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Un Dostoevskij minore
Considerato da molti una perla letteraria poco conosciuta, il racconto “La mite” sembra solo qualcosa a metà tra uno sfogo e un esercizio stilistico e non aggiunge niente, a mio avviso, che non sia già stato scritto in alcuni capolavori dello scrittore russo.
L'incomunicabilità tra gli esseri umani in generale e tra donne e uomini in particolare non è del resto un tema originalissimo e se trattato con enfasi eccessiva, come avviene in questo caso, non arriva a toccare le corde sensibili di tutti i lettori.
C'è un uomo che straparla davanti al cadavere della moglie suicida, e attraverso i suoi vaneggiamenti, a volte palesemente contraddittori, ricostruiamo la sua infelice vicenda coniugale, nonché parte della sua vita di proprietario di un banco di pegni dal passato poco edificante. Assistiamo solo attraverso gli occhi dell'io narrante all'involuzione psicologica della moglie, ragazza intelligente e sventurata che si era illusa di trovare attraverso il matrimonio amore e sicurezza economica.
La freddezza del marito, calcolata a tavolino per una serie di considerazioni di cui non si riesce bene a venire a capo, finirà per spegnere il suo giovanile entusiasmo, mentre disprezzo e forse odio prendono nel suo animo offeso il posto dei teneri sentimenti, e a nulla servirà il pentimento dell'uomo:
“...mi guardò 'con severo stupore', proprio 'severo'. Da quel momento capii che lei mi disprezzava. Lo capii irrevocabilmente, per tutta l'eternità”.
Trama potenzialmente interessante, ma troppo farcita da crisi di nervi, febbri cerebrali e scene madri (“Caddi ancora davanti a lei, incominciai in ginocchio a baciare i suoi piedi”), a fronte di un soliloquio che appiattisce la narrazione e non permette un esaustivo approfondimento di fatti e personaggi.
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