Dettagli Recensione
La ripetuta imperfezione dell' on/off
Siddharta, malgrado la notorietà e la moda, non è da considerarsi allo stesso livello delle altre opere di quel grande autore che risponde al nome di Hermann Hesse e la ragione essenzialmente è solo una: la ripetitività. La ripetitività del messaggio che ci vuole trasmettere lo scrittore che rendere tremendamente monotona tutta l’opera.
Il protagonista del libro, è un ragazzo in cerca della sua strada o meglio della strada principale, la via verso l'illuminazione, il nirvana, quello stato cioè di elezione spirituale che è il fine ultimo di gran parte delle filosofie e delle religioni note ai più e che si dovrebbe raggiungere più per intuizione che per conoscenza ma che di fatto si dice inarrivabile senza osservare (e dunque averne conoscenza!) tutte le leggi, i precetti e le regole dettate (talvolta persino imposte) dalle sopracitate filosofie, religioni, culti o scuole di pensiero che dir si voglia. Uno stato insomma in cui si dovrebbe raggiungere la totale (o massima possibile) consapevolezza ed elevarsi al pari di divinità tra gli uomini per insegnar, agli uomini, i restanti non ancora illuminati, il vero, il giusto e mostrar così loro la via.
Certo vien da considerare che, una volta mostrata, normalmente andrebbe compresa e seguita, e se si mostra, se c’è uno che te la indica, non è che sia così necessaria l’intuizione, ma non divaghiamo.
Il libro di per se dunque non è altro che la biografia di Siddharta, la sua vita, le tecniche che impara, che utilizza, i singoli percorsi che intraprende e le sue continue peregrinazioni verso quell'obbiettivo supremo che, nella fattispecie, è lo stato di Buddha. Le strade sono tante, alcune passano per la totale astensione/astinenza, altre per la totale conoscenza, alcune per la mortificazione del corpo come specchio dell'io, altre per l'appagamento completo dei propri bisogni, della propria volontà. Siddharta le prova tutte, e tutte si rivelano corrette e tutte si rivelano inutili. Alla fine le abbandona con negli occhi sempre il miraggio dell'obbiettivo senza mai riuscire a raggiungerlo finché, ormai vecchio e travolto dalla vita reale, comprende la via, anzi no… la intuisce!, capisce i suoi errori e scopre che non c'è nulla da scoprire, nulla a cui tendere, poiché è già tutto lì dove si trova, dove è sempre stato, e scopre che ha passato anni a rinunciare al reale per trovare… il reale e questa realtà, "antropomorfizzata" nel fiume presso cui si stabilisce, non è nient’altro che quella di una vita normale, semplice, comune... appunto reale.
Dunque una vita di ricerca sprecata? No, ci dice Hesse, poiché comunque, come insegna il fiume (che a quanto pare la sa lunga) a Siddharta, anche se la sua è stata una vita di ricerca, più mortificata che appagata, è pur sempre stata una vita, un viaggio, un percorso e come tale non è sprecata ma… be, vissuta. Del resto che altro si può fare con una vita se non viverla?!
La ricerca della realtà nella realtà, lungo una vita vissuta... questo è il messaggio del libro, se vogliamo la sua sintesi ed è un messaggio che potrebbe apparire fin troppo ovvio, lapalissiano, ma a ben cercare, a ben vedere (sempre se vogliamo) potrebbe nascondere una profondità non così scontata, la stessa profondità che talvolta può soggiacere al detto “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.” Poiché è vero che la vita la si vive e cercare la realtà nella realtà sembra un inutile perdita di tempo, ma non è tanto la ricerca, l’azione del vivere, quanto quella del rendersene conto, del singolo soggetto pensante che in una frazione di secondo ha quella “benedetta” illuminazione, quell’epifania che aveva inutilmente cercato per anni e che gli fa dire “io sto vivendo e sono reale perché vivo.” Cosa ne derivi da questo… be è tutto da vedere, alcuni potrebbero diventare come si diceva dei santi, delle divinità in terra e trasmettere questo messaggio agli altri uomini, altri invece potrebbero semplicemente guardarsi allo specchio e maledire la serata precedente durante la quale avevano sicuramente bevuto troppo, altri infine presi dalla caoticità della sopracitata realtà potrebbero semplicemente scordarsene al primo trillo del telefono o al primo “regalino” del volatile di turno sulla macchina appena lavata; questione di personalità, di gusti, di predisposizione, ma il messaggio del libro comunque resta e nella suo ambito particolare rimane importante. Dunque perché definirlo ripetitivo, perché ridondante, e al punto da rendere monotono l’intera opera, tanto più che si tratta di un libretto che pubblicato in un formato normale conterebbe si e no un centinaio di pagine?
Poiché ogni tecnica adottata dal protagonista e ogni fase della sua vita è estremamente somigliante alla precedente, alla successiva e ad ogni altra, e se gli episodi a contorno di queste variano e sono marginalmente differenti, il messaggio, il significato, lo sforzo, e il risultato finale sono sempre gli stessi. Da qui la noia.
Certo qualcuno potrebbe ribattere che il messaggio che reca questo volumetto è talmente importante, talmente realistico e pregno di quella tanto agognata realtà da trascendere le futili critiche che si possono muovere al testo…
Va bene, ma se proprio si vuole mettere i puntini sulle i a ben vedere è sbagliato anche (se non “persino”) l’approccio di Hesse all’evoluzione del personaggio: è vero, è realistico, chiunque intraprenda un cammino simile a quello di Siddharta si ritroverà più volte a sbattere il naso contro dei vicoli ciechi che lasciano solo il rimpianto del tempo sprecato e mortificano il pellegrino con soltanto l'aroma dell'obbiettivo supremo, sono i cocci aguzzi di bottiglia del miraggio di Montale, ma è anche vero che ad ogni tentativo fallito corrisponde un accrescimento personale, e raramente vi è una chiusura totale al periodo, alla fase e alla tecnica precedenti. Al contrario queste alle volte sono una spinta, un coadiuvante, uno stimolo ulteriore a concentrare le forze verso il raggiungimento del proprio scopo. Ogni fase nella realtà, nella vita vera di ogni giorno, (poiché il messaggio di Siddharta vuole essere universale e dunque applicabile ad ogni contesto e dunque raffrontabile persino con l’attuale) è concatenata e i passaggi da una fase all'altra sono importanti quanto le fasi stesse. In Siddharta no, complice anche la disposizione dei capitoli e la loro netta divisione, sembra di assistere ad un lungo elenco di tentativi andati a vuoto e non ad una vita vissuta. Tanti episodi, diversi per dinamiche ma simili per struttura: Siddharta non si trova bene - abbandona la vita precedente – prova una nuova via – sembra funzionare – non funziona – delusione – abbandono e così via fino al termine del libro. E l’evoluzione dell’uomo, l’evoluzione del singolo essere lungo tutta la sua vita in virtù delle esperienze positive e negative si perde, scompare, s’annulla.
Se fosse esistito veramente questo Siddharta non sarebbe stato un uomo che aspira all’immortalità, alla totalità ecc., sarebbe stato un computer, un meccanismo che ad ogni ingrippo si resetta automaticamente e mal che vada si spegne e si riavvia, on/off e di nuovo che ricomincia da capo a cercare la via, ad illudersi, a commettere degli errori, ad impallarsi; ma un essere umano non è così, un uomo ha ricordi, un uomo ha esperienza, possibile che lui non tragga nulla da quelli, possibile che lui non tragga nulla da quella?
Ma non è tanto questo, potrebbe riabbattere ancora qualcuno, è il fine, è l’uomo che è strenuamente volto al perseguimento del suo scopo e il libro ne è la diretta conseguenza.
Vero ed è altrettanto vero che quando ci si pone un obbiettivo si tende a trascurare il contorno, il “tutto il resto”, ma se si è compreso il messaggio del libro si dovrebbe capire che è proprio quel contorno il più delle volte ciò che conta di più, è quel che accade nella vita di ognuno ai margini della sua focalizzata visione il più delle volte ad essere importante perché pur essendo ai margini si interseca costantemente con la vita ed in quanto inaspettato talvolta dona piaceri, talvolta delusioni ma sempre esperienze, sempre evoluzione.
Dov’è l’evoluzione in Siddharta, dov’è il contorno alla sua vita? C’è ma è appannato è in secondo piano, è inconsistente. Hesse è qui che compie il suo errore: non si rende conto che scrivendo così, crea sì un personaggio, crea si un anima alla ricerca di qualcosa, ma è un personaggio inutile, una anima vuota, poiché priva di connotati, priva di involucro esterno, priva di ogni singolo aspetto che lo rende, vivo, umano, normale.
E questa considerazione vale per Siddharta uomo quanto per Siddharta libro, poiché quando si legge il libro più famoso di uno dei più grandi scrittori della storia non ci si aspetta che solo il significato del libro, il suo messaggio e la vicenda siano all’altezza della fama, ma ci si aspetta che lo sia anche la confezione e lo stile, altrimenti ogni più impercettibile sbavatura viene rilevata come una stonatura e tanto più il tema centrale è elevato ed aulico tanto più l’imperfezione, vuoi di forma, vuoi di contenuti vuoi, ancora una volta di contorno, risulta stridente.
A onor del vero parlando puramente di forma non si può non ammettere che lo stile con cui è scritto questo libro inizialmente non sia accattivante, esso infatti è molto diverso rispetto a quello degli altri libri dell’autore, è di fatto uno stile che rimanda a quello dei testi antichi, sacri, ed è uno stile quanto mai appropriato considerata la vicenda in essere. C’è da notare anche che oggi giorno sono pochi gli scrittori che possono vantare uno stile personale e chi riesce, come qui Hermann Hesse, addirittura a trasformarlo a seconda del genere, pur mantenendo intatta la propria essenza non può che essere considerato un maestro. E sempre a onor del vero, non è vero (scusate il gioco di parole) quello che si sente dire in giro da taluni lettori che i contenuti sono difficili, i discorsi incomprensibili, la logica astrusa ecc. ecc. Forse lo erano per l’epoca, per il rigido enviroment cultural – popolare in cui inizialmente s’era inserito questo testo, ma di fatto i temi trattati per quanto aulici sono spiegati con chiarezza e semplicità e sono veramente alla portata di tutti; ne è prova che, al mutare del sopracitato ambiente sociale, il testo venne adottato quasi a manifesto di propaganda di certi neo- nati movimenti volti alla riscoperta (o scoperta) delle filosofie orientali. Tuttavia tanto il “quanto mai appropriato stile” con cui è stato plasmato Siddharta, tanto la semplicità dei contenuti, alla prima ripetizione, alla prima scena replicata, tendono a mimetizzarsi tra i paragrafi e i capitoli mentre il lettore, tra uno sbadiglio e l’altro, conta le pagine mancanti all’ovvio finale in cui certamente (poiché si capisce fin da subito che sarà così) Siddharta scoprirà la via una volta per tutte e non romperà più le scatole con i suoi mal riusciti tentativi.
Mi rendo conto con queste ultime considerazioni di essermi lasciato prendere troppo la mano con le critiche, in fondo si sta parlando sempre di un libro che ha fatto la storia della letteratura ma è veramente avvilente trovare un testo che per chiarezza, cadenza, solennità e talvolta anche contenuti (particolarmente interessante il piano sociologico che accomuna le fatiche del figlio del Bramino ai problemi dell’uomo moderno, la sua costante ricerca e il suo costante sentimento di travagliata inadeguatezza, ai valori imposti dalla società contemporanea.) potrebbe essere annoverato tra i più grandi e per colpa di una patologica mancanza di inventiva, anche se sembrerebbe quasi di voglia, viene classificato da alcuni come noioso, banale, astruso e desueto. E scoprire per di più che per certi aspetti, quegli “alcuni” hanno ragione!
Sarebbe bastata un po’ d’inventiva in più, sarebbe bastata un po’ di logica in più… Ma nella realtà non c’è mai niente di perfetto e la delusione che si prova a trovare l’imperfezione in un testo così famoso è quanto mai fonte di esperienza per ogni lettore. Peccato solo che Siddharta, l’esperienza, non sappia cosa sia…
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