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LA PRIGIONIERA
“La prigioniera”, quinto capitolo dell’opus proustiano, descrive un originale e imprevedibile connubio tra desiderio e sadismo. Il narratore, di ritorno dal soggiorno a Balbec, segrega infatti Albertine nel suo appartamento parigino e la nasconde letteralmente a tutti quanti, facendola oggetto di un sentimento morboso e possessivo. L’amore e la passione diventano se possibile ancora più immiseriti e sacrificati che mai, e vengono realizzati, privi come sono del loro sbocco naturale, quello del congiungimento carnale tra due giovani innamorati, solo in una forma totalmente negativa, quella del mero possesso “collezionistico” dell’essere amato e della sua sottrazione al resto del mondo. Il narratore, per sua stessa ammissione, può amare solo una Albertine “in tutto simile a me, immagine di ciò che precisamente era mio e non dell’ignoto”, e, coerentemente con le proprie aspirazioni, cerca costantemente di plagiarla, di modellarla come creta. C’è un che di perverso, ad esempio, nell’atteggiamento di contemplazione e di estasi che il narratore sperimenta quando Albertine dorme e lui la guarda inosservato, poiché egli esprime il desiderio di ridurre la ragazza in suo potere, sottomessa e impotente, alla sua mercé come una cosa inanimata. Ciò, anziché alimentare l’amore (in ossequio alla paradossale legge che fa sì che esso si acuisca con l’assenza dell’altro, mentre al contrario si sopisca non appena la preda è conquistata stabilmente), non fa che esacerbare la gelosia, sia retrospettivamente (giacché l’essere amato, che si rivela diverso da prima, lascia intuire un passato sconosciuto) sia nel presente (gli sporadici momenti di libertà di Albertine sono altrettante occasioni di sospetto), con la conseguenza che la relazione si trasforma in un’ininterrotta, asfissiante inquisizione.
Come già nei primi due libri della “Recherche”, in occasione della relazione tra Swann e Odette e dell’infatuazione del narratore per Gilberte, assistiamo qui a una acutissima analisi delle conseguenze velenose e nefaste che la gelosia produce in un rapporto sentimentale. Il protagonista, che magari fino a un momento prima, tediato dalla consuetudinarietà del ménage e annoiato per la quotidiana e domestica vicinanza, pensava di non amare più Albertine, ritorna a spasimare di gelosia non appena la ragazza gli si allontana per qualche ora, alimentando così i suoi sospetti sulle di lei inclinazioni sessuali e clandestine frequentazioni. “La gelosia – scrive Proust – è un compito da ricominciare senza fine” e che trova solo brevi e temporanei momenti di requie. Albertine infatti si rivela un personaggio ambiguo, a due facce: da una parte docile, servizievole e obbediente, dall’altra astuta, infida e bugiarda. Dietro le sue reticenti parole il narratore intuisce abissi di perversione e di lussuria, e Gomorra fa capolino ogniqualvolta una donna attraente entra nel campo visivo di Albertine. Sennonché la prospettiva in cui è possibile leggere il romanzo si complica se abbandoniamo per un attimo l’idea che l’io narrante sia assolutamente obiettivo e affidabile. Ricordate “Il giro di vite” di Henry James? Là l’istitutrice che racconta la vicenda in prima persona si trova alle prese con fantasmi che noi non dubitiamo mai, fin quasi alle ultime pagine, essere reali; ma alla fine dobbiamo riconoscere che i due piccoli fratelli, che in diverse occasioni si erano mostrati alleati contro di lei per essere stati consapevolmente esposti all’influenza nefasta e corruttrice degli spettri, si rivelano invece all’oscuro di tutto, ed è invece la mente malata e schizofrenica della protagonista, che con le sue parole attendibili e razionali ci aveva tratti in inganno, ad essere messa in discussione. Allo stesso modo ne “La prigioniera” noi diamo per scontata la perversione di Albertine, non mettiamo mai in dubbio le sue menzogne e i suoi sotterfugi, il suo stesso comportamento pubblico, improntato a un contegno ineccepibile, sembra quasi una prova della sua abilità di perfida dissimulatrice. Ma osservando le sue occasionali irritazioni o la sua tristezza da animale in gabbia di fronte al comportamento maniacale e paranoico del narratore, il quale in tutto vede una prova delle proprie sofisticate costruzioni mentali e che se la giovane dice A pensa che in realtà ella voglia significare B, ci viene il fondato sospetto che tra i due sia proprio Albertine la vera vittima: e se, a dispetto di ogni evidenza, Albertine fosse solo una povera ragazza, soggiogata psicologicamente dal narratore e condotta alla fuga e alla morte non tanto dai propri libidinosi desideri quanto dalla asfissiante e oppressiva sorveglianza di una personalità talmente contorta da fare in certi momenti, ad onta del fatto che egli si descriva come il più sensibile degli uomini, pensare a uno psicotico criminale (e che oltretutto – non dimentichiamolo – non ama Albertine, ma viene abbandonato quando già aveva preso la decisione di lasciare lui per primo, vigliaccamente, la compagna)?
Se questa sia la vera chiave di lettura del romanzo, oppure appaia così al lettore all’insaputa dell’autore, non è dato sapere con sicurezza. Certo è solo che essa aggiunge ulteriore profondità psicologica a un’opera che come sempre, trattandosi di Proust, rasenta la perfezione (anche se qui qualche lacuna e imperfezione in realtà traspaiano: prova ne siano le morti di Bergotte, di Cottard e di Saniette, che qualche pagina dopo inverosimilmente “risuscitano”), e in cui la scrittura è un puro, cristallino e rarefatto spazio mentale che non può prescindere dalla realtà, ma la rielabora senza sosta, trasformandola in inesauribili sensazioni e impressioni mentali. Si pensi al vero e proprio tour de force con cui Proust rinchiude il suo protagonista (se si fa eccezione per la serata a casa Verdurin e un paio di brevi passeggiate parigine) tra le quattro mura di un appartamento, e lì, in quello spazio claustrofobico, sia capace, con una sensibilità davvero virtuosistica, di farci respirare ugualmente l’inebriante aria di Parigi, come si può vedere nelle deliziose pagine dei “cris” dei venditori ambulanti che giungono alla finestra del narratore, o in quelle in cui i cambiamenti di stagione vengono percepiti attraverso le minime, quasi impercettibili trasformazioni di luce e di atmosfera sugli arredi e sulle suppellettili della stanza da letto. Non si perdano poi le fondamentali riflessioni sull’arte suscitate dall’ascolto del settimino di Vinteuil: la musica, e l’arte in genere, riesce infatti a esprimere ciò che le semplici parole non sono da sole in grado di dire, essa è un medium per raggiungere il significato più autentico e profondo dell’essere e della vita. Proust prepara così, gradualmente, quella che sarà l’ormai imminente epifania del Tempo ritrovato, la quale conferisce proprio all’arte e alla memoria il compito di realizzare la propria miracolosa missione: quella di fondere (laicamente – è bene ricordarlo - ossia senza l’ausilio di alcuna religione) il proprio passato individuale nella sfera incorruttibile dell’eternità.