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La fine di un impero e di un’epoca
La prima guerra mondiale fu un conflitto che segnò la fine di quattro imperi: quello tedesco, quello russo, quello ottomano e quello austro-ungarico. Perché si arrivasse a questa immane tragedia, che costò la vita a milioni di soldati, non è ancora del tutto chiaro, anche se, assai probabilmente, fu l’ultimo disperato tentativo per conservare troni fuori dal tempo. E tale era anche quello dell’impero austro-ungarico, sul quale sedeva da ormai troppi anni Francesco Giuseppe, una figura che poteva benissimo identificarsi con quel coacervo di nazionalità che costituiva l’ultimo stato ormai quasi millenario che tanto aveva giocato un ruolo di riferimento dal tardo medioevo a quei primi anni del XX secolo.
L’impero austro-ungarico era in pratica Francesco Giuseppe, una sorta di cariatide ingessata in una visione largamente superata del concetto di stato, incapace di adeguarsi alle nuove idee e ai nuovi equilibri, scaturiti soprattutto dopo l’ultima esperienza monarchica francese, caduta nella rotta di Sedan. E Cecco Beppe, come ironicamente lo chiamavano i nostri irredentisti, non poteva non interessare un acuto osservatore come Joseph Roth, che finisce con il fornirne una rappresentazione frontale, anche se la sua presenza in questo romanzo non è di certo frequente, ma tutto è permeato dalla figura dell’imperatore, da quella battaglia di Solferino in cui fu salvato da un ignoto Trotta, a cui per gratitudine attribuì il titolo nobiliare, trasmissibile agli eredi. Della famiglia Trotta vengono seguite le vicende, con il figlio e il figlio del figlio sempre più irrealistici e assediati da un senso di incompiutezza, e contestualmente matura la disgregazione di una monarchia, con Francesco Giuseppe che invecchia, incartapecorisce, mentre di pari passo il suo stato si sfalda.
L’ultimo sussulto, il disperato tentativo di fermare un declino ormai inarrestabile è proprio la guerra, che nella sua tragica crudezza rivelerà la realtà di un mondo ormai anacronistico e che finirà, ancor prima di essere sconfitto sul campo di battaglia, con l’implodere.
Non credo che vi possa essere miglior libro per spiegare cosa accadde e perché, e soprattutto per comprendere come in fondo il padre padrone di questo impero fosse da tempo un morituro, un essere spento, gravato dal tragico destino dei figli, incapace di reagire, nascosto dietro il formalismo di un mondo fatto di esangui parate militari e da stanchi balli di corte.
Roth, cittadino asburgico, non nasconde la nostalgia per quel mondo, fatto di trine, merletti e da una staticità ben in contrasto con le realtà nascenti e volte all’affermazione di nuove identità, ma è talmente intelligente da non rimpiangerlo, se non come un’epoca che lui credeva felice ed eterna, e invece non era così.
Di questo spirito nostalgico sono non poche le pagine di autentica poesia, indubbiamente le migliori di un romanzo che ripropone però una caratteristica degli autori mitteleuropei da Mann a Musil, e cioè una ricorrente grevità, come se le parole e le frasi fossero macigni caduti sul foglio, Ma, credetemi, è l’unico appunto che si può fare a un’opera che, per struttura, capacità di analisi e anche raffinata e precisa ambientazione, può benissimo far passare in secondo piano una certa verbosità che a noi lettori di questo XXI secolo, abituati a prose assai più agili, potrà parere eccessiva.
Considerato però il romanzo nel suo complesso credo proprio che si possa tuttavia parlare di capolavoro, perché La marcia di Radetzky è uno di quei libri che più si leggono più si apprezzano.
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