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ALL'OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE
“À l’ombre des jeunes filles en fleurs” è il bellissimo titolo, evocativo, poetico, musicale, del secondo capitolo della “Recherche”, in cui Proust racconta l’adolescenza del protagonista, una stagione impregnata di desiderio e di sensualità, di eccitazione e di profumi, dei primi piaceri sparsi quasi per caso durante il gioco con una compagna e delle sensazioni dionisiache che per la prima volta rendono le ragazze più attraenti dei quadri e dei monumenti. Certo, non manca in questa seconda parte l’impagabile rassegna di tipi del bel mondo, attraverso un’osservazione inesausta, acutissima e raffinata, la quale, ai limiti della satira di costume, mette alla berlina i vizi e le idiosincrasie dei contemporanei: l’insopportabile snobismo aristocratico, la rozzezza e l’ignoranza nascoste sotto i titoli nobiliari e l’alto lignaggio, l’ostentazione di amicizie e di conoscenze prestigiose (e spesso fasulle) al solo scopo di farsi un nome in società, via via fino ai malori inventati per non dover dare a vedere di non essere stati invitati al ricevimento del marchese Caio, il disprezzo per la duchessa Tizia che ha l’unico difetto di frequentare l’amica Sempronia, la quale potrà poi rivalersi e vantare con tutte questa preferenza, con strascichi penosi di invidie e recriminazioni, la competizione tra salotti rivali, e poi ancora odi dissimulati, malignità sussurrate alle spalle, veleni propinati con eleganza, ecc. ecc.
E’ però con l’entrata in scena dell’amore e dell’innamoramento, non più raccontati in terza persona (come in “Un amore di Swann”), che prende corpo il nucleo centrale di “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Anzi, il romanzo può essere visto come una ricca e doviziosa trattazione della fenomenologia del desiderio (e dell’annesso dispiacere) amoroso. Gilberte e Albertine sono i due poli di attrazione tra i quali il nostro oscilla, con una dedizione sentimentale assoluta ed una sensibilità capace di cogliere miracolosamente tutte le più lievi sfumature di un sentimento reso acerbo solo dalla personalità in continua maturazione dell’adolescente, non certo dalla sua minore intensità. Tra le due muse, vi sono però decine di altre ragazze che il narratore magari incrocia fuggevolmente per strada e che gli lasciano intravedere, attraverso un processo di sublimazione cui non sono estranee l’impossibilità di realizzazione, la brevità dell’esperienza e la labilità del ricordo, abissi di felicità; ragazze che, come le amiche di Albertine, sono come fiori tra i quali il protagonista, come un’ape attratta dal polline, indugia con voluttà, innamorato di tutte e, in fondo, innamorato di nessuna; ragazze la cui immagine egli insegue incessantemente, senza mai ritrovarla uguale (clamorose sono, ad esempio, le “metamorfosi” di Albertine, che ogni volta si ricompone sotto lo sguardo del giovane “emergendo dal pulviscolo del ricordo”) perché sono in un’età in perpetua e costante trasformazione. Le pagine dell’estate a Balbec sono pagine solari, paniche, in cui perfino le differenze di classe vengono meno, e gli obblighi sociali sono facilmente sacrificati di fronte alla Bellezza, pagine che descrivono un'età irripetibile come quella della prima giovinezza e nelle quali, nonostante tutto, si insinua un sottile velo di malinconia, giacché in quelle divine creature si intuiscono già i tratti che, di lì a poco, si irrigidiranno definitivamente, facendo sfiorire definitivamente il loro irripetibile fascino.
Questa considerazione mi riporta a quello che è il tema principale della “Recherche”, vale a dire la dialettica temporale. Molto spesso l’opera di Proust è stata analizzata solo in relazione alla dimensione del passato in rapporto al presente. E’ questa, certo, una parte fondamentale della filosofia proustiana: il passato, in tutto l’arco della “Recherche” viene sublimato, evocato minuziosamente (persone, luoghi, odori, ecc.) fino a giungere a formare un “nuovo” presente, un presente parallelo, eterno e non più modificabile, grazie alla sua cristallizzazione nel piano “perfetto” dell’opera d’arte. Ma c’è anche dell’altro nella complessa dialettica temporale di Proust. In particolar modo è importante sottolineare come il presente venga influenzato non solo dalle madeleines del passato, ma anche dal futuro. Non è solo una questione di desideri, di sogni e di aspettative, e della coscienza che essi si realizzino o meno. E’ qualcosa di metafisico, se così si può dire. Il presente viene infatti avvelenato dal pensiero che le persone che oggi amiamo domani non ci saranno più (pensiero della morte) o non ci ameranno più (pensiero della transitorietà dell’amore). Fin qui nulla di particolarmente originale e innovativo. In realtà, ciò che ci fa soffrire di più è la consapevolezza che anche noi saremo talmente cambiati da non sentire più la loro assenza. Il protagonista si allontana da Gilberte per far sentire di più in lei la propria mancanza e ravvivare così il suo amore, ma sa benissimo (ed in ciò sta il vero strazio) che così facendo sarà lui un domani a essere disamorato (“la felicità ci arride quando, ormai, ci lascia indifferenti”). Così il pensiero che la perdita dei propri cari sarà elaborata, e la vita (anestetizzata dall’Abitudine) procederà normalmente senza di loro, ci provoca un’ondata di sdegno, in primo luogo contro noi stessi.
L’impossibilità della felicità è sancita dal fatto che forziamo il tempo per cambiare il nostro destino (anche semplicemente crescendo, uscendo dall’infanzia per diventare uomini), pur sapendo (ed è la coscienza di ciò a farci soffrire di più) che così facendo anche noi cambiamo, e i termini della nostra felicità sono sempre diversi da prima, e quindi perennemente, malinconicamente irraggiungibili se non nella dimensione della creazione artistica. Ma anche questa, forse, è un’illusione, dato che se è vero che l’opera è destinata a durare per sempre, il creatore non può goderne, in primo luogo perché essa è apprezzata e compresa appieno solo dai posteri e quasi mai dai contemporanei, e in secondo luogo per l’implacabile intervento della morte, la quale, proprio nel momento in cui abbiamo “recuperato” il tempo passato, che diventa perciò tempo “ritrovato”, ce lo toglie inesorabilmente di mano. In tale ottica, non è neppure possibile una visione religiosa della vita, perché il nulla e l’eternità sono sotto questo aspetto identici, nel senso che entrambi ci portano via quello che nell’arco della nostra vita abbiamo faticosamente conquistato. Da qui deriva un pessimismo molto particolare, che non ha nulla della negatività e del ribellismo di Kafka o Leopardi, ma che pure è totalmente sconfortante, raggiungendo con toni più malinconici e sfumati le loro medesime conclusioni, persino nella constatazione della fugacità e della precarietà del desiderio. Quando infatti il narratore si invaghisce delle fanciulle incontrate fuggevolmente per strada, è costretto a rendersi conto dell’illusorietà del suo desiderio, che è alimentato – come si è già detto - proprio dall’inaccessibilità della persona intravista ma che, qualora l’incognito venisse meno, sarebbe destinato a dissolversi in un istante. In tal modo il desiderio delle cose che non possediamo (e che pure è l’unico a rendere più interessante la vita) diventa analogo a quello che un moribondo sente verso i giorni futuri che gli sono negati, anche qualora questi fossero, come il più delle volte succede, squallidi e meschini.