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L'ultima spiaggia
“C'era qualcosa di magico in un'isola: bastava quella parola a eccitare la fantasia. Si perdeva il contatto col resto del mondo, perché un'isola era un piccolo mondo a sé.”
Nigger Island non è poi tanto lontana dalla terraferma, raggiungibile con relativa facilità se le condizioni del tempo (e del mare) non sono avverse. Ha una caratteristica che la rende particolarmente invitante, per persone della più diversa estrazione sociale: si vocifera che l'intera isola e l'imponente villa, unica costruzione che vi sorge, siano state acquistate da un miliardario.
Un'insegnante di educazione fisica, un medico, un giudice e un generale entrambi in pensione, un aitante giovanotto amante dei motori, una vecchia zitella di salda fede religiosa, un avventuriero, un poliziotto in incognito, una coppia di coniugi reclutati in qualità di maggiordomo tuttofare e di cuoca. Dieci persone che ricevono un invito personalizzato, all'insaputa l'una dell'altra (fatta eccezione per i due della servitù, ovviamente), e destinate a riunirsi sull'isola in un determinato giorno. Dieci persone che sbarcano, si osservano l'un l'altra, combattute tra la curiosità per i tipi umani e il fastidio per una convivenza che si preannuncia coatta. Dieci persone che si studiano, come non abbiano nulla in comune.
E invece qualcosa che le accomuna c'è: la voce che si diffonde nella sala, subito dopo la prima cena del gruppo, accusa ciascuno di loro di una colpa precisa e incancellabile: l'essersi macchiati – in tempi, luoghi e modalità diverse – di omicidio.
La prospettiva del soggiorno cambia del tutto, e si trasforma in un incubo collettivo: come mai i padroni di casa, il signor e la signora Owen, non sono ancora arrivati? Che significano quelle dieci statuine nel bel mezzo della tavola da pranzo? E come mai in tutte le stanze degli invitati vi è una copia della filastrocca sui “dieci poveri negretti”, che insieme “se ne andar” e poi “nessuno ne restar”? Quale squilibrato inciderebbe quella serie di indimostrate accuse su un disco, per farla girare sul grammofono ad un dato momento della sera?... Esistono davvero un signor e una signora Owen?...
“Quel che c'è di buono nelle isole è che, quando vi si arriva, non si può andare oltre, si è giunti come a una conclusione...”
Quasi 80 anni fa, nel 1939, Agatha Christie scrive “Dieci piccoli indiani” (chi ritiene questo libro superato dovrebbe spiegare il perché delle sue numerose trasposizioni cinematografiche – l'ultima nel 2015, con Miranda Richardson e Sam Neill tra gli altri – ma soprattutto dovrebbe fare i conti col fatto che è il libro giallo più venduto d'ogni tempo).
Non dirò che è un libro perfetto: non lo è. Sostengo, però, che è un libro assolutamente geniale, non solo per la soluzione che offre, ma in quanto lo è dal primo all'ultimo capitolo.
La sua genialità sta principalmente in una ragione che trascende l'essenza di un giallo (e da ciò si potrebbe argomentare che è un capolavoro a prescindere dal genere a cui appartiene): è un'opera di enorme sottigliezza nell'analisi psicologica, che prende a pretesto una situazione-limite per scandagliare la parte più profonda e buia dell'animo umano, il suo atteggiamento ambivalente di fronte alla contrapposizione tra bene e male; lo fa nel corso di una vicenda in continua evoluzione, man mano che i “dieci poveri negretti” soccombono alla determinazione dell'inafferrabile Mr.Owen (rigorosamente uno per volta, rigorosamente nel modo indicato dalla filastrocca, puerile ma spietata).
Diffidenza nel prossimo e conflittualità, colpa e senso di giustizia, paura e rimorso: per far risaltare questi risvolti della natura umana – affinché il lettore quasi li tocchi – la scrittura della Christie risulta ancor più asciutta ed affilata del solito. E raggiunge uno dei suoi momenti più alti (“tecnicamente” il più alto in assoluto, sosteneva la regina del giallo), come più o meno accaduto in “Assassinio sull'Orient Express”, “L'assassinio di Roger Ackroyd”, “Sipario”... veri e propri capolavori d'ingegno, destinati a stupire il lettore.
Già... il lettore: procede di capitolo in capitolo e viene sorpreso da ogni nuovo snodo della storia, salvo pensare subito “ma certo! Era la cosa più logica”. Appunto: era la cosa più logica... però non ci aveva pensato. Una lettura fulminante, che è un'impresa abbandonare.
Un giallo che aspira alla perfezione sembra a suo modo un teorema di geometria. Agatha Christie, con questo libro, lo dimostra.
“Noi contiamo su quel battello perché ci porti via dall'isola... E questo è il punto: noi non dobbiamo lasciare l'isola... Nessuno partirà mai...”
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Commenti
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Non so perché lo lasciasti: le prime pagine fanno già pensare ad una tavola che si sta apparecchiando e che lascia presagire un'appetitosa mangiata. Certo, ti dirò, bisogna essere un minimo appassionati del genere giallo e delle sue dinamiche, altrimenti potrebbe pure risultare un libro inattraente... Personalmente, non conto più le volte che l'ho letto e riletto :)
Provo a darti un suggerimento, Laura: non ho mai letto un giallo per indovinare l'assassino, è una cosa che non mi interessa. Non gareggio con l'intelligenza dello scrittore di gialli, ma cerco di assecondarla. Non so se sono stato chiaro...
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