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RITRATTO DI DUBLINO IN NERO
Il leit motiv di “Gente di Dublino” è la paralisi: ipostatizzata nella paralisi fisica di Padre Flynn nel primo episodio, essa attanaglia, nella forma di paralisi spirituale, la volontà di tutti quanti i protagonisti dei quindici racconti, bloccandone le aspirazioni, frustandone le ambizioni, costringendoli a una vita spenta, ripetitiva e vuota di senso, e privandoli perfino della speranza nel futuro. La città di Dublino (opprimente, uggiosa, ostile) è come l’appendice materiale di questa paralisi, anche se Joyce è bravo nel rendere universale questa condizione umana (basta cambiare i nomi delle strade, e le storie potrebbero essere trasportate ovunque nel mondo). Dove Joyce è senza mezze misure geniale è nell’avere abbracciato nei suoi racconti tutte le fasi dell’esistenza, accomunando in un totale, irrevocabile pessimismo, la fanciullezza alla vecchiaia. In “Gente di Dublino” fin dai primi anni di vita non c’è alcuno spiraglio per sfuggire alla paralisi. Gli ambienti familiari sono squallidi e soffocanti (spesso poi le figure di riferimento sono zii e zie), ma quando i piccoli protagonisti escono di casa per azzardare un’evasione non trovano nulla: la gita di “Un incontro” si risolve in una delusione, l’adolescente di “Arabia” dopo aver agognato per tutta la settimana la visita al bazar cittadino dall’esotico nome vi giunge quando si stanno spegnendo le ultime luci, mentre quando non è la deprimente realtà a sconfiggere i personaggi, e una prospettiva di fuga e di una vita diversa e migliore si presenta all’orizzonte, sono i sensi di colpa, la paura dell’ignoto e soprattutto l’assuefazione al pur scoraggiante presente a impedire ogni cambiamento (”Eveline”). Crescendo la situazione si complica se possibile ancora di più, e matrimonio e figli vengono visti (“Pensione di famiglia”, “Una piccola nube”) come fastidiose zavorre che impediscono una peraltro improbabile autorealizzazione, alimentando in tal modo rimpianti, invidie e vittimistici risentimenti contro il destino, o peggio ancora come gli inermi e passivi destinatari su cui sfogare vigliaccamente le proprie frustrazioni (“Rivalsa”).
In “Gente di Dublino” lo stile di Joyce è ben lontano da quello, trasgressivo e rivoluzionario, che impiegherà nell’”Ulisse” e nella “Veglia di Finnegan”. Esso è al contrario ancora saldamente ancorato ai modelli del romanzo ottocentesco, il che può riservare una sorta di delusione in chi si aspettava una qualche anticipazione dei canoni espressivi della narrativa del nuovo secolo. C’è però una novità profonda rispetto ai racconti di un Flaubert o di un Maupassant: in ognuno dei quindici racconti di “Gente di Dublino” interviene ad un certo punto, nella routine quotidiana apparentemente immodificabile, un qualcosa che fa sì che i personaggi da quel momento in poi non siano più come prima: i critici l’hanno definito una “epifania”, ossia una rivelazione, una presa di coscienza in negativo della propria condizione esistenziale (ad esempio, l’amara scoperta della propria irrevocabile solitudine da parte del protagonista di “Un caso pietoso”). Questo procedimento è del tutto evidente in quello che è il più lungo, complesso ed elaborato racconto di tutta la raccolta, “I morti”. In esso, la riunione natalizia in casa delle sorelle Morkan viene narrata in maniera molto tradizionale, attraverso tutti i rituali – conversazione, ballo, pranzo - di una riunione borghese; ma quando, qualche minuto prima del congedo, il protagonista Gabriel Conroy sorprende la moglie Gretta in commosso ascolto di una musica lontana, scatta un qualcosa che sposta il tono del racconto su un piano simbolico e spirituale (nelle pagine precedenti intuito soltanto attraverso sporadici momenti di inquietudine e di imbarazzo di Gabriel). I remoti ricordi della moglie, che aveva avuto in gioventù uno spasimante che era morto per lei, scuotono Gabriel, facendogli improvvisamente capire (ecco l’epifania joyciana) quanta parte della vita della donna con cui ha vissuto tanti anni gli sia preclusa e portandolo a riflettere malinconicamente sul labile (e qualche volta, come nella nevosa notte natalizia del racconto, impalpabile) confine che separa la vita e la morte. L’immagine della morte ritorna così ancora una volta in “Gente di Dublino”, chiudendo così emblematicamente il cerchio aperto, come si diceva all’inizio a proposito della morte di Padre Flynn, con “Le sorelle”.
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Certo chi si approccia a Joyce non lo fa a cuor leggero, ma comunque non è semplice recepirne il messaggio e la chiave di lettura!
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