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La campana di vetro
 
La campana di vetro 2016-12-09 09:59:03 Mian88
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    09 Dicembre, 2016
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Sylvia/Esther. Io sono.

«Come guardare Parigi dalla coda di un treno che corre nella direzione opposta: di secondo in secondo la città diventa sempre più piccola, ma a te sembra che sei tu a diventare sempre più piccola e sempre più sola e a essere trascinata via a circa un milione di miglia all’ora, lontano da tutte le luci e il divertimento»

New York, sinonimo di speranza e possibilità, è il luogo in cui le vicende che vedono quale protagonista la diciannovenne Esther Greenwood hanno inizio. E’ infatti qui che la brillante studentessa, vincitrice di un soggiorno di un mese offerto da una rivista di moda inizia a sentirsi come «un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, come un campione di calcio dell’università che si trova tutt’a un tratto di fronte a Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d’oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero», è qui che percepisce cioè sempre più la presenza di quella “campana di vetro” talché, lei che si era sempre sentita una ragazza ribelle alle regole della società borghese, finisce con l’esserne schiava. A livello psicologico quel che maggiormente influisce da agente scatenante è il non essere – con quello che è il primo insuccesso che effettivamente la colpisce – accettata da una scuola di scrittura per artificio della sua penna. Ma d’altronde, riflette Esther, come «facevo a scrivere della vita, se non avevo mai avuto una storia d’amore, né un figlio, né avevo mai visto morire qualcuno?». Che allora non sia così intelligente come si è sempre creduta? Che non sia così brava come è immancabilmente riuscita a far credere agli altri? Che persino il suo bluff al corso di chimica sia stato un mero episodio isolato e che dunque il suo esserne esonerata sia stato solo un caso di fortuita fortuna? Da qui la ricerca della morte, la volontà di farla finita, di staccarsi da quel mondo di dogmi scritti e non che la piegano con le loro pretese e dal quel perenne senso di inadeguatezza che la stringe.
Come noto, “La campana di vetro” è un romanzo che presenta molteplici assonanze tra l’autrice e la protagonista dalla di sua penna nata. Tanto Sylvia, quanto Esther, sono figlie di emigrati di ascendenza tedesca e austriaca, entrambe hanno perso il padre intorno ai 10 anni, entrambe, dopo una carriera scolastica ineccepibile, hanno vinto un premio consistente in una specie di praticantato giornalistico in una rivista femminile (nella realtà “Mademoiselle”) dove si occupavano di una rubrica mondana, ed ancora entrambe, tornate a Boston, hanno tentato il suicidio e sono state sottoposte a cure psichiatriche per poi completare gli studi. Sylvia, ultimati questi sposò il poeta Ted Hughes da cui si separò nel 1962 e a distanza di poco meno di un anno, nel 1963, pose fine alla sua vita suicidandosi. E’ dunque evidente quante le due esistenze siano in parallelo.
Di fatto, l’opera della Plath, cela molto più di quel che con una prima e rapida lettura potrebbe sembrare. Simbolicamente la stessa può essere suddivisa in tre blocchi: un primo all’interno del quale viene evidenziato il processo di “educazione” della Greenwood, un processo in cui la giovane dovrebbe essere iniziata alla vita sociale, alla gratificazione e all’affermazione in questa ma che di fatto rifiuta attraverso il “bagno di purificazione” consistente nel liberarsi di quegli abiti costosi che la vestivano, di quelle maschere cioè che la obbligavano al compromesso; una seconda in cui la matrice provinciale della propria casa materna in quel di Boston, unita ai Willard e alla quotidianità che dovrebbero rappresentare la normalità, danno avvio alla fase di “anormalità” dove la vita, morte, la nascita, il concepimento diventano i fulcri fondamentali della ricerca; ed una terza in cui comincia la riabilitazione e dove comunque continua quella ricerca di identità ed esplorazione di sé stessa e degli altri fuori da quella campana invisibile ma perenne che la soffoca, che la uccide lentamente. E’ il ruolo dell’artista quello che emerge, un artista cioè che racconta, testimonia un’iniziazione tentata questa volta in proprio dopo il rifiuto dell’accettazione e del compromesso.
Esther colpisce inoltre per la totale mancanza di affettività. Ella è irraggiungibile per gli altri ma anche per se stessa tanto quanto gli altri sono irraggiungibili per lei. E’ totalmente priva di empatia. Qualsiasi rapporto che stringe è caratterizzato sempre e comunque da una distanza mentale e fisica che fa si che mai possa instaurarsi qualsiasi forma di legame emozionale. Tra tutti, l’unico personaggio che viene descritto con un minimo di tenerezza è la Dottoressa Nolan, perfetta contrapposizione del materialista e qualunquista Dottor Gordon che attraverso l’uso dell’elettroshock e con soli 25 dollari a seduta, avrebbe risolto ogni suo problema psichiatrico. L’idea di potersi legare a qualcuno la inquieta, la terrorizza, le ricorda la perdita del padre la cui tomba visita per la prima volta in età adulta, e la induce a vivere come un peso anche quella verginità che da sempre le è stata imposta quale requisito di purezza e che di fatto ha poi scoperto non essere rispettata proprio da colui, Buddy, che in qualità di fidanzato doveva farsene portavoce.
Infine, Joan. La sua antitesi, colei che dà fondo ad un doppio finale che fa soffermare il lettore su quel paradosso, chiamiamolo così, che ne scaturisce (la morte dell’una, la guarigione dell’altra).
Quello della Plath è quindi un romanzo forte, dai grandi contenuti e dai grandi caratteri. La sua ricerca della morte estrinseca mediante la voce di Esterh, fa si che il testo assuma i toni di una vera e propria ricerca interiore non solo della protagonista/Sylvia ma anche del lettore che immancabilmente finisce con l’interrogarsi su quel che è il senso della vita e su quelli che sono i dogmi – contraddittori – imposti, in qualsiasi era, dalla società.

«Mi ero immaginata un uomo gentile, brutto e intuitivo, che mi avrebbe ascoltata con un “Ah” di incoraggiamento, come se vedesse qualcosa che a me sfuggiva, e allora io avrei trovato le parole per dirgli della paura che mi aveva preso, della sensazione di essere ricacciata sempre più in fondo a un sacco nero senz’aria e senza fine»

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