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Un calore di vita e un'immagine di morte
Sempre più di rado mi capita di chiudere un libro con un senso di nostalgia per situazioni e personaggi; con questo romanzo è successo, e tanto più inaspettatamente in quanto si è trattato di lasciare gli abitanti di una città appestata.
La causa più verosimile è da ricercarsi nel senso profondo di umanità che emanano le pagine, un'umanità laica e santa, cocciuta quanto può esserlo la forza della vita.
L'inizio è carico di un'ironia sottile e amara che si avvicina molto al sarcasmo e strappa qualche sorriso, come se l'autore, muovendo le fila degli eventi che precipitano, si prendesse gioco delle illusioni a cui i personaggi si aggrappano per non cedere al panico.
Ma quando la farsa lascia il posto alla tragedia sembrano essere le diverse anime dello scrittore a parlare attraverso un vasto campionario di individui: eroi per caso, antieroi, cinici spettatori, sommersi e salvati. Personaggi commoventi, per molti versi, così lontani dalla perfezione, così perfettamente delineati.
La prosa resta asciutta, ma si fa strada un senso profondo di compassione, unito a ideali come lealtà e amicizia che più dell'amore risplendono tra le ombre della pestilenza, mentre la narrazione raggiunge il punto più alto con l'interrogativo cruciale: è il caso di rifugiarsi nella fede, accettando supinamente la volontà divina, o sarebbe meglio rinunciare a credere, e combattere con ogni mezzo il morbo?
“Non ne so niente”, risponderebbe il dottor Bernard Rieux, protagonista del romanzo.
Eppure, se c'è una cosa che i flagelli insegnano, è che vale sempre la pena lottare per la salvezza degli esseri umani, essendoci in essi più cose da ammirare che da disprezzare.
E non a caso le due opzioni - fede o scienza - finiscono per mescolarsi nella strenua ricerca della pace a servizio degli uomini:
“Un calore di vita e un'immagine di morte: era questa la conoscenza”.