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La bilancia della giustizia
“Ci sono due modi per dar conto dell’esistenza di questo libro. O è realmente esistito un fascio di fogli ingialliti e irregolari che registravano, uno ad uno, gli ultimi pensieri di uno sventurato; o si è incontrato un uomo, un sognatore impegnato a osservare la natura a beneficio dell’arte, un filosofo, un poeta, chissà, che ha fatto di un’idea la propria fantasia, che l’ha presa, o meglio, che si è lasciato prendere da essa e non ha saputo liberarsene se non riversandola in un libro. Di queste due spiegazione, il lettore sceglierà quella che più gli aggrada.”
Condannato a morte!
Queste tre parole risuonano nella mente dell’autore di questi fogli ingialliti e irregolari. E’ un uomo, ma non ha un nome. Ha una colpa, ma non sappiamo quale. Ha una vita, ma ancora per poco. E’ solo nella sua cella, ma questa è popolata dai fantasmi dei suoi precedenti “inquilini”. Nella voce anonima di questo uomo, lo scrittore (o sognatore o filosofo o poeta) Victor Hugo ha riversato con veemenza la sua critica alla pena di morte, che nullifica un essere umano, a prescindere da chi questo sia o da cosa abbia fatto. La pena di morte era ai tempi di Hugo una triste consuetudine spettacolarizzata nella quotidianità di una Parigi troppo indifferente alla vita e all’umanità.
“Miserabile” e “orrendo”.
Colpisce con quanta frequenza ritornino queste due parole nel diario del condannato, la prima riferita a sé stesso, la seconda a ciò che lo circonda. Privato del sole e del cielo, della famiglia e della libertà, egli racconta le troppo lunghe e troppo brevi ultime sei settimane della sua vita, quelle comprese tra la sentenza e la ghigliottina. Il viaggio nella sua mente si districa tra il pericoloso far nulla nella sua sordida cella e i ricordi di una vita passata che riaffiorano, come nel più banale degli esseri umani. Tutti sappiamo che la morte fa parte della vita, ma avere la certezza del momento in cui questo accadrà determina l’angoscia inesplicabile di un tragico conto alla rovescia. Speranza e rassegnazione si rubano continuamente il posto nell’animo del condannato; ma ciò che vince è lo sgomento di fronte all’apparentemente ordinaria amministrazione della vita di un uomo, indifferente come una pietra della cella, banale come un nome nell’agenda del prete confessore, morto come una persona dimenticata.
Che differenza c’è poi tra un condannato e un re? Denaro e potere possono consentire a qualcuno di aver nella sue mani la speranza di un animo e la vita di un corpo?
Che differenza c’è poi tra un condannato e un giudice? La vita è un prezzo troppo alto da pagare, soprattutto se giudicare spetta a Dio.
Che differenza c’è poi tra un condannato e la folla che assiste a un’esecuzione come a uno spettacolo? Forse che qualcuno di loro può dirsi certo che non toccherà anche a lui un giorno, o a un marito, una moglie o un figlio?
E’ dunque peggiore un condannato di chi lo condanna? O di chi assiste alla sua uccisione con entusiasmo? O di chi non lo salva avendone il potere?
“In questo processo verbale del pensiero agonizzante, in questa progressione sempre crescente di dolori, in questa specie di autopsia intellettuale di un condannato, non ci sarà più di una lezione per quelli che condannano? Forse questa lettura renderà la loro mano meno frettolosa, quando capiterà qualche altra volta di gettare una testa che pensa, una testa di uomo, in ciò che essi chiamano la bilancia della giustizia? Forse non hanno riflettuto, questi poveretti, su questa lenta successione di torture racchiusa nella sbrigativa formula di una sentenza di morte? Si sono mai soltanto soffermati sulla straziante idea che nell'uomo che sopprimono c'è un'intelligenza, un'intelligenza che aveva contato sulla vita, un'anima che non si è preparata alla morte? No. In tutto questo non vedono altro che la caduta verticale di una lama triangolare, e probabilmente pensano che per il condannato non esista nulla, né prima né dopo. Queste pagine li faranno ricredere. Pubblicate forse un giorno, fermeranno per qualche istante le loro menti sulle sofferenze dello spirito, poiché sono proprio queste che essi non sospettano.”