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La stramba mente di Dodgson
Un libricino piccolo, di quelli che si infilano tra i tomi doppi e pesanti, per riempire lo spazio: ecco come potrebbe apparire questo libro, una favola per bambini ultra eccitati dal pieno di zuccheri, che non riescono a dormire. Ora, voi adulti provate a leggerlo (se non l’avete ancora fatto) e poi ad avere il coraggio di metterlo in mano ad un bambino: prima di tutto non ci capirebbe granché, senza offesa per le menti infantili; in secondo luogo, come per la trilogia di Philip Pullman, dovrebbe essere d’obbligo scomporlo prima in parti più semplici, comprenderlo e solo dopo rimetterlo insieme, per poterlo narrare adeguatamente.
Nessuno esclude il fatto che un bambino possa leggerlo così, senza che glielo si spieghi, ma forse il gusto e la genialità della storia di Alice e anche dell’autore stesso verrebbero perse.
Già, perché credo fermamente che Lewis Carroll (pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson) sia stato un genio, a volte incompreso nella sua epoca: oltre ad essere scrittore, era anche un inventore, un matematico, un fotografo e un esperto di logica; quello che nella sua mente brillava, nel corpo risultava mancante: soffriva di problemi di emicrania (scambiata per epilessia), di udito, di vista, di balbuzie e fu accusato di pedofilia.
E nonostante tutto, e forse a maggior ragione a causa di questi suoi disagi, ebbe sempre un rapporto particolare con i bambini.
E una bambina è la protagonista del suo capolavoro: Alice, forse ispirata alla sua piccola amica Alice Liddell, che cade in una tana del coniglio e da quel momento in poi, in una narrazione tra sogno e realtà, vive delle rocambolesche avventure, a partire da quella fantastica boccetta con sù scritto “bevimi”.
Ovviamente non credo di avere la presunzione di poter analizzare correttamente un testo così ambiguo, contorto e onirico, ma vorrei solo sottolineare l’arguzia e la fantasia illimitata di Caroll: chi potrebbe mai dimenticare il Brucaliffo che fuma appollaiato sul suo fungo? A chi verrebbe mai in mente di mettere un personaggio del genere in un libro per bambini?
E il Bianconiglio? E l’inquietante sorriso dello Stregatto? Per non parlare del Cappellaio Matto e della Regina di cuori. Tutti questi personaggi potrebbero sembrare delle bizzarre parodie delle persone reali, ma il libro è pieno di allusioni, citazioni, proverbi, figure retoriche e giochi di parole, quindi non si dovrebbe dare niente per scontato.
Non so che pagherei per avere la capacità di leggere questo libro in lingua originale e capire tutti i suoi sottintesi e i riferimenti agli avvenimenti accaduti nella sua epoca.
E’ come se ogni pagina nascondesse dei segreti a cui non si riesce ad accedere e, per una persona che ama svelarli, è un tormento. E’ come se lui avesse scritto il libro non per noi lettori, ma solo per dar sfogo alla sua fantasia.
E in effetti, in una sua lettera inviata ad un amico nel 1891, che verrà battuta all’asta a marzo, lui spiega di aver odiato la celebrità e la fama che il libro gli aveva portato; odiava la pubblicità, il fatto che tutti sapessero del suo vero nome e che la gente, riconoscendolo, lo additasse per strada. Odiava a tal punto la notorietà da essersi quasi pentito di aver scritto la storia di Alice.
Ora, ammesso e non concesso che lui fosse asociale, psicopatico e un po’ matto, detto proprio sinceramente, preferirei che più persone fossero così, se la loro mente partorisse opere fantastiche come “Alice nel paese delle meraviglie”.
Leggetelo, leggetelo, leggetelo. E’ un obbligo. E poi raccontatelo ai bambini.
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