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L'amore al tempo degli dei
Tra le più famose e affascinanti del mondo antico, la favola di Amore e Psiche è narrata tra la fine del IV libro e il VI libro nelle Metamorfosi (o L’asino d’oro) di Apuleio di Madaura. Messa in risalto dalla posizione centrale, essa si distingue dalle altre novelle, di stampo boccaccesco, per l’assenza di licenziosità e del macabro e per la sua eleganza, derivante anche dal mondo in essa ritratto. Protagonisti sono infatti la giovane Psiche e il dio dell’amore, figlio di Venere. Questa, invidiosa dell’acclamata bellezza della fanciulla, che riscuote ammiratori da ogni parte del mondo, la obbliga a presentarsi sulla cima della montagna vestita a nozze per sposare un una creatura terribile; la misera ragazza viene però salvata da Amore, grazie a Zefiro che la trasporta in un sontuoso castello immerso nelle meraviglie della natura. Qui Psiche si rende conto di esser stata salvata per volere di un dio, ma suo marito si presenta solo di notte per consumare i loro rapporti al buio, svanendo al sorgere del sole in modo tale da non esser visto. Psiche, triste per la sua solitudine e rimasta peraltro incinta, ottiene dall’innamorato marito di avere la visita delle sue sorelle, che però, come aveva messo in guardia Amore, la inducono per invidia a trasgredire il patto che aveva con suo marito, infondendole il timore che si trattasse di un mostro pericoloso: tenta dunque di vederlo in faccia mentre dorme e, avvicinandoglisi con una lanterna a olio, riconosce nel marito dormiente l’adorabile figlio di Venere, innamorandosene follemente. Tuttavia, presa dall’estasi, lascia inavvertitamente colare una goccia di olio bollente sul viso del dio, che si risveglia in preda al dolore e vola via. La fanciulla affranta girerà in lungo e in largo per la terra nella sua ricerca e, compiuta anche la sua vendetta verso le invise sorelle, dovrà affrontare l’ira di Venere, indignata tanto verso il figlio traditore quanto verso Psiche, tanto ardita da sfidarla. La dea la sottoporrà dunque a una serie di prove che Psiche, soccorsa nei momenti di più forte rassegnazione, riuscirà sempre a superare; l’ultima prova avrà successo grazie all’intervento stesso di Amore, che, rimessosi, decide di aiutare l’amata, la quale per la seconda volta aveva trasgredito dei dettami per curiosità ed era sul punto di fallire definitivamente. Gli dei, riuniti su ordine di Giove, decidono di porre fine alle continue passioni giovanili di Amore, concedendogli di sposare Psiche, la quale sarà resa divina per garantire una discendenza divina a Venere, costretta così ad accettare la situazione. Nel finale viene dunque imbandito un sontuoso banchetto divino per le nozze dei due, da cui nascerà la figlia Voluttà.
Ripetutamente sottoposta ad esegesi e rielaborazioni, la favola sviluppa motivi già presenti nei racconti popolari e sfugge ad un’univoca interpretazione, sia in relazione al suo contenuto sia in relazione alla sua funzione all’interno dell’opera del Madaurense. I caratteri che la differenziano dalle altre novellesi prestano a una lettura della favola come a un simbolico doppione della trama principale. Inoltre si tratta di una favola teologica che attinge al mito, di cui conserva dei caratteri, come l’imperscrutabilità degli dei (ben attestata nella letteratura mitica), pur inserendosi a pieno titolo nel contesto dell’opera licenziosa di cui è parte. Estremamente controversa e dibattuta è inoltre l’interpretazione della favola di per sé stessa con le sue peculiari componenti. Presentando elementi romanzeschi abilmente combinati da Apuleio, densità di significati, pluralità di linguaggi e allusività, essa sfugge ad ogni rigida decifrazione, lasciando nel lettore e nello studioso un alone d’incommensurabile incertezza che ne costituisce da secoli l’elemento di maggior attrazione. Sembrano in essa riecheggiare l’elemento misterico e l’atmosfera di magia che fanno da sfondo all’intera opera apuleiana, cosicché la fiaba-novella si sottrae ad un’esegesi realmente esaustiva, in quanto sempre strettamente legata al punto di vista “interessato” di quanti si dedicano da secoli alla sua rilettura, rielaborazione e riscrittura. Svariate interpretazioni sono state fornite nel corso del tempo, muovendosi dal campo filosofico a quello teologico, passando per l’arte figurativa e l’arte drammaturgica, a testimonianza di un racconto che, grazie all’abilità dell’autore e alla genialità del primigenio inventore di questa favola divina, ha la possibilità di rinascere costantemente nell’animo di ogni nuovo lettore.
Particolarmente interessante è, a mio parere, il valore psicanalitico che alla favola si può e si dovrebbe riconoscere, in quanto essa presenta innegabilmente una, seppur stilizzata e universalizzata, visione dell’eros e delle sue componenti. Queste sono infatti personificate da personaggi principali e comparse dai nomi strategici e dai connotati divini, il che conferisce una dimensione di assolutezza a concetti astratti che, visti correttamente, altro non sono che etichette che gli uomini affibbiano a emozioni e stati d’animo puramente soggettivi e, come tali, non univocamente definibili. E’ per questo che il mito ricorre alla divinizzazione, in grado di generalizzare idee che noi tutti riconosciamo e proviamo nell’esperienza amorosa, pur rapportandoci ad esse in modo sempre diverso e sempre nuovo. Di qui il fascino psicanalitico derivante da tale novella, che si presta ad un’analisi dei simboli e dei personaggi in essa proposti a fornire una visione leggiadramente introspettiva del sentimento amoroso.
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Ferruccio