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La lezione di vita del Maestro del pessimismo
"Come può l'innatamente infelice Schopenhauer scrivere un saggio sulla felicità che sia minimamente convincente?"
Lasciando da parte gli inconcludenti pregiudizi che nascono già alla lettura del titolo, possiamo affermare come questo testo di Schopenhauer sia fondamentale per inquadrare appieno il suo pensiero filosofico.
In barba anche al lettore più romanticamente ottimista, egli esordisce scrivendo che il " 'vivere felici' può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente", e, non contento della premessa, nella parte conclusiva dichiara anche che "Com'è noto, alla domanda se la vita umana corrisponda, o possa corrispondere, a questo concetto di esistenza [cioè all'esistenza felice], la mia filosofia dà una risposta negativa".
'Eh, quindi i miei pregiudizi iniziali erano fondati. Perché allora dovrei leggerlo?", potrebbero pensare in molti. Giustamente.
La risposta ai vostri dubbi è presto data;
Sebbene Schopenhauer riferirà di una felicità relativa e catartica, che consiste nell'assenza di dolore, sfocerà in una "morale individuale e una saggezza di vita le cui regole e i cui consigli forniscono un efficace orientamento nel tempestoso mare dell'umana precarietà."
Senza soffermarci troppo nei particolari, altrimenti sarebbe un mero riassunto, il filosofo tedesco traccia le linee guida riguardo il vivere il più felicemente possibile senza grandi rinunce e grandi sforzi per vincere se stessi ('atteggiamento stoico'), e senza considerare gli altri solo come possibili mezzi per i propri scopi ('agire machiavellico').
Evolvendo appunto dall'epoché scettico e dal 'Principe' di Machiavelli, Schopenhauer ci propone cinquanta massime riguardo l'eudemonologia, ossia l'arte di essere felici;
Si tratta di concetti già assimilabili nell'ambiente scolastico come evitare i piaceri e l'invidia, svolgere diligentemente i propri doveri, perseguire l'assenza del dolore, essere giudiziosi, ai quali si alternano altri aspetti più 'impliciti' del suo pensiero, quali la centralità dei concetti di 'serenità' e 'ingegno' contro il dolore e la noia, il riconoscere il primato della Ragione, il vivere in funzione del presente e non del futuro, il lasciar emergere il proprio carattere, il proteggere la propria salute e l'avere un approccio fatalista nei confronti della vita.
Col procedere delle sue elucubrazioni, l'autore riuscirà anche a confutare il concetto kantiano di 'causalità' utilizzando il sillogismo aristotelico, fino a riservare l'ultima parte del testo per uno spaccato sull'Eudemonologia in senso stretto, in cui espone il paradosso del soggettivismo, il quale risulta fondamentale per vivere in pace con sé stessi, ma è altrettanto sfuggente rispetto al nostro controllo.
Fondamentale, infine, la differenza fra 'ciò che si è' e 'ciò che si ha', perché è il primo che determina il secondo e non viceversa.
Allo stesso modo, il giudizio degli altri è tenuto in gran considerazione dal mondo, ma in realtà non è altro che una vanità arida, superflua ed inessenziale al singolo individuo che persegue la felicità.
In conclusione, l'autore dichiara che "Alla considerazione, cioè al buon nome, debbono aspirare tutti; al rango debbono aspirare solo coloro che servono lo Stato; alla fama in senso superiore dovrebbero aspirare solo pochissimi".
Un saggio che risulta essere vera e propria trasposizione filosofica del laissez-faire economico; lo consiglio a tutti.
Un ringraziamento particolare per Flavio Insinna, che mi ha permesso di conoscere questo testo citando, in un suo programma televisivo, la seguente riflessione:
"Guardando tutto ciò che non abbiamo, siamo soliti pensare: 'E se fosse mio?', e così facendo ne avvertiamo l'immediata privazione. Viceversa, nel caso di ciò che possediamo, dovremmo pensare spesso: E se lo perdessi?"
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"Fama di loro il mondo essere non lassa
Miseria e giustizia li sdegna
non ti curar di loro ma guarda e passa"
Ecco la felicità. Ignorando la gente che vive solo per commentare o darti fastidio.
Ad esempio, i quattro versi che citi tu sarebbero ricollegabili alla filosofia del linguaggio (vedi Wittgenstein) e al pensiero in antitesi che possiamo riassumere fra Hobbes ed il darwinismo sociale, ma ne verrebbe fuori una riflessione più lunga di una tesi di laurea :D
Perciò, 'accontentiamoci' dei versi 49-51 del Canto III dell'Inferno che tu hai citato :)
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