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Ritratto della mediocrità che aspira all’alto
Per poter descrivere un romanzo su cui tutto si è detto e tutto si è scritto da autorevoli critici letterari, vorrei utilizzare due definizioni pronunciate da due intellettuali del XIX secolo.
La prima è : “Madame Bovary sono io” ed è stata pronunciata dal padre virtuale di Emma, Gustave Flaubert, che descrive il suo primo ed imponente romanzo, che si staglierà prepotentemente nello scenario letterario della metà dell’Ottocento, come la traduzione al femminile di se stesso.
La seconda, meno laconica e più ricca di particolari della prima, è espressa da un altro grande nome della letteratura francese, Charles Baudelaire, il quale afferma che: “questa donna è veramente grande e soprattutto essa ispira pietà; nonostante la durezza sistematica dell’autore, che ha fatto di tutto per essere assente dalla sua opera limitandosi a tirare i fili come un burattinaio, tutte le donne intellettuali gli saranno grate di aver elevato la donna ad una potenza così alta, tanto lontana dall’animale e così vicina all’uomo ideale”.
Due descrizione che a primo acchitto sembrano due ossimori, ma che in realtà, a mio avviso, si configurano come due lati della stessa medaglia.
Baudelaire afferma che Flaubert si sia comportato come il burattinaio che gestisci i fili della vita di Emma e, di conseguenza, dei personaggi di cui lei si circonda, volendo indicare l’aspirazione naturalistica abbracciata dall’autore. Egli trae insegnamento dal grande Balzac, che aveva pubblicato ben venti anni prima, interpretando la letteratura alla stregua delle scienze naturali, cercando, cioè, di scandagliare l’animo umano, le sue inclinazioni ed il suo diverso approcciarsi alla vita come se fosse un fisico naturale, che, da lontano, osserva ed utilizza il metodo induttivo delle scienze. E questa cura minuziosa rispetto alla caratterizzazione dei personaggi, alla descrizione dei luoghi, allo scenario politico gretto e meschino rappresentato dalla provincia francese (ancora un rimando a Balzac!) sono parte fondamentale dell’opera.
Ma se la si riducesse solo a questo, il romanzo apparirebbe freddo, perché gelida sarebbe la mano di chi lo ha partorito.
E qui, a soccorrere il lettore, giunge miracolosamente la frase enfatica pronunciata da Flaubert: “Emma Bovary sono io!”. Pur volendo l’autore mostrarsi come un freddo spettatore della parabole discendente della sua eroina, essendo anch’egli un essere umano, prova pietà per lei fino a rendersi conto che quella tensione della donna che si spinge verso vette sempre più alte, quel suo desiderio di emancipazione, pur espresso in termini volgari utilizzando, cioè, l’arte amatoria e delle moine tipiche di una donna poco acculturata, finiscono con l’identificarsi con la sua aspirazione, con il suo mondo illusorio.
Per questo, pur nella sua oziosità e nei suoi modi frivoli, Emma Bovary finisce per essere simpatica al lettore, il quale, scorrendo, nelle pagine del romanzo, la meschinità della sua storia, prova una sincera pietà.
Ritengo che sia molto bello che un letterato di sesso maschile abbia scelto, per raffigurare vizi e virtù nei quali alla fine, suo malgrado, si identifica, una donna e questo elemento si arricchisce di maggior valore se lo si riconduce alla realtà sociale ottocentesca, nella quale l’essere uomo e l’avere a disposizione un certo reddito costituivano gli unici prerequisiti per entrare a far parte della “società che conta”.
E’ un bellissimo libro e lo consiglio vivamente soprattutto agli uomini!