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Quando Dickens diventa Dickensiano
A mio avviso "Il nostro comune amico" appartiene alle opere minori di Dickens. E’ un Dickens stanco, un po’ ripetitivo, che cerca, senza riuscirvi troppo, di riaccendere le atmosfere che hanno caratterizzato i suoi romanzi precedenti, e che ne fanno uno dei grandi scrittori dell’800.
In apparenza gli ingredienti ci sono tutti: i grandi sentimenti e le grandi meschinità, la Londra sottoproletaria della prima rivoluzione industriale, gli arrivisti e gli sciocchi, l’intrecciarsi di storie e di vicende diverse.
Quello che manca è la capacità di vivificare questi elementi, di farli piano piano apparire accanto a noi con tratti che ad ogni pagina si fanno più distinti e percepibili, come accade per Mr. Pickwick, Mr. Weller e le loro avventure, per Pip di "Grandi speranze", per Esther di "Casa desolata". Sembra che Dickens sia divenuto suo malgrado "Dickensiano", e si senta in obbligo di rispondere ai cliché che lui stesso ha creato, ma in cui ormai non crede più.
Certo nel libro non mancano momenti e personaggi memorabili, come Reginald Wilfer e moglie, genitori di Bella Wilfer, una delle protagoniste, o come l’inquietante antiquario/impagliatore Mr. Venus, la descrizione del cui laboratorio vale la lettura del libro, oppure ancora il ricco Mr. Podsnap. Altro personaggio sicuramente forte nella sua problematica negatività è il maestro Bradley Headstone, cui tocca in sorte una fine tragica. Si tratta però di personaggi secondari, mentre è nei protagonisti, nei personaggi chiave che manca l’afflato che caratterizza le opere migliori del nostro.
Bella Wilfer, eroina del romanzo, per metà del libro è descritta come una ragazza immatura, vanesia e pronta a sacrificare ogni virtù di fronte alla prospettiva di una scalata sociale. In una sola pagina diviene saggia, lungimirante e pronta a sacrificare ogni prospettiva di scalata sociale all’apparire del vero amore: si tratta probabilmente della conversione a U più rapida della storia della letteratura!
Anche l’altra eroina, Lizzy Hexam, se pure è una vera “figlia del popolo” che appare nel libro remando sul Tamigi come aiutante del padre recuperatore di cadaveri, sbiadisce progressivamente sino a divenire di fatto una qualsiasi infermierina innamorata.
Non è dissimile la percezione che abbiamo del “nostro comune amico”, di quello che dovrebbe essere il vero protagonista del romanzo, vale a dire John Harmon, alias Mr. Rokesmith. Anche lui è un personaggio sbiadito, a mio avviso non ben caratterizzato, solo abbozzato: il ruolo che gioca nella storia avrebbe meritato un po’ più di attenzione da parte dell’autore.
Anche il contesto in cui si muovono questi (e i molti altri presenti) personaggi è solo una quinta di cartone. A differenza che in altri libri, Dickens non è in grado di farci entrare nella Londra sordida, nebbiosa e sporca in cui si svolgono le storie intrecciate dei nostri eroi: perché? Credo che questo dipenda dal fatto che le vicenda narrate non dipendono in modo pregnante dall’ambiente in cui si svolgono, ma sono vicende “personali”, in larga parte sganciate dal loro contesto, che rimane quindi sullo sfondo, ed al più serve a volte a fornire alcuni “effetti speciali”.
Il nostro comune amico è comunque un libro di quasi mille pagine, nella edizione da me letta, scritto da un grandissimo artista che a volte è in grado di ritrovare i suoi sprazzi migliori. Questi sono per me rappresentati dalle parti del libro dedicate ai Signori Veneering e ai loro amici, i Lammle, i Podsnap, Lady Tippins e gli altri. Qui Dickens ritrova la sua capacità di ridicolizzare la borghesia inglese della sua epoca e la sua vacuità, le sue convenzioni, il suo sfrenato arrivismo, la sua brama di potere e soldi. Sono i capitoli migliori del libro, dove si ritrovano pagine degne del Dickens migliore.
Concludo con un cenno sull’edizione Garzanti, edita nel 1988 (due volumi) da me letta. Credo che la traduzione di Filippo Donini contribuisca in parte a creare quel clima “artificioso” che caratterizza il romanzo, soprattutto per un particolare: la traduzione di quasi tutti i nomi propri dei personaggi in italiano, che è portata così all’eccesso da dare fastidio: Lizzy diventa Lisetta, il fratello Charley Carletto e così via, sino a raggiungere punte vicine all’assurdo. Nicodemus Boffin viene spesso chiamato dalla moglie “Noddy”, che Donini traduce con “Muccio”. L’apice, poi, viene raggiunto nella traduzione del nome dell’assistente dell’avvocato Lightwood, che nell’originale è Blight e diventa Malanno. A mio avviso sarebbe stato più serio affidare a delle note la spiegazione dei giochi di parole sui nomi.
Alla fine, ci si trova di fronte all’immancabile happy end, che in questo caso non appare consolatorio ma logica conseguenza di una certa stanchezza espressiva.
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Commenti
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Laura
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Bella recensione.
Federica