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FILANTROPIA
Tra Broadway e Wall Street passano luci ed ombre, felicità e inganno, apparenza e realtà.
“Ah la felicità corteggia la luce, perciò noi crediamo allegro il mondo, ma la miseria si nasconde da lungi, perciò crediamo non esista miseria.”
E se essa bussasse alla nostra porta e si installasse nel nostro ufficio e prendesse le sembianze di un eccentrico e riservato copista che alle richieste di chi lo accoglie, prima come semplice impiegato poi come possibilità di esercizio filantropico, oppone una lapidaria resistenza espressa con un laconico “Avrei preferenza di no”? Ebbene in quel caso cosa fareste?
Il vero protagonista del racconto di Melville, datato 1853, anziano avvocato, narra la sua reazione e con essa snocciola le infinite possibilità della filantropia.
Come è noto, con il termine ci si riferisce all’atteggiamento di amore, di passione e di inclinazione verso l’uomo. La parola nata nell’antica Grecia originariamente indicava “cortesia”, “affabilità”, in età ellenistica indicò invece l’atteggiamento benevolo da parte dei sovrani nei confronti dei sudditi. Divenne, in epoca romana, con il Circolo degli Scipioni, il corrispondente della cultura filosofica e letteraria e solo con Cicerone assunse il significato di “grande sensibilità, generosità, raffinatezza”.
Proprio un busto di Cicerone campeggia nell’ufficio del nostro avvocato, fa capolino tra un dialogo e l’altro come a rammentare l’accezione semantica del termine in questione e l’atteggiamento messo in atto dall’avvocato di Wall Street. Egli infatti ci racconta le diverse sfumature del suo animo mentre cerca di affrontare una situazione inusuale che diventa -in un crescendo inatteso- stravagante, eccentrica, scomoda, imbarazzante e financo inquietante.
Il copista esordisce con il suo modico rifiuto per attività poco complesse ma che esulano dalla sua mansione, prosegue con la cessazione dell’ attività per la quale è stato assunto, culmina nell’ostinata resistenza che trasforma l’ufficio nella sua residenza. Il “capo” ha nei suoi riguardi, man mano che si manifestano le diverse resistenze, un interesse discontinuo reso tale dall’incalzare dei suoi impegni. La situazione giunge pertanto ad un grado di saturazione che necessita un’azione ferma e risolutiva.
E qui entra in gioco la filantropia.
Leggeremo da quel momento come si esercita nell’animo umano la difficile arte della compassione: secondo Melville lo schema è rigido e ormai consolidato nel tempo: tutti noi di fronte ad una situazione di miseria reagiamo istintivamente con moti e impressioni positivi dell’animo i quali destano in noi compassione appunto, ma quando ci accorgiamo che essa è inutile e non risolutiva optiamo per il suo abbandono, per il suo superamento portando avanti soluzioni di vero e proprio sbarazzamento. Prevale sempre il “buon senso” e con esso la finta filantropia: ciò può insuperbire l’essere umano mentre cerca di placare l’inquietudine nata dal sapere che in fondo non stiamo facendo del bene.
Questa è la mia personale lettura di un breve racconto che è stato variamente interpretato. Letto nell’ottima edizione Feltrinelli, offre il piacere di poter godere dell’esito del lavoro accademico del professor Celati con i suoi studenti nell’anno accademico 1984-’85 ( traduzione del testo) proseguito nell’a.a. 1986-’87 (studio introduttivo). Permette inoltre di leggere l’epistolario di Melville datato 1850-1852 “Da Moby Dick o Bartleby” e di appurare in ultimo la quantità di interpretazioni date al racconto in una sintesi bibliografica degli studi critici intrapresi tra il 1928 e il 1990. Tra l’altro la vena ironica che commenta le singole voci bibliografiche è imperdibile e getta luce sull’inutilità di certa critica, compresa la mia, se posso chiamarla così.
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