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SODOMA E GOMORRA
“Sodoma e Gomorra” è una sorta di elaborata variazione sull’ampio materiale narrativo dei tre romanzi che lo precedono: in esso infatti ritornano situazioni (i ricevimenti nei salotti dell’alta società, come quelli della principessa di Guermantes o di madame Verdurin), luoghi (il soggiorno a Balbec), avvenimenti storici (l’affaire Dreyfus) e argomenti di conversazione (l’etimologia dei nomi geografici o familiari) che il lettore ha già conosciuto. Alcuni personaggi, poi, salgono alla ribalta dopo essere stati finora semplici figure di contorno (Charlus, Albertine), altri, con un percorso esattamente contrario, passano in secondo piano (Swann, madame de Guermantes, Saint-Loup), altri ancora rientrano da protagonisti dopo essersi eclissati per un certo tempo (il clan Verdurin, Morel). Si viene a determinare un po’ lo stesso meccanismo di familiarità e di riconoscibilità di personaggi e ambienti che caratterizza le saghe familiari, ma con in più una prodigiosa concentrazione spazio-temporale, oltre che intellettuale, la quale è capace di racchiudere in un’unica esistenza individuale quel senso di universalità che solo l’avvicendarsi di diverse generazioni, diverse dinastie e diverse epoche riesce normalmente a conferire alle saghe. Adesso si vede chiaramente che la “Recherche” è un universo chiuso in cui tutti gli elementi, anche i più minuti, concorrono alla riuscita dell’insieme, un edificio di sofisticata complessità in lenta, impercettibile eppure incessante costruzione, che lascia ormai intuire perfettamente non solo la direzione cui essa tende, ma persino il suo traguardo (il “tempo ritrovato”). In questa ottica (di un romanzo, cioè, che fa parte di un’opera che lo contiene e in parte lo trascende) si possono capire e interpretare le differenze presenti in “Sodoma e Gomorra” rispetto alle “Fanciulle in fiore” o ai “Guermantes”. Qui il protagonista, pur ripercorrendo (come si è detto) strade già battute nel recente passato, appare cambiato, più disincantato e prevenuto, meno disposto a lasciarsi illudere dai sentimenti, dalle fantasie o dalle apparenze. Così, nei salotti aristocratici, il narratore, promosso al rango di habitué, è in grado di rivelare di primo acchito (con il suo orecchio “esercitato come il diapason di un accordatore”) i caratteri e le singolarità nascoste dei personaggi che li frequentano, ma, non più intimidito dai nomi e dal lusso, l’ironia che aveva prima messo in ridicolo le loro ipocrisie, i loro snobismi, la loro stupidità (diventati adesso evidenti come alla luce del sole) si è in qualche modo attenuata, in quanto egli è diventato ormai uno di loro. Allo stesso modo, il ritorno a Balbec restituisce sì le sensazioni del primo soggiorno attraverso il meccanismo della memoria involontaria (quelle “intermittenze del cuore” che danno il titolo alla seconda parte e che “risuscitano” la figura della nonna, compagna dell’io narrante durante la prima adolescenziale vacanza), ma il fascino, lo stupore, i sogni ad occhi aperti di una volta sono evaporati, e al loro posto, come in una spiaggia dopo la fine dell’alta marea, è rimasta una distesa di cose usurate dal tempo e sporcate dalla abitudine, dalla ripetitività e dalla noia (sebbene tale sensazione di “già vissuto” sia qualche volta, come in occasione dei viaggi serali in treno interrotti alle fermate dalle estemporanee visite di amici e conoscenti, confortevole e appagante). Lo stesso amore per Albertine, per quanto finalmente consumato e non più solo ideale (come erano stati invece quelli per Gilberte e madame de Guermantes), ha perso ogni alone romantico e si è avviato a ripercorrere fatalmente le alterne fasi dell’antico rapporto tra Swann e Odette, macchiato, oltre che dalla scoperta della doppia vita della ragazza, anche dalla riduttiva consapevolezza che chi ama ben difficilmente può essere riamato.
Per finire resta da parlare della omosessualità che dà il titolo al libro. A questo proposito c’è da rilevare la singolare modalità di trattazione adottata nella prima parte di “Sodoma e Gomorra”. In essa, infatti, Proust adotta la “geniale decisione di descrivere il peccato contro natura col metodo e il linguaggio delle scienze per l’appunto naturali (un po’ come si spiega il sesso ai bambini)… Proust distingue, con commossa autoironia, varietà, specie, rami e sottogruppi del genere omosessuale utilizzando il poetico e animato linguaggio di Darwin, popolato di corolle vibratili, di organi sensitivi, di insetti infervorati e ottusamente desideranti; un universo di venti, pollini, colori e profumi, finalisticamente intento al miracolo della fecondazione” (Daria Galateria). Componente tipica del mondo proustiano (anche quando non viene esplicitamente rivelata, come nel caso della tenera, un po’ effeminata amicizia del narratore con Saint-Loup), l’omosessualità trova qui la sua massima espressione, incarnata in uno stile affettuosamente ironico e allusivo e in personaggi (come il barone di Charlus) in grado di fornire molteplici spunti per esplorare, da un punto di vista psicologico prima ancora che sociale, i meandri più reconditi e inaccessibili del fenomeno. Gli “uomini-donna” come Charlus (ma anche le donne dedite al lesbismo) abbondano nel romanzo, gli conferiscono un’impronta inconfondibilmente ambigua, e il fatto che il narratore si accorga solo ora, tutt’a un tratto, della vera natura di coloro che lo circondano (lungi dall’essere un limite del romanzo, a causa del ricorso a scene un po’ forzate come quella in cui egli assiste non visto all’accoppiamento del barone con Jupin) può essere a mio avviso spiegato con quel meccanismo di messa a fuoco intermittente che abbiamo visto più sopra a proposito dei personaggi: quello che nei primi romanzi era dissimulato, nascosto dietro ad altre urgenze narrative (più che dietro all’ingenuo candore del protagonista, incapace di vedere un interesse sessuale nelle bizzarre profferte di Charlus), emerge adesso di colpo in superficie come se fosse sotto una lente di ingrandimento, prima magari di ridimensionarsi, tornando di nuovo sullo sfondo, nel capitolo successivo della “Recherche”.