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Alla ricerca del tempo perduto
 
Alla ricerca del tempo perduto 2018-02-12 09:12:42 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    12 Febbraio, 2018
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DALLA PARTE DI SWANN

Usando il procedimento della sineddoche (ossia, la singola parte che spiega il tutto), si può affermare che il primo dei sette romanzi che compongono “Alla ricerca del tempo perduto” riproduce alla perfezione l’intero universo artistico proustiano. Esso è infatti tanto un romanzo sulla memoria e sul tempo (“Combray”) quanto un romanzo sulla società dell’epoca (“Un amore di Swann”). Ambedue le ambiziose tematiche, impregnate di filosofia (soprattutto Bergson e i suoi studi sul sogno e sulla memoria inconscia) e di acute notazioni psicologiche, sarebbero di per sé sufficienti a garantire all’opera di Proust la patente di capolavoro, assolvendola altresì in anticipo da qualsiasi eventuale accusa (peraltro ingiustificata, come si vedrà più avanti) di calligrafismo e di eccessiva ricercatezza formale. Infatti lo scrittore francese compie una vera e propria operazione di magia, facendo riaffiorare nelle sue pagine la memoria del tempo che fu, in una rappresentazione del passato minuziosissima non solo nei dettagli fisici ed esteriori ma anche e soprattutto in quelli immateriali, come un odore o un sapore (“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”). Così una semplice madeleine (la celeberrima madeleine proustiana, gioia e tormento di intere generazioni di studenti liceali!) permette all’autore di recuperare come per incantesimo il passato della sua infanzia a Combray (“E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”). La bravura e l’originalità di Proust consiste specialmente nel coniugare l’involontarietà del processo di affioramento del passato, opera di sensazioni improvvise e incontrollabili e di un meccanismo eminentemente inconscio o casuale (“E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo (il passato), inutili i tentativi delle nostre intelligenze. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale… Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai”), con l’artificiosità di un progetto lungamente meditato ed elaborato a tavolino, con lucido e disincantato raziocinio. Da questa aporia deriva il fascino di Proust, il quale naviga in miracoloso equilibrio tra mondo sensoriale e mondo razionale, tra istinto e intelletto, tra coscienza e cervello. In questo modo, mentre salvaguarda la purezza e l’innocenza delle emozioni del fanciullo, riesce a conservare intatte le facoltà critiche dell’adulto.
C’è una pagina in cui si coglie appieno quanto detto sopra, vale a dire quella in cui l’autore bambino, durante la consueta passeggiata postprandiale con i suoi genitori, si accorge per la prima volta del “disaccordo fra le nostre impressioni e la loro espressione abituale”. Il sole che, dopo la pioggia, illumina coi suoi riflessi le tegole dei tetti e le acque dello stagno incontrati durante il cammino strappa infatti al protagonista una banale esclamazione di entusiasmo. “Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto”. Diventato adulto, Proust ha riversato nella “Ricerca” quella sua originaria esigenza, mettendo in opera il più grandioso, il più meticoloso, il più analitico sforzo mai tentato prima d’allora di restituire sulla pagina scritta, e nonostante gli anni passati, le più piccole e insignificanti sfumature delle sue esperienze giovanili, anche le più fugaci e transitorie (come l’influsso che i biancospini primaverili risvegliano nell’animo sensibile ed eccitabile del fanciullo o l’esaltazione provocata dalle solitarie passeggiate “dalla parte di Swann”, esacerbata dal turbamento adolescenziale di una apparizione femminile da lui evocata), arricchito in più da una matura e ponderata capacità di decrittarle alla luce dell’esperienza degli anni trascorsi. Il lettore ha così la possibilità di assistere al titanico tentativo dell’autore di restituire fedelmente la verità oggettiva che è nascosta dietro ogni cosa vissuta nel passato e che nel passato è stata solo intuita, vissuta come mera emozione, attraverso un sofisticatissimo processo di razionalizzazione e rielaborazione del ricordo, il quale giustifica appieno l’impegnativa affermazione che “la realtà non si forma che nella memoria”.
Collocato subito dopo la fantasmatica evocazione dell’infanzia di “Combray”, “Un amore di Swann” sembra appartenere ad un altro romanzo. Qui Proust lascia temporaneamente da parte l’intimismo delle pagine precedenti per dedicarsi all’analisi dei rapporti sociali, facendolo non solo con la consueta maestria ma anche con quell’impareggiabile ironia che già in “Combray” gli aveva permesso di tratteggiare alcuni impagabili “tipi” come zia Leonie e Legrandin. Reciprocamente accostati dall’autore grazie alle contemporanee frequentazioni del personaggio principale, Swann, l’aristocrazia e il demi monde sono dipinti impietosamente, con tutti i loro snobismi, tic, ipocrisie e meschinità, ma mai con acredine e cattiveria, senza cioè la volontà di demistificare una classe sociale cui Proust - non dimentichiamolo - apparteneva. Al contrario, i “fedeli” del salotto Verdurin e i nobili amici di Swann sono visti con una arguzia bonaria che non sfocia mai nella comicità triviale o nella satira da vaudeville, consentendo nondimeno all’autore di scrivere, con la sapida rappresentazione della serata mondana organizzata da Madame de Saint-Euverte, pagine così deliziose da rivaleggiare con (e forse superare) i maggiori capolavori della letteratura umoristica di tutti i tempi.
Inserita all’interno della descrizione del bel mondo parigino di fine ‘800 e abilmente intrecciata con essa (come si può vedere nella lunga sequenza in cui Swann cade in disgrazia agli occhi dei Verdurin e contemporaneamente Odette mostra di preferirgli un loro blasonato ospite) c’è poi la storia d’amore tra Swann e Odette, la quale, per profondità di analisi e spessore psicologico, può essere considerato un mirabile e accuratissimo trattato sull’innamoramento e sul rapporto amoroso. La parabola dell’amore di Swann per Odette passa attraverso le varie fasi della sublimazione dell’essere amato, dell’esclusivo desiderio del suo possesso, della cristallizzazione del sentimento nelle abitudini quotidiane, della gelosia devastante come una malattia e infine della delusione quieta e rassegnata, tutte esposte nelle loro più microscopiche sfumature psicologiche. Il rapporto tra i sessi è visto come una sottile e quasi diabolica lotta di potere, a stento camuffata dalle convenzioni e dal bon ton, in cui a cedere è inesorabilmente il partner più innamorato, ma l’amarezza di questa constatazione è stemperata dalla lontananza temporale della storia e dal fatto che sappiamo già dalle pagine iniziali del romanzo come essa sia finita. In questo senso, la chiusa di “Un amore di Swann”, con l’apparentemente definitiva e liberatoria presa di coscienza da parte del protagonista di aver perso anni della sua vita dietro a una donna inferiore che non lo merita affatto, suona ironica e beffarda alla luce del successivo matrimonio tra i due.
Nelle cinquecento pagine di “Dalla parte di Swann” lo stile di Proust non ha mai una caduta, mantenendosi su livelli prodigiosamente alti. Il suo stile, fatto di interminabili periodi dilatati a dismisura dalla presenza di numerose subordinate e parentesi, rompe definitivamente con la tradizione del romanzo ottocentesco, prima ancora e forse più radicalmente di Joyce. Negli anni in cui Monet e i suoi colleghi impressionisti cercavano di trasferire sulla tela tutte le modulazioni della luce su un particolare soggetto (ad esempio, le numerose vedute della cattedrale di Reims alle diverse ore del giorno), Proust può anch’egli a buon diritto essere definito “impressionista” per la sua virtuosistica capacità di descrivere, con parole mai udite prima, l’indistinto apparire dei raggi del sole sulla superficie del balcone oppure una semplice sonata musicale (“al di sotto della tenue linea del violino, esile, resistente, densa e direttrice, aveva visto a un tratto cercar d’innalzarsi in un liquido sciabordio la massa della parte per pianoforte, multiforme, indivisa, piana e internamente ribollente come l’agitazione color malva dei flutti incantati e bemollizzati dal chiaro di luna”. Le sensazioni, i moti psicologici e i fremiti della natura non sono solo descritti da Proust nel loro minuzioso, soggettivo, emergere alla coscienza, ma anche per mezzo di analogie e paragoni che li oggettivano, li reificano in un affascinante processo di carattere simbolico. Il parlare per analogie è una caratteristica peculiare della scrittura proustiana, un vero e proprio leit motiv (un solo esempio pescato tra i tanti: “…i rumori più distanti, quelli che dovevano venire da giardini situati all’altro capo della città, si percepivano in dettaglio con una tale finitezza che sembravano dovere un simile effetto di lontananza unicamente al loro “pianissimo” come certi motivi in sordina eseguiti dall’orchestra del Conservatorio così bene che l’ascoltatore, pur non perdendone una sola nota, ha l’impressione di sentirli risuonare dal di fuori della sala, e tutti i vecchi abbonati… tendevano l’orecchio come se stessero ascoltando il remoto clamore di un esercito che, avanzando nella sua marcia, non avesse ancora svoltato per rue de Trévise”), oltre che uno dei vari motivi stilistici i quali, insieme alla raffinata levigatezza delle frasi, alla ineguagliabile profusione di aggettivi e alla originalissima varietà lessicale, fanno di “Dalla parte di Swann” un caposaldo della letteratura del ‘900, tanto più importante perché non è altro che il primo capitolo di un progetto (“Alla ricerca del tempo perduto”) molto più ampio e composito.

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Che libro meraviglioso, vero?! Quante pagine 'da antologia' !
In risposta ad un precedente commento
kafka62
13 Febbraio, 2018
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Hai ragione, Emilio. Unendo le pagine 'da antologia' che un lettore è in grado di estrapolare dalla "Recherche" si potrebbe comporre un libro sublime, inarrivabile. E' il classico romanzo che uno dovrebbe portare con sé nell'isola deserta; se non altro, con le sue 4000 pagine, ci si potrebbe andare avanti per anni senza mai annoiarsi.
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