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Démoni o demòni
E’ un libro sfuggente questo: multiforme sin dal titolo, di cui si ricordano numerose varianti a partire dall’accento di quello più conosciuto, sembra avviarsi in una direzione per poi sterzare verso quella opposta cambiando nel frattempo atmosfere e passo. Solo uno sguardo retrospettivo consente di coglierne la struttura d’insieme e, di conseguenza l’idea di fondo: la parte iniziale che narra con tono leggero le vacue peripezie di Stepan Trofimovi? Verchovenskij, scrittore e poeta incompreso, e del suo amore platonico per la nobildonna Varvara Petrovna Stavrogina è l’emblema della generazione vissuta al termine della prima metà dell’Ottocento che, imbevuta di passione per l’Occidente (Stepan parla francese dino all’ultimo sospiro), era accusata dall’autore di essere dimentica dell’essenza dello spirito russo. Le colpe di tali genitori ricadono sui figli (o forse bisognerebbe affermare il contrario): cresciuti nella bambagia e senza una guida sicura, i rampolli si lasciano andare a un ribellismo fine a se stesso che sfocia nella tragedia che pervade una seconda metà di romanzo talmente popolata di pianti e stridor di denti da essere (quasi) senza speranza. E’ innegabile che l’assunto suoni un po’ reazionario raccontando che mal gliene incoglie a chi (o almeno a coloro che stanno a loro più vicino) si allontana dal rispetto per Dio, Russia e famiglia: ulteriori conferme si possono trovare nella vanesia Julia Michajlovna, la moglie del governatore che organizza un ballo benefico invitando chi può donare senza badare alla classe andando incontro alla propria rovina sociale, nell’ateismo nichilista dell’ingegner Kirillov che ha come unico sbocco il suicidio o, all’estremo opposto, negli ultimi giorni di Stepan Trofimovi? in cui il vecchio miscredente si riavvicina alla religione. Ma si tratta di un’opera di Dostoevskij e la tesi sottostante, seppur discutibile, riveste un’importanza secondaria: non solo perché lo scrittore dà ampia dimostrazione di conoscere l’animo dei suoi connazionali (quanto sovietica è l’antiutopia immaginata da Šigalëv?), ma per la consueta, possente costruzione di situazioni e soprattutto di personaggi, come al solito millanta eppure descritti con una profonda analisi psicologica che, con poche eccezioni (il delinquente Fëd'ka, l’autocompiaciuto letterato Karmazinov), ne crea un ritratto a tutto tondo e, ciò che più conta, mai banale. Come accennato, le anime nere della vicenda sono due: Pëtr, figlio di Stepan, è un agitatore politico senza scrupoli pronto a uccidere più per proteggere (o favorire) se stesso che la nebulosa causa a cui è dedito, ma è surclassato – nell’attenzione dell’autore e, di conseguenza, nel fascino sul lettore – da Nikolaj Stavrogin. Rientrati nell’innominata città natale dopo un soggiorno pieno di misteri tra Svizzera e Francia (entrambi sono cresciuti lontani dai genitori), i due si danno subito da fare per sfruttare le debolezze di chi rappresenta l’ordine costituito: o, almeno, è questo lo scopo dell’attivismo del primo assieme al desiderio di mettersi in buona luce agli occhi del secondo. Pëtr non si tira indietro di fronte ai delitti più brutali pur di trascinare Nikolaj dalla sua parte, ma ciò che coglie in lui è il motivo per cui i suoi sforzi sono vani. Stavrogin è affascinato dal male in sè, senza neppure quella grandiosità che si può intravedere a volte in una mente criminale: non teorizza sull’argomento come Raskolnikov, ma osserva con maggior soddisfazione di quanto voglia confessare a se stesso le vie per le quali le sue azioni (o inazioni) possano rovinare le esistenze altrui. Di particolare efferatezza è il suo atteggiamento nei confronti delle donne (nelle quali vuol forse punire la madre assente?): sposa la disabile Marija per scommessa, seduce e mette incinta la moglie del discepolo Šatov per sfizio, rinnega il sentimento che prova per Lizaveta Nikolaevna che per lui non esita a disonorarsi (la sua figura è simile ad altre disegnate dall’atore, ad esempio Nastas'ja Filippovna ne ‘L’idiota’) di fatto condannandola a una morte terribile. La forza del personaggio di Stavroghin è confermata dalla sua fine, che è anche quella del romanzo: mentre Pëtr si adopera vigliaccamente per salvarsi la pelle, egli prende in qualche modo coscienza del vuoto colpevole della propria esistenza, traendone le estreme conseguenze che comunque usa per infliggere un’ulteriore pena a Varvara.
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