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La morte di Ivan Il'ic
 
La morte di Ivan Il'ic 2017-02-26 19:26:26 Franco Pompei
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Franco Pompei Opinione inserita da Franco Pompei    26 Febbraio, 2017
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Ivan Il'ic ovvero l'uomo e la morte

“il fatto stesso della morte di un conoscente intimo suscitava in tutti coloro che venivano a saperlo, come sempre, un sentimento di gioia perché era morto lui e non loro.” (da “La morte di Ivan Il’ic”)

La difficoltà di instaurare una reale comunicazione nelle relazioni interpersonali e la solitudine di fronte alla malattia e all’approssimarsi della morte, la disperata ricerca di un sollievo da parte di chi vede avvicinarsi la fine: questo ci rappresenta Tolstoj in uno dei suoi racconti più strazianti. Ivan Il’ic è il paradigma dell’uomo comune poiché al di là della sua contestualizzazione storica e sociale (è un magistrato della Russia zarista della seconda metà del XIX secolo), possiede indubbi caratteri di universalità: come la maggior parte di noi, nel corso della sua vita ha commesso qualche azione della quale non andare particolarmente fiero ma non può essere definito una cattiva persona, anzi, sul lavoro è onesto e scrupoloso e non abusa mai dei poteri di cui è investito in ragione del suo ufficio, in famiglia è un marito gentile ed un padre affettuoso ed “in società” è sempre affabile e cordiale con tutti. Nel corso degli anni Ivan Il’ic riesce laboriosamente a costruirsi un sistema di vita quanto più possibile gradevole, “schivando” abilmente tutte quelle situazioni che possono minacciare tale gradevolezza (ad esempio per evitare le scenate della moglie, gelosa e nevrotica, trascorre sempre meno tempo in casa e si rifugia nel proprio lavoro e nella vita sociale esterna). Questo modus vivendi gradevole e “decoroso” che Ivan Il’ic è riuscito a conquistarsi, però, ad un certo punto viene sconvolto da una banale quanto tragica fatalità: un piccolo trauma dovuto ad una caduta ed apparentemente privo di gravi conseguenze è l’evento scatenante di una lunga e misteriosa patologia che lentamente ed inesorabilmente conduce il protagonista alla morte. Per una sorta di terribile legge del contrappasso, da questo momento in poi saranno tutti quelli che gli stanno intorno a “schivare” Ivan Il’ic, ossia, a fingere di non riconoscere la gravità della sua malattia ed in effetti questa finzione altro non è se non un’inconscia “strategia difensiva” dall’orrore della malattia, del tutto analoga a quella per tanto tempo adoperata dallo stesso Ivan Il’ic per sottrarsi alla sgradevolezza della sua vita familiare. Per Ivan Il’ic inizia un lungo calvario nel corso del quale ad un’iniziale alternanza di momenti di speranza e di terrore fa seguito una sempre maggiore consapevolezza dell’avvicinarsi della fine. Terribilmente angoscianti sono le pagine nelle quali Tolstoj descrive l’incomunicabilità che spesso ancora oggi, purtroppo, caratterizza la relazione fra medico e paziente: ad Ivan Il’ic viene quasi rimproverato, con sussiego dottorale, di voler conoscere la reale gravità della sua malattia, di voler sapere se c’è o meno speranza di guarigione. Con il progredire della malattia, alla sofferenza fisica ed alla paura si aggiunge per Ivan il’ic un altro tormento: quello derivante dalla rabbia per “la menzogna” che lo vuole “malato ma non moribondo”, una menzogna alla quale egli stesso viene costretto a partecipare. Sono pagine toccanti nelle quali l’autore descrive magistralmente il supplizio della malattia e la sua drammatica capacità di portare alla luce quei bisogni che, in condizioni di normalità, le convenzioni etiche e sociali impongono di tenere nascosti, prima ancora che agli altri, a sé stessi (“in certi momenti, dopo lunghe ore di sofferenza, anche se si sarebbe vergognato a confessarlo, aveva soprattutto voglia che qualcuno avesse pietà di lui, come di un bambino malato. Avrebbe voluto che lo carezzassero, che lo baciassero, che lo compiangessero, così come si accarezzano e si consolano i bambini”). Gli unici momenti di conforto per il protagonista, in questo oceano di solitudine e disperazione, sono quelli trascorsi in compagnia del servo Gerasim, il solo a non “mentire” e a dimostrare per il padrone un’empatia tradotta in gesti semplici, ma così importanti per Ivan Il’ic, come il dargli sollievo dal dolore tenendogli sollevate le gambe: in questo Tolstoj anticipa una tematica, quella della contrapposizione fra l’ipocrisia “borghese” e la spontaneità “popolana”, che verrà ripresa da diversi autori europei del secolo successivo (si pensi ad esempio a Pasolini). Giunto allo stremo delle proprie forze Ivan Il’ic costringe se stesso ad un’impietosa autoanalisi che termina con un'amara constatazione: tutti i momenti della sua vita che prima gli erano sembrati i migliori, i più piacevoli, adesso gli appaiono “qualcosa di insignificante, spesso di ripugnante”; si salvano solo l’infanzia e la primissima giovinezza nelle quali il protagonista intravede qualcosa “che sarebbe stato pronto a rivivere, se avesse potuto tornare indietro. Ma la persona che aveva provato quei momenti piacevoli non c’era più: sembrava il ricordo di qualcun altro”. A questa constatazione si accompagna infine, nella visione religiosa maturata da Tolstoj negli ultimi anni della sua produzione letteraria, un nuovo senso di pietà del protagonista ormai non più solo per sé stesso ma anche per tutti quelli che gli stanno intorno ed una improvvisa e nuova visione della morte quale definitiva liberazione di sé stesso e degli altri dalla sofferenza.

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