Dettagli Recensione
Più cinismo che eroismo
Fabrizio del Dongo, che passa fra i combattimenti di Waterloo senza capire se aveva partecipato ad una battaglia e la svolta storica che ne sarebbe seguita, è stato citato in un articolo di A. Cazzullo come modello della società attuale che vive un tornante della storia senza rendersene conto. Questa chiave di lettura del personaggio principale della "Certosa di Parma" mi ha convinto a riprendere in mano un libro che avevo iniziato molti anni or sono e che avevo abbandonato a metà percorso, deluso e annoiato.
La delusione era dovuta a un testo che, dopo un promettente inizio come romanzo storico, cambia rotta e si immerge nelle vicende di una corte parmense di pura fantasia, che fa da cornice alle vicende romantiche che costituiscono l'elemento portante del libro.
Avevo trovato, inoltre, noiosa una narrazione, troppo dettagliata, di vicende senz'anima. Il romanzo risente dell'epoca storica in cui si svolge: spenta la fiammata bonapartista, non ancora accesa quella risorgimentale, il periodo della restaurazione è un grigio momento della storia e gli intrighi nella corte di un principato da operetta mi erano apparsi ben poco emozionanti. Inoltre tali intrighi sono raccontati in modo così dettagliato che lo stesso Stendhal a un certo punto se ne scusa con il lettore.
Sensazioni che ho ritrovato in questa nuova lettura, pur nel tentativo di andare più a fondo nei personaggi e nel loro rapporto con lo scrittore. Zola, ammiratore di H. Beyle/Stendhal, lo paragonava ad un entomologo “la sua umanità non simpatizzava con quella dei suoi eroi, restava superiore alla loro miseria e alla loro follia, si contentava di fare il suo lavoro di dissezione, esponendo in tutta semplicità i risultati del suo lavoro”.
Accettando questa definizione si deve prendere atto che i quattro personaggi principali sono un campionario poco entusiasmante della miseria umana.
Fabrizio del Dongo è di fatto un antieroe, pilotato nelle sue scelte di vita dalla zia Gina, duchessa Sanseverina. Di fatto un personaggio bello e stolido, visto che le poche volte in cui agisce in autonomia rischia grosso e mette in difficoltà chi lo protegge: amante senza amore, ecclesiastico senza fede, lo stesso Stendhal ne fornisce un ritratto poco accattivante “voleva bene a Napoleone (però della sua morte non c’è traccia emotiva nel romanzo), ma nella sua qualità di nobile pensava di essere fatto per la felicità e trovava ridicoli i borghesi. Dopo il collegio non aveva più aperto un libro e quelli che aveva letto erano tutti riveduti e corretti dai gesuiti”. Lo stesso duello che lo incastra per l’uccisione di un teatrante non è esaltante né per l’oggetto della contesa, né per lo svolgimento, né per il suo comportamento dopo l’omicidio. Solo l’incontro con Clelia riesce ad accendere in lui il sacro fuoco di un amore che appare però del tutto insensato per come nasce, per come lo vive e per come si conclude.
In tale rapporto Clelia Conti, unica figura aliena da intrighi e bassezze, diventa nelle conclusioni il classico agnello sacrificale.
La zia Gina, duchessa Sanseverina, bellissima e spregiudicata, intelligente e gioiosa, liberale, ma a pieno agio negli intrighi di una corte dispotica, cinica al punto che lo stesso Stendhal nella prefazione ne prende le distanze, per amore del nipote – un amore che sente quasi incestuoso, anche se rimane platonico – diventa autrice di operazioni spericolate per salvarlo, con l’impeto e la passione di un’eroina romantica.
Il Conte Mosca è un intelligente cortigiano, eminenza grigia del principato, in bilico tra un Machiavelli ed un Metternich su piccola scala: solo nel rapporto con la Sanseverina subisce il fascino e il gioco della donna di cui è innamorato al punto di mettere a rischio per lei patrimonio e carriera, anche se poi è l’unico che riesce a conseguire i propri, concreti obiettivi.
Spesso nella letteratura la passione amorosa si accende ed esplode solo quando si scontra con i muri dei divieti, delle negazioni, delle regole da infrangere. Non sono però riuscito a trovare in questo romanzo il pathos o la poesia che possono dare emozioni profonde.
Il romanzo è stato scritto in 53 giorni, un tempo da Guinness dei primati: tale rapidità di stesura ha però comportato un pesante squilibrio nella sua struttura. Solo la prima parte, sino al capitolo V, è ricca di tensioni ideali, di belle pagine con piacevoli descrizioni del paesaggio lacustre. La parte successiva, sino alla conclusione (quindi l’ottanta per cento del romanzo) è dedicata a intrighi, veleni e sgherri, peripezie, slanci amorosi e frenate, il tutto con un dettaglio descrittivo che non regge la potenziale tensione narrativa. La conclusione, che dovrebbe essere la parte più emozionante, è invece sintetizzata in metà del capitolo finale, sembra su sollecitazione dell’editore che chiese a Stendhal di tagliare trecento pagine. Il libro si chiude come “La forza del destino” verdiana per l’uscita di scena di quasi tutti gli attori.
Diventa difficile non pensare, con ammirazione e affetto, al confronto con il nostro buon don Lisander che nello stesso periodo dedicava ai “Promessi sposi” dodici anni e tre edizioni.
A merito di Stendhal si può ascrivere il ricorrente richiamo all’italianità, al carattere ed al temperamento degli italiani portati a motivazione di comportamenti ed atteggiamenti diversi da quelli che attribuisce ai francesi. Valutazioni che esprimono il suo amore per il nostro Paese, anche se basati su stereotipi che fanno sorridere, ben poco realistici in un Paese frammentato come l’Italia di allora, dove l’italianità era tutta da costruire come affermò D’Azeglio anni dopo. Tuttavia, quei richiami ad una identità unitaria, espressione di una realtà nazionale, possono aver contribuito ad alimentare l’idealismo risorgimentale.
Mi sento di consigliarlo solo a chi non vuol farsi mancare la lettura di un testo iscritto fra i classici della letteratura romantica.
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Commenti
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Dell'autore ho letto solamente ''Il rosso e il nero'' , libro molto bello. Ora vedo che 'La Certosa' non è a quel livello.
Gian Piero
Grazie Emilio per la tua attenzione
Gian Piero
Del resto, era abituale per gli editori del diciannovesimo secolo imporre tempi di consegna impossibili, che gli scrittori, solitamente inseguiti dai creditori, dovevano rispettare ad ogni costo, riuscendo in qualche caso a regalarci capolavori assoluti come Notre Dame de Paris, altra pietra miliare della letteratura romantica che Hugo scrisse in pochi mesi. Per Stendhal, inoltre, proprio il ritmo galoppante e forsennato della sua scrittura per me è motivo di fascino, molto più dei contenuti. Vivesse ai giorni nostri, probabilmente sarebbe uno Stephen King. In un fanta-campionato letterario attraverso i secoli e i generi, Stendhal-King sarebbe una bellissima lotta...
Cordialmente
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Laura