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Un vortice di paura, noia e disperazione
Una città senza piccioni, senza alberi né giardini, senza battiti d’ali o fruscii di foglie, dove la primavera si riconosce soltanto da ciò che si vende nei mercati, d’estate il sole arde implacabile sulle case, l’autunno è un’invasione di fango e le belle giornate arrivano soltanto in inverno. Siamo ad Orano, prefettura francese sulla costa algerina, nella seconda metà degli anni Quaranta. Una quantità incalcolabile di topi continua a morire in ogni angolo della città appestandone l’aria e non promettendo niente di buono. Di lì a poco, infatti, cominciano a morire anche le persone, assalite da febbri altissime, da gonfiori alle membra e ai gangli del collo, da violenti attacchi di vomito. I sintomi riconducono inequivocabilmente ad una malattia debellata ormai da tempo, di cui non si dovrebbe più sentir parlare. Sembra impossibile ma purtroppo è la triste verità: si tratta di un’epidemia di peste. Orano è costretta all’isolamento, il vortice di paura, di noia, di disperazione in cui si ritrovano i suoi abitanti tende ad evidenziarne pregi e difetti, rimarcandone i vizi o esaltandone le virtù a seconda dei soggetti e della loro reazione alla sciagura. Bernard Rieux, medico e principale protagonista del racconto, cerca di organizzare una strenua opposizione al terribile male, aiutato da una squadra di volontari e affiancato da un gruppo di fedeli amici. Una battaglia che ricorda molto l’eterna lotta che l’uomo combatte da sempre contro un mondo ostile e spietato. La peste di Camus si rivela infatti come un’amara metafora dei mali che affliggono l’umanità dall’alba dei tempi e che l’uomo non è ancora riuscito a debellare, né si mostra capace di poterlo fare. Un argomento importante trattato però in maniera fredda e meccanica dall’autore. Un racconto piatto, una prosa poco coinvolgente, personaggi incapaci di creare empatia con il lettore, lunghi passaggi in cui si ripetono sempre gli stessi concetti sono i principali difetti di un’opera che parte da uno spunto interessante per poi perdersi pagina dopo pagina e ritrovarsi soltanto in finale che lascia aperta la porta della speranza ma che al contempo ricorda “che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.”
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Forse l' ho letto in età troppo giovane, ma al momento non avverto alcuna necessità di una rilettura.
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