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Una Virginia tutta da scoprire
Pubblicata da Elliot nella collana Lampi, “Mio carissimo rospo” è una raccolta di missive scritte dal 1888 al 1900 da Virginia Stephen di poi Woolf, un insieme cioè di lettere redatte in un periodo che va dall’infanzia (la prima è infatti stesa all’età di appena 6 anni) sino all’adolescenza della protagonista (le ultime vedono una donna diciottenne, adulta e profondamente mutata). Figlia di un eminente storico vittoriano, per l’inglese essenziale era registrare la realtà, e quale modo migliore per celebrare gli avvenimenti, per ricordarli se non la scrittura? A questa indole già di per sé tendente alla letteratura si aggiunge il clima familiare caratterizzato dal crescere con una parentela numerosa e a sua volta creativa, nucleo che seppur ricco di perdite premature e presenze ingombranti, contribuirà a cristallizzare l’originalità del pensiero della Woolf.
Peculiarità di queste corrispondenze epistolari è sicuramente la grande vitalità di cui le stesse sono intrise e che chiaramente rimandano a quello che è di fatto l’atteggiamento ribelle e canzonatorio che gli amanti dell’ideatrice hanno potuto (e possono) riscontrare nell’Orlando. Altro carattere significativo è quello di assegnare ad ogni destinatario un soprannome, generalmente corrispondente ad un animale. La stessa Virginia è solita firmarsi con l’appellativo Capra e chiamare la cara Emma rospo, la sorella Vanessa (Nessa) cane da pastore, e il fratello Thoby, scomparso prima del tempo e reso immortale dalla figura di Jacob, procione.
Il romanzo epistolare ha un significato essenziale non solo per la ragazza ma anche per l’epoca di riferimento. Per la Stephen è infatti il mezzo con il quale prende forma l’ingegno e la passione per la redazione, per il romanzo borghese di fine ottocento rappresenta al contrario il primo strumento con cui esprimere liberamente il proprio pensiero, con cui manifestare la propria intimità pur mantenendo il rispetto per la solitudine e per la rigida forma imposta dai costumi del tempo.
Non solo, leggere le parole della narratrice permette di entrare nel concreto nel suo universo, è come essere lei, è come appartenere alla sua sfera emotiva. E’ una Virginia diversa da quella che siamo soliti immaginare, quella che si apre al lettore nello scorrere di queste pagine, è una donna che amava giocare a cricket, che andava a caccia di insetti, che ascoltava le poesie declamate dal padre, che guadava i fiumi sollevandosi le sottane, che prendeva in giro i giovanotti pomposi, e che si sganciava le calze e le vesti per fronteggiare il calore della stagione.
«Non hai mai visto il cielo finché non hai vissuto qui. Abbiamo cessato di essere abitanti della terra. Siamo davvero fatte di nuvole. Siamo mistiche e sognanti, e suoniamo fughe all’harmonium» p. 75
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