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Il Rosso e il Nero: Napoleone ed i Gesuiti.
Se qualche erudito degli anni Trenta dell’Ottocento avesse domandato ad Henry Beyle, vero nome di Stendhal, cosa avesse pensato di Julien Sorel, probabilmente egli avrebbe risposto: “sono io Julien Sorel”, proferendo le medesime parole esplicitamente enunciate da Flaubert in riferimento alla sua creatura Emma Bovary.
Che il Sorel sia la personificazione di Stendhal, o meglio, del suo modo di concepire l’esistenza di un individuo nella società della restaurazione, è chiaro, non solo e non tanto per le profonde similitudini di vita che uniscono l’autore al suo figlio di fantasia, ma soprattutto perché l’intero romanzo si snoda, anche quando racconta le vicende di altri personaggi più o meno legati al principale di essi, e si sviluppa originando dalla mente di Julien, dal cuore di Julien e dalla vita di Julien.
Voglio dire, cioè, che tutta la storia è narrata guardandola attraverso gli occhi del protagonista, che è onnipresente, quasi come una creatura divina, anche nei momenti in cui è assente. Non esiste momento, come nelle riunioni dei nobili di casa La Mole alle quali inizialmente egli non poteva prendere parte, il cui la sua presenza non sia sentita e dal cui giudizio il lettore non sia influenzato.
Questo, è a mio avviso, il vero senso del Rosso e Nero: un’endiadi complessa ed al tempo stesso semplice. Il rosso dei vessilli napoleonici, salutati dal giovane Beyle come il naturale evolversi del pensiero rivoluzionario foriero di democrazia ed uguaglianza, ed il nero della Restaurazione, della delusione per la fine di una parabola illusoria in cui i piccoli borghesi ed i ceti infimi avevano creduto invano. Il nero personifica, poi, il colore gesuitico della Chiesa, come unico mezzo di emancipazione sociale per chi, come Sorel, desidera elevarsi dalle sue umili origini e vuole ritagliarsi uno spazio nello scenario politico segnato dal fruscio delle vesti di seta e dal chiacchiericcio noioso degli aristocratici ebbri di vino e di pettegolezzi futili.
E così l’ambizione ossessiva del giovane per il successo si mescola al tedio dei nobili che, dapprima, guardano Julien con curiosità mista ad ilarità e di cui, successivamente, apprezzano la cultura e la rara intelligenza. Ma contemporaneamente Stendhal ci mostra, con pagine anche molto difficili perché si mescolano valutazioni squisitamente politiche ad apprezzamenti psicologici che entrano, a mio avviso, nell’intimo della sua personalità, il cuore e l’anima di questo ragazzo, che, non bisogna dimenticarlo, ha solo ventidue anni quando insegue vanamente i suo sogni di gloria.
Egli è così lontano dalla generale visione che si ha della fanciullezza perché è carico di risentimento e di angoscia per un’infanzia non semplice, e la sua voglia di superare i limiti posti da una nascita non illustre affondano le radici in questa congerie di sentimenti negativi, che trasportano il lettore in una scenografia tetra e nevrotica dalla quale si esce con un amaro in bocca.
L’amaro in bocca di chi, arrivato al capolinea, si rende conto di aver inseguito una chimera effimera e di aver perso di vista, dunque, il vero senso della vita.
Non sento di poter consigliare questa lettura a tutti, non tanto e non solo per il linguaggio ermetico, ma soprattutto perché lascia una sensazione di irrisolto dalla quale è difficile riaversi.
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Commenti
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E' davvero un libro complicato da decodificare, a volte mi sono sentita "poco matura" per la comprensione dello stesso.
anzitutto vi ringrazio per aver letto la mia recensione.
Come sapete, la lettura, trattando di quella cosa mutevole per natura che è l'uomo, lascia ad ognuno di noi sentimenti e percezioni differenti.
Per me è stato arduo portare a termine questo romanzo.
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Il contenuto sotteso c'è ed è corposo, ma personalmente ho difficoltà a leggere Stendhal, questo titolo non sono riuscita a coglierlo proprio per i motivi che hai evidenziato anche tu nella tua ottima analisi.