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Perfidia
La perfidia che distilla da queste pagine batte di gran lunga quella che si può trovare narrata anche nel più oscuro dei romanzi noir: la cattiveria e il desiderio di sopraffazione che ne scaturiscono fanno dell’opera di Laclos uno dei libri più gelidi e feroci che mi sia capitato di leggere, tutto intessuto di una violenza psicologica che si dimostra brutale quanto quella fisica. La figura della marchesa di Merteuil è il motore dei tutta la vicenda: mentre Valmont è soprattutto un egoistico Narciso, la sua socia in affari è una meticolosa dark lady ante litteram, capace di tramare su più livelli al fine di rovinare la vita di tutti quanti (Valmont incluso). Non può mancare, come per ogni cattivo che si rispetti, la confessione del proprio passato e perciò quasi spiace per quel finale in cui l’autore si sforza di punire la perfidia di cui sopra in capitoli (pardon, lettere) che affrettano l’azione togliendo qualcosa alla grandiosità del malevolo impianto che ha costruito in precedenza. Impianto che ha lo scopo ben chiaro di mettere alla berlina i modi e le usanze del bel mondo francese sotto l’Ancien Régime: una vasta comunità di sfaccendati impegnata in un eterno gioco di società dove l’apparire è l’unica cosa che conta. Ovviamente, la sincerità è in pratica bandita laddove ciascuno indossi una maschera (o più maschere a seconda delle occasioni) e sappia alla perfezione che chi gli si para davanti finge in maniera analoga: ecco allora che i legami personali diventano ‘relazioni’, termine che, nel francese settecentesco, si riferiva solo ai rapporti commerciali. Per raccontare di questo ambiente che portava già in sé i germi della propria rovina, Laclos sceglie la via del romanzo epistolare, genere in voga all’epoca, grazie al quale può dare vita a una narrazione a più voci che risulta particolarmente affascinante: ogni personaggio ha un proprio stile (misurato Merteuil, vanesio Valmont, accorato Tourvel, bamboleggiante Cécile e così via) e l’alternarsi aggiunge gusto al racconto assieme al continuo variare dei punti di vista. La storia è abbastanza conosciuta: il libertino Valmont va all’assalto della castissima Madame de Tourvel mentre la sua amica ed ex-amante marchesa di Merteuil vorrebbe che conquistasse la giovanissima Cécile, promessa sposa di un uomo di cui si vuol vendicare. Il visconte, tra stratagemmi arzigogolati e semplici furberie, va a segno in entrambi i casi, ma la marchesa, che fin lì l’aveva aiutato, s’impegna a fondo per far saltare la relazione con Tourvel, sospettando che Valmont si sia addirittura innamorato (e forse non ha tutti i torti): è la mossa che scatena la resa dei conti con conseguenze negative per chiunque. La tragedia incombe perché per lungo tempo ognuno continua a interpretare il proprio ruolo anche nel momento in cui esso è solo un involucro, visto che Tourvel si dimostra casta pur nascondendo un turbinio di passioni, Cécile fa l’ingenua quando ingenua non è più, Danceny è sempre lo spasimante indeciso ma fedele eppure si distrae, Valmont combatte il sentimento che sente nascere e lo squalificherebbe nel suo ruolo di seduttore seriale, la marchesa ha un controllo sulla vita propria e degli altri meno ferreo di quanto le piace mostrare: l’inevitabile conseguenza è che, giunti al punto nel quale la situazione si fa insostenibile, il crollo assomiglia a quello di un castello di carte. Il risultato è un gioco delle parti di sapore pirandelliano che viene raccontato con un crescendo implacabile pur utilizzando l’ampolloso linguaggio di cortesia dell’epoca (tra l’altro, anch’esso dominato dalla forma e dalle convenzioni).
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