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L'insensatezza frustrante di un'attesa che dura un
Quando ho visto "Il castello" di Kafka sullo scaffale della libreria sono stata sopraffatta dalla curiosità per l'ombra di fascino e di mistero che emana il titolo e che suscita sempre il suo autore. Così piena di aspettative ho iniziato a leggere e più andavo avanti, maggiore era il senso di disorientamento e assurdità che mi pervadeva. Un uomo senza nome, che viene identificato da una semplice lettera giunge in un bizzarro villaggio e tenta continuamente, con ogni mezzo di comunicare con il castello, con un'autorità nota a tutti ma allo stesso tempo così riservata a misteriosa da non dare mai risposte, insinuando un lacerante dubbio sulla sua effettiva esistenza. Il protagonista attende, persevera nei suoi vani tentativi, instaura anche relazioni con gli abitanti del villaggio ed è costretto a sopportare l'invadenza opprimente dei due aiutanti che, in realtà, si rivelano degli antagonisti. Tuttavia ci si rende conto progressivamente che è lo stesso eroe ad essere antagonista di se stesso, condizione inevitabile di ogni essere umano. L'impegno che dimostra nella speranza di trovare un significato, una regola che dia un senso all'oscura burocrazia del castello è fallimentare e, alla fine, la sua esistenza, come quella di ognuno di noi, non è altro che un'attesa insensata ed eterna che culmina nel nulla. Lo stesso finale incompleto del libro, l'impressione che ci sia sempre qualcosa in sospeso mi ha ricordato il "nonsense" beckettiano di "Waiting for Godot": individui privi di identità che cercano risposte in un mondo dominato dal vuoto di un'autorità assente.
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Anch'io ho avuto sostanzialmente le tue stese impressioni.