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Fatti non foste a viver come bruti
Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" esordisce Ulisse nell'Inferno dantesco per esortare i suoi compagni a continuare l'audace traversata dello stretto di Gibilterra. Il capitano Achab non è poi così diverso mentre tenta di convincere il proprio equipaggio ad intraprendere la folle caccia contro Moby Dick, con il suo disarmante carisma e l'innegabile autorevolezza conferita anche da quella gamba d'avorio candida e possente, come la Balena che lo ha costretto a sostiruirla al fragile arto in carne ed ossa. Tuttavia, l’impresa di Achab non è solo una sfida contro i limiti umani, contro quella meravigliosa e mastodontica creatura marina che Ismaele descrive con incredibile precisione e ammirazione, ma soprattutto una lotta all’ultimo sangue con le proprie inquietudini, con quella lacerante tetraggine indissolubilmente legata alla sua anima. Il dissidio che tormenta Achab, la contrastante commistione di violento odio e profondo legame che prova per il maestoso cetaceo, sono i sentimenti che dilaniano l’uomo moderno nella sua ricerca della propria identità e dell’ignoto che essa sembra celare. Decidere di imbarcarsi in un lungo viaggio che costringe a fare sacrifici, a trascorrere interminabili periodi di solitudine e di sconforto in un ambiente ostile e paurosamente immenso come il mare, è un gesto che un vigliacco non compierebbe mai. Achab è infatti incredibilmente coraggioso, un capitano di grande audacia e integrità come prova la completa fiducia e ubbidienza che l’equipaggio dimostra nei suoi confronti. Per quanto assurdamente spietata e priva di significato sia la sua campagna, pur essendo quanto di più lontano possa esistere dal bene comune, egli è in grado di influenzare l’animo umano a tal punto da renderlo disposto a sfidare la natura, i venti e ogni genere di funesto presagio per annientare una balena al solo scopo di vendicare se stesso e di riscoprire il proprio valore. Nemmeno Starbuck, nonostante le meditazioni su un eventuale atto decisivo e i tentativi per convincere Achab ad arrendersi, riesce a mutare la terribile sorte a cui il Pequod è destinato.
Il romanzo è ricco di significato in ogni sua parola, dalla descrizione dell’anatomia della balena, ai riferimenti biblici, alle brevi e crude conversazioni tra i marinai: ciascuna affermazione, pausa, domanda cela un messaggio più profondo che solo un abile lettore con una sconfinata cultura riesce a cogliere in tutte le sue sfaccettature. Ecco perché ritengo che l’opera di Melville meriti almeno una seconda lettura, per avere la possibilità di apprezzare pienamente i concetti espressi dalla sua poetica narrazione e dalle autentiche vicende dei personaggi. Quando, voltando l’ultima pagina, ho chiuso il libro con l’immagine di Ismaele sopravvissuto grazie ad una tomba-salvagente, mi sono chiesta quale fosse la morale dell’opera, se in quella molteplicità di contenuti, ce ne fosse uno che spicca sugli altri con maggiore autorevolezza. Forse Achab è stato condannato per aver osato sfidare la volontà divina, per aver continuato una caccia folle e senza speranza nonostante i presagi che si erano manifestati fin da prima della partenza? Magari l’equipaggio e lo stesso Ismaele, che è molto di più di un semplice spettatore, avrebbero dovuto far valere le proprie idee e impedire che si realizzasse un epilogo già scritto? D’altra parte non è forse questa la bellezza dell’essere umano? La sua capacità di non arrendersi mai nonostante le difficoltà, di impegnarsi con ogni fibra del proprio corpo pur di raggiungere un obiettivo che agli altri può sembrare ridicolo ma che è importante per ciò che l’individuo riuscirà a dimostrare a se stesso portandolo a termine?
L’immensa distesa azzurra del mare che si confonde con quella del cielo sortisce effetti misteriosi nell’indole dell’uomo, lo porta a farsi domande difficili e a tentare di dare risposte assurde, ma è quanto di più vicino possa esistere nel mondo concreto dell’astratta dimensione divina. Ecco perché amiamo tanto imbarcarci in avventure incredibili, perché sentiamo l’esigenza di esplorare l’acqua quando la terra ci sembra ormai troppo dura e stretta, magari più ospitale ma meno affascinante. La balena, il leviatano, nella sua meravigliosa anatomia, nell’intelligenza dei suoi atteggiamenti, a metà tra il mondo terreno e quello degli abissi, è quindi la creatura che l’uomo invidia più di tutte, a cui si sente più vicino, e quando vede in lontananza quel sonoro respiro, accorre per raggiungerlo, continuando a stringere tra le mani la sua lampada ad olio che ne illumina cammino.
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