Dettagli Recensione
Il mistero della sofferenza dell'innocente
Il romanzo è bellissimo, esce dal cuore e dalla mente dell’autore, è una grande metafora che spiega il modo di vedere la vita di Camus, pessimistico, ma non esageratamente.
Certo, l’inizio del libro è difficile da leggere, non me lo ricordavo così duro, con quelle descrizioni di ratti e di bubboni che certo non rientrano nella categoria del piacevole. Ma più o meno da metà libro ci si distacca dalla situazione ormai nota per presentare la peste come metafora e per guardare l’uomo di fronte alla peste. Gli uomini di fronte al male. Il male è nella vita ma Camus vuole essere medico e guarire se possibile il male altrui, oltre a rifiutarlo in sè per non trasmetterlo ad altri in uno sforzo estremo della volontà. L'uomo è chiamato ad essere eroe, data l'emergenza del morbo (male) che infetta ogni vita.
"Il microbo è cosa naturale, Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deva mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile."
Ci sono tanti modi diversi di vedere la peste e di affrontare la vita e l’assurdo, il dramma. Rambert, l’innamorato separato dall’amata è l’uomo felice, che crede nella felicità, l’illuso o forse il fortunato. Rambert in un primo momento dice di volersene andare, la peste non lo riguarda e vuole tornare dalla sua donna. Ma poi ci ripensa e affronta la peste con gli altri, con dignità. Alla fine dell’epidemia c’è la sua donna ad aspettarlo e può ancora illudersi di poter essere felice, che il peggio sia passato. Bellissimo il rapporto d’amicizia tra Rieux, medico, alter ego di Camus, e Tarrou. Entrambi lottano contro la peste, entrambi pensano che la vita sia affetta dalla peste, entrambi sono convinti che la peste vada affrontata da medici ma Tarrou pensa che si debba essere persino santi di fronte al male, anche se la sua idea è di una santità laica. Ho pensato, leggendo di questa amicizia alla bellissima amicizia tra Camus e Simone Weil, il cui pensiero Camus ha fatto di tutto perché venisse pubblicato. Certo, Simone doveva essere una pensatrice carismatica, una specie di santa laica, chiamata dagli amici la marziana e l’imperativo categorico in gonnella per il suo caratterino.
I personaggi di Camus sono belli, sono degli Acab in lotta contro il male. E, comunque, ha una bellissima idea dell’amicizia.
La vita offre la conoscenza e il ricordo del dolore e dell’affetto, dell’amicizia. Per il resto non dà speranze se non agli illusi. Tarrou, ad esempio, non ha speranza se non quella di consacrare la propria vita al servizio degli uomini, cioè non avendo nessuna speranza è spinto, per così dire alla santità. Altri uomini possono magari illudersi, immaginare che la peste possa arrivare e andarsene lasciando immutato il cuore . Ma non per tutti è così. Nemmeno Rieux si illude.
Camus dice del suo alter ego Rieux: lui sapeva quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valige, nei fazzoletti, e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento degli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice.
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Forse ho letto il libro quando ero troppo giovane ed immaturo, però il ricordo che ne ho è di un testo piuttosto pesante e di un pessimismo che allontana.
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