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Piccole donne
 
Piccole donne 2014-05-23 05:56:22 Portoro
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
5.0
Portoro Opinione inserita da Portoro    23 Mag, 2014
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Appunti su Alcott

I.

Interrompo Alcott, a pagina 30, allarmato dagli elementi pedagogici che pur m’aspettavo e dai continui solleciti alla rinuncia intesa quale supremo atto d’amore – pedagogia o educazione civica dei sentimenti che destina così al martirio il povero cittadino abbiente. L’episodio natalizio, con la parata d’innocenti piccole donne che sotto la guida della madre-gendarme sfilano verso la casa dei vicini pezzenti (i quali, in barba alla miseria, proliferano) è davvero crudele – s’apre qui una tremenda forbice tra una formazione individuale sana e il rovinarsi sociologico mutuato dalla cristianità masochista.
L’imprinting a cui Alcott sottopone il lettore è l’immagine di un continuo annullamento dei propri bisogni in tributo a valori più alti, il petulante differimento di qualsiasi soddisfazione personale a vantaggio di un paradiso che subentrerà poi, a ricompensa e/o indennizzo. La stessa Jo, ribelle, si muove nell’ambito di questo dogma anzitutto materno, perlomeno in tutto il primo capitolo, sebbene il padre, cappellano in guerra, sia una legge che nell’assentarsi dalla vita famigliare ha trovato nella moglie un prete supplente impareggiabile: Casa March è una gendarmeria del cuore.
Ne sono stupito per due ordini di motivi: il primo è il carattere esplicito di una vera e propria catechesi della rinuncia, ma in termini così immediati da rasentare il terrorismo – non ho letto il Cuore di De Amicis, e non trascuro una certa bava nazionalista tipica dell’Ottocento unitario, tanto in Italia e in Germania quanto negli Stati Uniti, dove la Guerra di Secessione rappresentava un pretesto ideale per il solito monoteismo welfare alla romana, un Dio che sostanzia il proprio ente in qualcosa tra Robin Hood e l’Inps; il secondo è la mia esperienza personale, laddove gli errori di generosità, bisogna ammetterlo, sono un derivato culturale cristiano-cattolico: sono, in altre parole, una manifestazione d’imbecillità indotta, acquisita.

II.

Gli indizi di una liaison tra Meg e Laurie sono tre: i primi due si ricavano da quanto Jo rivela subito dopo aver scoperto il “premio” per la rinuncia mattutina, col paradiso dolciario inviato da Mr. Laurence, il cui nipote è «in gamba», anche se «Meg fa tanto la sostenuta» e non vuole che gli si rivolga la parola; più sotto, riferendo della restituzione della gatta (il gineceo esteso perfino al regno animale), è ancora Jo a raccontare di aver chiacchierato col giovanotto, «di cricket e di altri giochi, ma poi, quando [egli] ha visto che arrivava Meg, se n’è andato». Se la sorella maggiore è il baluardo, la security sulle minori, i suoi interventi non sono tanto riconducibili alla protettività quanto a un debole, che in certi ambienti ingessati è tradito appunto dall’ostilità, da un reciproco tener la distanza. Più che protettiva Meg appare dunque incuriosita – e in termini narratologici quella di Alcott è una finta. In chiusura di capitolo si legge ancora «È la prima volta che ricevo un bouquet: come è bello!» disse Meg guardando i suoi fiori.
La liaison s’instaura poi nel secondo capitolo, durante la festa, ma tra Laurie e Jo, di fatto proseguendo gli approcci di cui s’era letto nel primo capitolo.

Il motivo dei fiori è l’ennesimo pretesto per rilanciare la bellezza della povertà; anzi, la miseria quale unico presupposto della gioia più autentica. La purezza è vista nell’essenzialità, nello scheletro, in quanto ridotto ai minimi termini – così le rose di Beth, già appassite, son più care a Mrs March di quei fiori freschi. È inteso: non perché regalate dalla figlia, ma poiché vizze, perdenti rispetto all’omaggio di Mr. Laurence.
Va da sé che su uno sfondo pallido e malaticcio i colori staccano meglio, i contrasti vivono se l’humus è un’agonia. Quindi la spontanea esuberanza della fanciullezza avvalora i disastri politici di un tracollo imputabile soltanto agli adulti: i genitori che fanno la guerra, per esempio... Immessa senza colpa in contesti menomati, in spenti focolari bellici, la fanciullezza col suo portato dovrebbe riscattarli, anzi, transvalutarli – per rendere accettabile la miseria, la si elegge a valore massimo, la si rende desiderabile. Così l’arte d’arrangiarsi, l’inventiva di camuffare una toppa, l’illusionismo degli imbrogli per decoro, coi guanti invertiti e la strategia dello stare al muro per nascondere la bruciatura in Jo, o il ballare in scarpe troppo strette fino a slogarsi una caviglia in Meg: questo martirio della felicità a denti stretti, questo partir volontari al fronte della partecipazione sociale sarebbe il divertimento che le grandi dame, così vincenti, si perdono...
Qui c’è già, oltre all’incentivo evangelico degli ultimi che saranno i primi, una retorica della sopportazione, esercizio femminile al dolore, allenamento, apprendistato d’una sofferenza costitutiva che Alcott rappresenta col piglio agguerrito e civico di chi erige il monumento alla donna: ma assecondando quel tipico maschilismo allestito da madri, nonne, vecchie zie: la gendarmeria della grazia asservita ai maschi giudici, ma vessata (anche) dai tribunali femminili della concorrenza; l’imperativo categorico dell’acchiappo che sopporta lacerazioni e piaghe in tributo a una buona riuscita, a un’apprezzabilità di fondo, e che dia per riscontro una proposta di matrimonio vantaggiosa, un buon partito insomma...
È interessantissimo, tanto più nei preparativi di Jo e Meg, quando si esplicita un lavorio paradossale che mira alla naturalezza; un elaborato acqua & sapone che non tramonterà mai, fermo restando il presupposto idealistico per cui una moglie la si sceglierà col metro della purezza dimessa, di una semplicità plagiabile e controllabile, mentre il sofisticato, il fashion, pertiene all’intrattenitrice sessuale.
Il moralismo ottocentesco quindi eleva nella donna tutti quei valori di passività e di bassezza canina che la rendono innocua, supina e/o prona a una volontà mascolina di mero dominio; e la disponibilità sessuale che anche Alcott teorizza è così ricambiata col sovvenzionamento matrimoniale, diventa moneta di scambio per trovar posto in società.
In questo senso, si profila ancora una retorica dell’attesa – i preparativi, il tempo necessario affinché il tempo... maturi. L’esempio della seta, che alle piccole donne è proibita dal gendarme, è molto indicativo: supponendo che il popeline loro concesso sia un tessuto più spesso, più resistente, si metaforizza l’imene e un processo d’avvicinamento alla deflorazione: la seta in tal senso è l’approdo, un esser pronte.

III.

Il vero nemico è sempre dentro, poiché fuori è il prossimo, da amare a tutti i costi. Il polimorfismo della colpa agisce quindi dall’interno e sanziona, impietoso, qualsiasi rivendicazione, speranza di miglioramento o desiderio. Da questa colpa gendarme che tarpa il volo prima ancora che spicchi, ognuno dei personaggi tenta di ribellarsi, anelando al movimento, di fatto però ritornando ogni volta alla staticità sociale cooperativa, e nazionale, su cui vigila la madre.
Il conflitto interiore pacifica un senso di contrarietà esterno, di ingiustizia, di sperequazione: inchioda il cittadino alla croce del quietismo collaborante, altruistico, patriottico. Meg, che raccoglie l’eredità civettuola della Alcott, è attratta dai lussi, rimpiange i tempi d’oro prima che suo padre, il cappellano matto, dilapidasse i risparmi d’una vita per tentare di salvare un amico... Questo senso di decadimento è il massimo dell’immoralità, poiché all’indecenza dell’atto desiderante in sé s’aggiunge quello sporco oggetto, quella meta (la ricchezza, il lusso) che distrugge la felicità.
Se Jo non esita nella diagnosi (spiegando a Meg che «Tu sei frustrata e oggi per di più sei furiosa perché non puoi vivere nella bambagia. Povera cara! Aspetta che io faccia fortuna e poi vedrai che potrai spassartela tra carrozze, gelati, scarpine [...]») al contempo offre già alla sorella una soluzione, quel provvedere mafioso nella misura in cui i membri della famiglia non smettono mai d’esserlo, per diventar individui autosufficienti, e i problemi individuali restano per sempre collettivi, una Cosa Nostra...
Questa solidarietà è il primo anello della catena umanitaria, politica, che forgia il popolo nella sua unità monoteistica, confederata. In questa direzione la propaganda della Alcott non è nemmeno troppo... occulta – gli interventi diretti, di sottolineatura, sono irruzioni: «La povera Meg si lamentava di rado ma in certi momenti l’ingiustizia di tutto ciò la riempiva di un senso di amarezza e di rivolta contro il mondo intero, perché non aveva ancora capito quanto era ricca, ricca di quei valori che da soli bastano a rendere la vita felice.»
Lo stesso vale per Jo che, verificatosi il crack e richiesta in adozione dalla zia ricca, è trattenuta in seno all’unità di famiglia, ché «Ricchi o poveri resteremo uniti e insieme saremo felici». Quanto abbia fatto presa questo messaggio, di sanità e coesione famigliare, quali innegabili vantaggi comporti tutt’oggi, ma quanto intervenga anche nell’eziologia della cultura politica, anzitutto, è un’ovvietà.
Si deve però registrare il castigo puntualissimo quando si finisce al di fuori di quel seminato; i King, per esempio, colpevoli di esser ricchi, hanno i loro grattacapi e il figlio grande ne ha combinata una così grossa che suo padre lo caccia di casa, cioè dall’Eden, poiché «ha disonorato la famiglia»; Meg, che presta servizio da istitutrice, non se ne rallegra, ma certo impara da questo una lezione.
Lo stesso gendarme materno ne impartisce – ben attenta, la Alcott, a inoculare nel moralismo lo stesso germe che dia una parvenza di vaccino alla continuativa morale della favola: «Mami sei stata molto furba a rivolgere le nostre storie contro di noi e a propinarci una bella predica al posto di una favoletta» esclamò Meg.



IV.

C’è una didattica sottesa nella letteratura dell’Ottocento il cui obbiettivo precipuo è il conseguimento dell’obbedienza: restar costretti, lettori, nello status di figli anzitutto, in una monocromia di cittadinanza, nazionalità e fede; parametri dai quali ricavare un’identità oggettiva e commisurabile – e quindi collocabile in gerarchia.
Il processo inizia in famiglia, col genitore cerbero funzionario dello Stato e viceparroco che vien appunto consacrato dall’alto della politica, collusa in duumvirato col clero: un genitore da onorare secondo il noto quarto comandamento. Va notato che il patriarcato ottocentesco e il romanzo di propaganda diventano i principali vettori di ideali nazionalisti pesantissimi da cui germineranno tanto gli stati centrali d’impianto borghese, nella seconda metà dell’Ottocento, quanto i fascismi reazionari fallocratici d’inizio Novecento; tanto i ribellismi della boheme pidocchiosa e della scapigliatura quanto i pruriginosi sedicenti operai dell’università sessantottina: nasce tutto da un papà barbuto dalla voce tonante.
La Mrs March che osanna la patria vergognandosi di aver dato soltanto il proprio marito, a differenza di quel vecchio signore che, senza lamentarsi, aveva già offerto in olocausto quattro figli (due avendoli perduti, uno essendo rimasto prigioniero, l’ultimo ferito e «ricoverato in condizioni molto gravi all’ospedale di Washington»), è la medesima signora che potrebbe sostare in un ballatoio per riepilogare l’ultima orazione di Mussolini, il bel Duce.
L’obbedienza è un continuo sottostare al potere superiore – purché questo avvenga assecondando il cuore, quindi credendo nella propria inferiorità ancor prima che nella superiorità di chi è al comando. È fondamentale, per esempio, che le sorelle March non sentano nella madre l’autorità costrittiva e repressiva, ma al contrario l’autorevolezza liberale di un angelo che le guarda e saluta dalla finestra – obbedire non significa adeguarsi controvoglia, ma voler compiacere il superiore, il modello di riferimento; e magari dar grandi leccate di culo. Da qui ne consegue un generale abbassamento d’aspettative, un generico appiattimento degli impulsi, un volontario lasciarsi intruppare nella virtù, nello scanzonato platonismo dei soldati in trincea, indotti a morire col sorriso sulle labbra, felici dell’azzeramento individuale che lavora e crepa per gioco di squadra.
Questa miseria che si crogiola nello zero, ha bisogno di precisi cliché – coi ricchi che vanno incontro al disastro, e che immancabilmente son dei parvenu, e siccome anche gli americani lo erano rispetto agli inglesi, e rispetto a un’idea di nazionalità, si pareggiano i conti col puro innatismo della nobiltà d’animo: così Alcott, per mezzo di Meg, descrive i Moffat: «Percepì, senza sapere spiegarsi il perché, che non erano molto colti né molto intelligenti e che tutti gli ori di cui si circondavano non riuscivano che in parte a nascondere la loro innata rozzezza».
Lo sfarzo è dunque una volgare mascherata – nella misura in cui, tra piume e orpelli, snatura l’Io più autentico, le nude mura dell’anima, il viso candido di quella che dovrà restar più a lungo possibile una bambina, ché «le conviene». Il losco ricorso alla convenienza, nel genitore che si preoccupa del figlio, è già un campanello d’allarme: Mrs March ha paura, teme come nient’altro il mutamento, il crescere della piccola donna che poi corrisponde alla sua maturità sessuale, alla configurazione di una libido consapevole. Perciò si desessualizza in modo sistematico qualsiasi contesto di relazione che per sua natura è già sessuale; tanto la recita natalizia, col suo intreccio, quanto il primo pomeriggio tra Laurie e Jo, Alcott si precipita a definirli «innocenti» – e quanto a Jo, sarebbe una ragazza senza «strane fantasie», proprio la scrittrice delle magnifiche quattro, strana per eccellenza...
Certo se il baricentro identificativo è proprio in Jo, alter ego prediletto dell’autrice e amministratrice delegata dell’irruenza (è un Es messo a dieta, un impeto che sembra aver a disposizione una stanza da fracassare, ma soltanto quella: c’è già un regolamento, una disciplina); il super Io è il gendarme Mrs March, una specie di filosofa della ristrettezza che mortifica qualsiasi residuo di sano appetito filiale, cosicché ognuna delle ragazzine abbia garantito il proprio fardello di colpa, mentre l’unico obbiettivo da loro perseguito, giorno per giorno, è l’innocenza: oltre al danno, la beffa.
«Mrs March guardò Meg, più graziosa che mai nell’abito da giorno di percalle, con i riccioli che le ricadevano sulla fronte e l’aria molto femminile, mentre era intenta a cucire al suo tavolino da lavoro disseminato di spolette bianche disposte in bell’ordine; così, ben lontana dal pensiero che attraversava la mente della madre, procedeva cantando nel suo lavoro mentre le sue dita volavano e la sua mente si perdeva in fantasie infantili, innocenti e fresche come le violette che portava in vita, a quella vista Mrs March sorrise contenta.»


V.

Piccole Donne si conclude col trionfo dell’amore – l’affermarsi di questa malattia che infine si accetta per ineluttabilità. Si manifesta, non a caso, come una sindrome che il gendarme Mrs March osserva con «sguardo penetrante» nello smagrire e nell’emotivo esacerbarsi della figlia maggiore, Meg, oramai avviata al corrompersi di natura e alla scoperta del piffero, che subito bisogna dirottare al sacro talamo prima che imputtanisca in vagabondaggi sperimentali o prove d’orchestra.
Questa intimità privata, ma resa al pubblico di una radiologia famigliare che vede tutto o a cui nulla può sfuggire, nemmeno la più minuscola macchia sulla lastra funebre della sessualità puritana, è il sintomo di un incontrastato dominio genitoriale, il succube conformistico rimettersi alla volontà dei padri superiori: lo stesso Brooke, da uomo d’onore qual è, contatta i coniugi March, in quel di Washington, prima ancora di sondare il gradimento della signorina Meg: era l’uso, questo...
Il controllo poliziesco, la sorveglianza che tanto ricorda, seppur oltreoceano, la marcatura stretta del Sud, assume pieghe ridicole: la povera Jo che col fidanzamento perde l’amata sorella, scivola nella delazione, nello spionaggio puro: “Salita di corsa al piano di sopra per raggiungere i familiari, fece trasalire i due convalescenti esclamando con aria tragica: «Presto, scendete giù! John Brooke si comporta in modo sconveniente e Meg lo lascia fare!»
Mr e Mrs March lasciarono in gran fretta la stanza […]”

Il senso di colpa troneggia anche qui, poiché sposarsi (nella storica, tremenda identificazione col primo rapporto sessuale) significa abbandonare i propri vecchi al loro destino – è un «fardello» anche questo. Ogni minima turbativa dell’equilibrio su cui hanno operato i genitori in anni e anni di sacrifici, ogni minimo spostamento dai tracciati filiali subordinati, è traumatico, violento.
La stessa prigione in cui si ritrova il giovane Laurence rispetto allo zio – è Jo che avvisa l’amico: «Come tu stesso hai detto, non c’è nessun altro che gli stia vicino con amore e, se tu te ne andassi senza il suo permesso, per tutta la vita avresti il rimorso di averlo abbandonato. Non scoraggiarti e se farai il tuo dovere senza mordere il freno avrai la tua ricompensa […]».

Lo stereotipo ribelle di un Laurie è alimentato proprio da questa retorica che ha in sé già il vaccino: nel romanzo si parla spessissimo, in termini d’insofferenza, di prediche – Alcott pretende così di scongiurare la verità di un meccanismo, di una pedagogia martellante, ma affidandolo all’esempio immediato del castigo, di una punizione che non tarda a cader sulla testa dei negligenti... Addirittura, quando le sorelle avanti-March!, dopo la settimana trascorsa a sgobbare in assenza del gendarme (volata al capezzale del cappellano), pensano a rilassarsi, fottendosene degli Hummel, ai quali avevano già devoluto la colazione di Natale, subito si paga dazio. La piccola Beth, pur sollecitando l’intervento delle sorelle maggiori («Meg vorrei che andassi a vedere gli Hummel, sai che la mamma ci ha raccomandato di non dimenticarli»), alla fine, già contagiata dalla scarlattina, marca visita e l’assenza delle March comporta per direttissima la morte del piccolo tedesco infetto e il calvario della stessa Beth, la più promessa, d’altronde, alla morte.
Disadattata – perfino Alcott ne definisce «patologica» la timidezza – la sua virtù incondizionata e cristologica, il suo aver scelto i deboli, tanto col cottolengo di bambole storpie quanto col povero Frank, il ragazzo zoppo, è un racket di sentimentalismo degli umili. Rassegnata, felice per il sol fatto di respirare e poter raccattare rifiuti da salvare al tristo destino della pattumiera, Beth ricorda agli altri, ai vivi, quant’è sozzo vivere e desiderar qualcosa per sé stessi. Nella sua rassegnazione c’è già un candidarsi alla prematura scomparsa, come sulla tetra scia della nipotina di Mr Laurence, pianista defunta il cui pianoforte mausoleo suona come un’investitura.
Perciò in termini narratologici se morte vi sarà in Piccole Donne crescono, sarà Beth a uscire di scena: in punta di piedi, certo...

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Opinione interessante e originale, fuori dal coro di lodi sperticate. Condivido sostanzialmente tutto, eccetto le cinque stelle date alla piacevolezza: questo romanzo non l'ho mai potuto soffrire.
In risposta ad un precedente commento
Portoro
23 Mag, 2014
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Sì, immagino che, per un certo tipo di donna, Alcott possa risultare addirittura odiosa. Io ho letto il romanzo col gusto di vederlo sprofondare nella sua mellifluità. ;-)
Ahahahaha che spasso, l'hai ampliata! Da leggere e rileggere :-))
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