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La campana di vetro
 
La campana di vetro 2017-07-04 13:22:01 Roleg
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Roleg Opinione inserita da Roleg    04 Luglio, 2017
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Io sono. Io sono. Io sono.

Anni sessanta.

Sei brava, sei intelligente, sei sensibile, sei brillante, sei precisa.

Ma non importa, la società ha già definito il ruolo per te. Devi essere sana, moglie devota, brava madre, brava casalinga, magari stupida, simpatica e ben vestita.
Se non sei conforme al modello, non sei adeguata per la vita che ti attende.

Ma questo ruolo ti sta stretto. Ti senti come in una "campana di vetro", bloccata, senza spazio vitale, senz'aria.

"Vidi la mia vita protendere i suoi rami come il verde albero di fico del racconto. Dalla cima di ogni ramo ammiccava e occhieggiava un futuro meraviglioso. Un fico simboleggiava un marito con una casa felice e dei bambini, un altro un celebre poeta, un altro un brillante professore universitario, un altro uno straordinario redattore, un altro ancora rappresentava l'Europa, l'Africa e il Sud America e uno era Constantin, Socrate, Attila e una schiera di altri innamorati dai nomi strani e dalle professioni eccentriche, un altro era una popolare campionessa olimpionica, e, al di là e al di sopra di tutti questi fichi, molti altri fichi c'erano che non potevo neppure scorgere. Mi vidi seduta sulla biforcazione di un ramo di questo albero, mentre morivo di fame, solo perché non sapevo decidermi a fare la mia scelta. Avrei voluto poterli scegliere tutti; ma scegliere voleva dire perdere tutti gli altri e, mentre sedevo là, incapace di decidermi, i fichi si raggrinzirono, diventarono neri e, l'uno dopo l'altro, caddero a terra ai miei piedi."

Sylvia Plath sente che tra quello che lei è e ciò che ci si aspetta che sia c'è incompatibilità e, forse grazie a una depressione, tenta la fuga, il suicidio, già a vent'anni.

Seguiranno tanti altri tentativi, fino al compimento della sua volontà, a 31 anni.

Il romanzo, autobiografico, dove Sylvia descrive la vita di una ragazza, Esther, suo alter ego, mi ha colpito innanzitutto per lo stile. Mi aspettavo un clima cupo, deprimente, opprimente, senza speranza. L'ho trovato invece coinvolgente, asciutto, non disperato, tranquillo, pacato, quasi rassegnato. L'atmosfera non è alienata, nonostante la malattia mentale. Non c'è chiusura in sé stessa, bensì apertura, ironia, cinismo.

Parlando per bocca di Esther, Sylvia racconta i suoi incubi, i rapporti con la madre, il sesso, la sua prima volta, l'esperienza in ospedale psichiatrico, l'elettroshock, le riflessioni sul suicidio, la depressione, la poesia, l’invidia.

Parla di sé, Sylvia Plath. Ma il suo discorso acquisisce valenza assolutamente universale e attuale. Ed è questo che fa di questo libro un vero gioiello.

L'interrogarsi di Sylvia sul senso della vita e sulle sue costrizioni diventa, lentamente e inevitabilmente, il nostro.

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