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LA PARTE DI GUERMANTES
I principali motivi di interesse dei primi due romanzi della “Recherche” consistevano da una parte nella descrizione del mondo interiore del narratore (e nella originale filosofia del tempo e della memoria che da essa derivava) e dall’altra nella raffigurazione dell’ambiente aristocratico da egli stesso frequentato. Nel terzo tomo, “La parte dei Guermantes”, il primo elemento, con il passaggio del protagonista dalla fanciullezza e dall’adolescenza alla maggiore età, sembra francamente avere un minore rilievo, e il lettore viene per di più sfiorato dal sospetto della ripetitività di certe situazioni (la storia d’amore di Saint-Loup riecheggia troppo quella di Swann, l’infatuazione del narratore per la duchessa di Guermantes è penalizzata dal fatto di venire dopo quelle, doviziosamente narrate nei libri precedenti, per Gilberte e Albertine, con in più il neo della impossibilità di realizzazione vista la distanza sociale che separa i due). Sono perciò le pagine sul “bel mondo” parigino a tenere in piedi, in mancanza di un intreccio vero e proprio (qui, più che altrove, non succede praticamente nulla che possa legittimare una trama di una qualche consistenza narrativa), l’opera terza, anche se, per il carattere essenzialmente mimetico dell’operazione proustiana, non è assente una certa dose di ambiguità. I salotti della nobiltà dipinta da Proust sono infatti descritti da un lato con dissacrante sarcasmo (sia pure senza intenzioni moralistiche), dall’altra con un fascino e una partecipazione apparentemente contraddittori.
Un esempio di questa ambiguità si può trovare in quello che è un po’ il leit-motiv del romanzo, ossia nel piacere quasi estetico che il narratore prova per gli altolocati personaggi che portano nomi e titoli ricchi di fascino perché incorporano il mistero di un mondo favoloso e apparentemente inaccessibile, ideale come può esserlo un mito e imperituro come i castelli, i feudi e le terre su cui quegli stessi titoli si appoggiano e prendono lustro, ma che poi, una volta conosciuta nei ricevimenti la loro banale mediocrità e la loro comunissima e per nulla eccezionale intelligenza (persino quella della duchessa di Guermantes, pur così celebrata dai contemporanei), lascia il posto a un fortissimo e inevitabile senso di delusione per una simile, inattesa desacralizzazione, salvo poi – questa delusione – essere a sua volta mitigata dalla poesia che produce, disincarnando le prosaiche fisionomie di coloro cui si fa riferimento, l’ascolto dei complicati intrecci genealogici e dinastici, i quali rievocano seducenti ricordi storici e innumerevoli suggestioni artistiche, architettoniche o geografiche.
Ne “La parte dei Guermantes” (e soprattutto nelle conversazioni che si sviluppano durante i due ricevimenti dalla marchesa di Villeparisis e dalla duchessa di Guermantes, che da soli occupano quasi la metà delle oltre settecento pagine del romanzo) ad avere un posto di primo piano sono quindi le genealogie, le casate nobiliari, il Gotha delle famiglie illustri, l’araldica, dei quali, come detto, il narratore subisce un innegabile fascino, in questo non essendo molto dissimile da Legrandin, il quale disprezza il gusto, la sensibilità e l’intelligenza degli aristocratici, ma poi cerca in tutti i modi di essere ricevuto nei loro salotti. In questi salotti, come già si era visto nei due libri precedenti, si mette in scena un complesso, al tempo stesso affascinante e indisponente, gioco di società, in cui ogni personaggio cerca di dare lustro alla propria persona e al proprio nome per mezzo delle più svariate strategie sociali, quali l’affettazione ipocrita, la dissimulazione calcolata, l’ostentazione esibizionistica della ricchezza, l’esibizione esagerata di conoscenze, la crudeltà mascherata dal bon ton, la recitazione quasi teatrale del proprio ruolo sociale, ecc.
E a un rito sociale viene ridotta persino la morte, che per la prima volta – quella della nonna del protagonista e quella, annunciata, di Swann - fa capolino nella “Recherche”. Nel primo lutto familiare, pur narrato con il consueto dispiegamento di florilegi stilistici e di acute notazioni psicologiche, non si ritrova la profondità spirituale che c’è – che so? – ne “La morte di Ivan Ilic” (o persino nelle riflessioni del secondo volume sull’inevitabile perdita dei propri cari), ma solo l’abilità ineguagliabile nel ritrarre una delle tante messinscene dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francesi dell’epoca, le quali soffocano e sviliscono la spontaneità del dolore e lo sbigottimento di fronte al mistero della vita che se ne va. La seconda (quella imminente di Swann) offre invece lo spunto per l’ultima, definitiva stoccata nei confronti del ”bel mondo”, qui impersonato dai duchi di Guermantes, i quali antepongono il pranzo dalla marchesa di Saint-Euverte a qualsiasi naturale compassione per la sorte dell’amico intimo gravemente ammalato (oltre che per l’imminente decesso del cugino del duca). Anche se Proust è attento ad evitare qualsiasi giudizio moralistico, tanto è totale la sua immedesimazione nella realtà sociale rappresentata, quest’ultima crudeltà è la classica goccia che fa traboccare il vaso della decenza e che smitizza impietosamente e senza alcuna residua possibilità di appello questi sadici mostri dal volto umano.