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Troppa anima
“Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l'intera speranza del mondo? Come venirne fuori? Fare un contratto con la propria solitudine, no? Mettersi d'accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un'esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola. Non è per te. Non è vero?”
Caligola, gettato nel dolore dalla morte della sua sorella e amante Drusilla, ha conosciuto la disperazione, una passione dell’animo in cui si giunge a ripugnare ogni vita intorno nella sua effimera essenza, in cui si smarrisce il profondo senso della realtà e della libertà. “Libero è solo chi è condannato a morte” dice l’imperatore romano, che instaura un regime in bilico tra la follia e il terrore ma ben lungi dall’incoerenza: il filo rosso che fornisce a Caligola il criterio tramite cui agire, tra crudeltà, dissolutezze e immoralità varie ed eventuali, è la libertà di seguire la propria anima. Torna nell’opera di Camus, in maniera a tratti lampante, quel contrasto tra l’uomo e il mondo, con le sue regole etico-sociali, che Nietzsche aveva risolto col principio della trasvalutazione dei valori; e chi meglio di Caligola rappresenta il superuomo? In posizione di potere, egli è in condizione di agire secondo la volontà suggeritagli dai suoi sensi e messa in atto con la scelta razionale della libertà.
Se dunque il Caligola può offrire certamente spunti di riflessione sul rapporto tra potere e sottoposti, costretti ad obbedire ad ogni lucida follia dell’imperatore, d’altro canto non può essere limitato a ciò, in quanto offre una riflessione di più ampio respiro sull’assurdo della vita dell’uomo. Nel costante dualismo tra ragione e sentimento, tra vita e poesia, tra schiavitù e libertà, Caligola compie la scelta più difficile e meno comune, ossia il dispiegamento spregiudicato e illimitato del proprio essere. Egli riconosce tragicamente che questo mondo in sé non basta alla felicità inappagabile che ogni animo persegue: “Questo mondo così com'è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell'immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di questo mondo.”. La fuga dell’uomo dai limiti della realtà si manifesta in una demenza superomistica in cui la volontà di potenza si allarga oltre i confini della propria interiorità e della vita. Si tratta tuttavia di una posizione che, per quanto comprensibile agli animi più profondi, risulta sempre scomoda in quanto rende necessariamente schiavo chi non è in grado di giungere a una disperazione talmente illuminante da liberarlo dagli imposti limiti dell’etica sociale.
Chi è allora il vero pazzo? Caligola il diverso, il crudele? Oppure la massa di servitori che assecondano la follia in virtù del solo rapporto di forze? Lo stesso Caligola, provocatore, sembra spingersi sempre più oltre per verificare fino a che punto costoro siano schiavi del proprio materialismo razionale. La regola della vita umana sembra esser diventata l’eccezione della natura umana stessa. “Come tutti gli esseri senz’anima, non potete sopportare chi ne ha troppa. La gente sana detesta i malati. Chi è felice non può vedere chi soffre. Troppa anima! Che seccatura, no? Allora si preferisce chiamarla malattia: e tutti sono in regola, contenti.”
“Gli uomini muoiono e non sono felici” ripete a più riprese Caligola; in punto di morte (una morte che sul palco significativamente non avviene), quando finalmente la congiura a lungo vaneggiata ha luogo, fiero e disperato esplode il suo grido che apre uno squarcio nell’anima e nella realtà: “Sono ancora vivo!”.
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Commenti
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E' un'opera che non ho mai affrontato e non credo sia una lettura proprio accessibile, eppure la tua recensione ha acceso una grande curiosità. Bravissimo!
Camus è autore complesso, ma tu hai colto ottimi spunti di riflessione
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Ferruccio