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Disincanto
Mille e una notte. Come dire infinito.
E se dopo ci fosse mille e due? Sarebbe invece il tempo della fine: tetra, cupa, decadente.
Questa è la storia della milleduesima notte. Dura un po’ di più: è lenta, dilatata, triste.
Lo scià di Persia in un ottocento ancora lontano dal tramonto dei grandi imperi, preso da acuta malinconia, su dotto consiglio, prende il mare azzurro per l’Occidente, sarà ospite della corte imperiale viennese. Avrà da temere l’Imperial Regia Maestà Apostolica? Sono passati oramai duecento anni scarsi dalla minaccia musulmana, il pericolo è da ravvisarsi ora piuttosto nel vicino prussiano.
Lo scià in realtà è interessato a esperire l’amore unico, satollo ormai del suo nutrito harem. Godrà per una notte di una povera ragazza, Mizzi, immolata al piacere del sultano dal barone Taittinger- ufficiale di cavalleria- per puro capriccio personale. L’amore senza harem entusiasma lo scià che prima di partire dona lauta ricompensa alla predestinata: una pesante collana di perle a tre fili.
Chiusa la pagina fiabesca, creato l’antefatto, l’intera narrazione procede a imbuto distillando un succo al sapor di fiele. Le vite di Taittinger e di Mizzi, ormai indissolubilmente legate, procedono per binari paralleli andando in ultimo a confluire in una decadenza di costumi tesa a rappresentare tutto il disincanto di un esule a Parigi.
Il romanzo, pubblicato postumo nel 1939, ci consegna una cupa visione della vita celebrata con schemi narrativi da favola ma solo inizialmente per sprofondare poi nel ridicolo della parodia, tristemente a siglare un mondo tramontato, una vita vissuta, un sapore di fallimento.
Amaro ma fondamentale.
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