concreta e il mondo sensibile non sono in grado di dare. La madeleine proustiana e le intermittenze del cuore non sono più delle evenienze sporadiche e saltuarie, ma diventano il perno di un sistema filosofico in grado di informare di sé l’opera d’arte, anzi di farsi esso stesso opera d’arte.
Il momento fatidico in cui nel “Tempo ritrovato” tutto quanto ora detto si manifesta è una miracolosa epifania (o sarebbe meglio dire una serie di epifanie) avvenuta nel cortile di Palazzo Guermantes, mentre il narratore si sta recando a un ricevimento mondano. Proprio quando l’io narrante si sente sopraffatto dai dubbi nei confronti della letteratura (dubbi che coinvolgono tanto le sue qualità personali quanto la capacità della letteratura stessa di essere apportatrice di una qualche forma di verità), giunge dal passato un avvenimento destinato a cambiare profondamente la sua vita. Appoggiando il piede su una selce sconnessa del cortile egli viene invaso da una sensazione identica a quella provata molti anni prima camminando nel Battistero di Venezia. Questa immagine riemersa dal passato (supportata da altre significative coincidenze) dà il la a una serie di riflessioni sui motivi di questa insolita felicità affrancata dall’ordine del tempo, che procura a chi la prova il brivido dell’eternità. Recuperare questi momenti impalpabili e sfuggenti dal pozzo della memoria, convertire queste sensazioni in altrettanti leggi di ampio respiro e fissarle in un’opera d’arte diventa così da quel momento la missione dell’autore.
La lunghissima sequenza del ricevimento della principessa di Guermantes, in cui sembra di stare davanti a un quadro di Munch, tanto forte è l’impressione di sfacelo e di disfacimento provocati dal passare del tempo sui volti e sui corpi di persone che un giorno il narratore aveva conosciute nel pieno delle forze ed ora sono accarezzate dalla morte (e che Proust descrive con la stessa prodigiosa profondità di pensiero esibita nelle pagine del libro precedente in cui egli ragionava sugli effetti di una separazione lacerante o di un decesso improvviso), sembra far vacillare i propositi dello scrittore. Quella di Proust diventa così una titanica sfida al tempo: il tempo che conserva la verità intima delle cose e la fa riemergere di tanto in tanto è lo stesso tempo che cambia la fisionomia degli individui, gli ambienti sociali e la percezione stessa di cose e persone (basta pensare al modo in cui il ricordo di Swann viene rimosso o fuorviato dai frequentatori di quegli stessi salotti che un giorno lo avevano ammirato), con ciò ostacolando seriamente l’opera della memoria. Così è solo sulla memoria involontaria che lo scrittore può fare affidamento per scrivere la propria opera, in tal modo relegando la propria arte e la propria intelligenza in un ruolo secondario e accessorio rispetto alle mere facoltà sensitive, e costringendo se stesso a diventare una sorta di sacerdote di questa fragile e incorporea ancorché suadente religione del tempo. Conformemente a queste premesse, la “Ricerca” si conferma più che mai un universo autonomo e autosufficiente, in cui, per riuscire a raggiungere la verità extra-temporale dell’esistenza, vengono gradualmente meno i riferimenti al mondo reale (cronaca politica, avvenimenti storici, citazioni letterarie, ecc.), per lasciare invece spazio ai richiami al passato del romanzo, dai più vicini a quelli remotissimi. E’ per questo che nella seconda parte del “Tempo ritrovato” si respira una particolarissima atmosfera fuori dal tempo, in cui tutti i personaggi (da Charlus a Madame Verdurin, da Gilberte a Odette, da Rachel a Bloch) sono contemporaneamente quelli che sono, quelli che erano una volta e tutto ciò che sono stati nel frattempo, in una virtuosistica e caleidoscopica rappresentazione in cui Proust sta sempre dietro di essi (a cercare di registrare gli effetti e le conseguenze del loro passaggio sulla propria esistenza e su quella dei suoi simili) piuttosto che di fronte ad essi. Per riuscire a sostenere questo sforzo sovrumano di attualizzare il passato, Proust ha dovuto edificare una vera e propria cattedrale letteraria, capace di sfidare (laicamente, si badi, senza cioè il sostegno di una speranza ultraterrena) le leggi del tempo e di osare la prometeica scalata all’eternità. Proust non ha potuto avere la soddisfazione di vedere gli effetti nel tempo della sua opera, non ha potuto cioè verificare se quanto ha scritto sia riuscito davvero ad essere all’altezza della sua straordinaria ambizione. Il fatto stesso che noi, a distanza di quasi un secolo, leggiamo ancora e commentiamo le sue pagine, celebrando la sua “Ricerca del tempo perduto” come una delle opere più importanti di sempre, degna di stare al fianco dell’”Odissea” di Omero e della “Divina Commedia” di Dante, è però la prova migliore che la sfida di Proust è stata vinta al di là di ogni più ottimistica aspettativa.
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