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Cecità e follia
Re Lear è una delle più illustri tragedie di Shakespeare, composta tra 1605 e 1606, in piena fase matura. Il tema principale del dramma è la follia, rappresentata nel suo dispiegarsi in varie sfaccettature attraverso i diversi personaggi. Di massimo rilievo è, ovviamente, la pazzia del protagonista, in cui la dimensione intellettuale sovrasta nettamente quella pragmatica, il che ha alimentato le discussioni sull’effettiva recitabilità di questo dramma: secondo molti, infatti, la grandezza di quest’anima non può esser trasposta in atti recitativi, solo la lettura può renderle giustizia. La rappresentazione della follia di Lear è unanimemente considerata uno dei vertici artistici di Shakespeare, che la dipinge nel suo continuo fluire, nelle oscillazioni tra razionale e irrazionale, nelle sue intrinseche contraddizioni coesistenti nell’animo del vecchio re. La follia di Lear culmina nella celebre scena della tempesta, anch’essa difficilmente inscenabile a teatro: il protagonista si immerge pienamente nella natura in subbuglio, diventa parte integrante del caos degli elementi naturali scatenati nella notte temporalesca; la follia diventa una condizione esistenziale a cui sembra partecipare anche il mondo della natura.
Questa pazzia è frutto di un’errata lettura del mondo da parte di Lear, un elemento tipico dei grandi eroi tragici shakespeariani, incapaci di cogliere e comprendere la molteplicità della realtà da cui sono circondati. Le parole ingannatrici di Gonerill e Regan contrastano con il loro animo insensibile e calcolatore, così come il silenzio di Cordelia non è in grado di rendere onore alla sua grandezza d’animo, al suo sentimento d’affetto per il padre. Gli eroi tragici sono ciechi di fronte al mondo. La cecità, strettamente connessa alla follia, è dunque un altro motivo portante di questo dramma, che si ritrova su un piano fattuale anche in Gloucester, un altro personaggio vittima degli inganni della parola ad opera di Edmund il Bastardo. Sia per Gloucester che per Lear la cecità di fronte alla realtà conduce a un dolore immenso e alla follia, culminando in entrambi i casi in una terribile morte: l’uno tenta il suicidio ma è salvato da Edgar, morendo comunque poco dopo, l’altro si uccide alla fine della tragedia dopo l’impiccagione di Cordelia, la figlia tanto odiata all’inizio. L’idea generale sembra esser dunque quella dell’instabilità che domina l’animo degli uomini, ripercuotendosi nelle loro vite con effetti nefasti per la loro incapacità, la loro piccolezza di fronte alla molteplicità del mondo.
Emblematica è, in tal senso, la figura del fool, ruolo tipico della produzione shakespeariana – per di più qui duplicato dal finto pazzo Tom/Edgar, la cui finta follia gli permette di ristabilire la situazione punendo Edmund –: il Matto è solo apparentemente un personaggio comico, poiché le sue parole nascondono, invece, profonde verità sull’insensatezza del mondo e delle azioni umane, evidenziando così proprio il tragico. Follia e tragedia sono, dunque, compenetrate nella realtà.
Un simile universo ideologico pone ovviamente l’accento sulla dimensione umana dell’azione, centrando quindi l’attenzione su determinati valori. Innanzitutto la giustizia, sulla cui effettiva realizzazione Shakespeare sembra nutrire seri dubbi a causa della natura stessa dell’uomo; la conclusione, estremamente tragica, più che ricomporre l’ordine – secondo la convenzione drammaturgica consueta nel Bardo – sembra voler consegnare alle generazioni future la speranza che riescano a correggere il mondo di ingiustizia e instabilità in cui si sono ritrovati. Antagonisti ed eroi muoiono parimenti, dunque l’esito appare in questo caso quanto mai incerto, così come irrisolta rimane la questione della giustizia.
Un altro valore centrale in questa tragedia è poi quello della nobiltà d’animo, che si incarna nell’affetto filiale, nella sincerità di Cordelia e del re di Francia, che ne apprezza proprio questi valori; ad essi antitetici sono i personaggi di Gonerill e Regan, prive di sensibilità e di moralità, in preda esclusivamente ai propri appetiti e interessi, al pari dei loro mariti, in particolare il Cornovaglia, dato che l’Albany si riscatta parzialmente nel finale. Specularmente a costoro si pongono i rispettivi servitori: da un lato abbiamo il vecchio Kent, che, pur cacciato da Lear, gli rimane fedele e trova il modo di restargli accanto per aiutar lui e la nobile Cordelia, dall’altro abbiamo l’ignobile Oswald, servo di Gonerill, che non esita a mancar di rispetto al vecchio re per ordine di quest’ultima, ai cui piani con la sorella partecipa attivamente finché non viene ucciso. Un’ultima polarità dello stesso tipo si ha, infine, tra Edgar ed Edmund: il primo è vittima inconsapevole delle trame del fratellastro e riesce comunque a riscattarsi con astuzia fino ad aver la meglio alla fine, mostrando la sua magnanimità nel prendersi cura del padre ormai accecato e morente; il secondo, ultima evoluzione della figura del villain con cui Shakespeare si è a lungo cimentato, compie il male per puro guadagno personale, redimendosi solo nel finale, peraltro invano. È importante segnalare che Edmund dichiara esplicitamente l’intenzionalità del suo agire, mettendo così in risalto la sua intelligenza pragmatica di pianificatore. Contrastando quanto detto poco prima dal padre, che aveva attribuito le colpe delle azioni dell’uomo all’influsso delle stelle, egli afferma che le scelte dipendono esclusivamente dalla natura stessa degli uomini, che ne sono dunque pienamente responsabili; ogni influsso esterno e trascendente è perentoriamente escluso con un tono di disprezzo verso la stupidità degli uomini incapaci di esser uomini e di sapere di esserlo:
"È questa la suprema stupidità del mondo, che quando ci sta male la fortuna - spesso perché l'abbiamo troppo ingozzata - attribuiamo la colpa delle nostre disgrazie al sole, alla luna e alle stelle, come se noi fossimo canaglie per necessità, stupidi per coercizione celeste, furfanti, ladri e traditori per prevaricazione delle sfere, ubriachi, mentitori e adulteri per obbedienza coatta all'influsso dei pianeti; e ogni nostra malvagità è dovuta a imposizione degli dèi. Mirabile scappatoia per l'uomo puttaniero, imputare i suoi istinti da capro a una qualche costellazione. Mio padre si è accoppiato con mia madre sotto la coda del Drago, e la mia natività è stata nel segno dell'Orsa Maggiore, ragion per cui sono violento e lascivo."