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La morte a Venezia
Forze telluriche, primordiali, genetiche ribollono nella laguna veneziana, spazio fisico e dimensione interiore, assediata da esalazioni mefitiche, rifugio di demoni ctoni, irruenti, invertiti eppure attraenti. Epifanie disgustosamente magnetiche scandiscono il tempo della dissoluzione, materia che fagocita la forma. Passioni e istinti atavici cui l’intelletto, logorato e intransigente, si arrende. Tensioni distruttive, esplosive balenano improvvise a smuovere l’indolenza sempre più accentuato di una città flagellata dal colera.
Questa “La morte a Venezia”, apparizione dopo apparizione, simbolo dopo simbolo, resa dopo resa, bellezza su bellezza in una vertigine inarrestabile il cui approdo è un parossismo violento, avvinghiante e terribile, un abisso di desiderio inesprimibile soffocato da rigido controllo dell’intelletto. Dionisiaco e apollineo alla resa dei conti.
Esile la trama: un vecchio scrittore dalla fama consolidata, vinto dal desiderio di viaggiare, dopo una vita “secondo ragione”, si reca a Venezia, dove s’innamora di un quattordicenne polacco, Tadzio, da cui è avvinto, in una città dalla bellezza sfatta, matura ed indigesta, fermentata. Stile convulso, ipnotico, discesa nell’inferno della coscienza, autopsia dell’anima.
Un amore omossessuale, vero, elemento che non si può tacere: amore fisico, carnale, mai concretizzato, amore divino, supremo, contemplazione estatica della bellezza, ovvero del bene. Tadzio come mediatore tra il mondo terreno e quello ideale, “psicagogo”, come lo definirebbe Platone.
“La morte a Venezia” è essenzialmente una catarsi invertita: non purificazione dalle passioni, ma dalla ragione. Nel personaggio centrale dell’opera, Gustav Aschenbach, si realizza l’antinomia tra vita ed arte, quest’ultima intesa come frutto della malattia, del malessere. Vita in bilico tra passione ed intelletto, unione indissolubile di materia (le pulsioni istintive) e forma (la ragione, ciò che plasma). Sostanzialità umana che non si può negare, e che sarebbe assurdo rifiutare. Se Aschenbach è la razionalità, Tadzio è il sentimento, tenuto a bada per tutta la vita dallo scrittore, e infine emerso nello sguardo candido di un fanciullo, goccia che la ragione non riesce a trattenere. E’ l’innamoramento, pederastico, abominevole, eppure irrinunciabile, capace di annichilire l’ultimo spiraglio di razionalità, cancellato da un barbiere che addolcisce le rughe della vecchia, colora il bianco dei capelli, trasforma l’incorruttibile in totalmente depravato. Una passione per anni tenuta a bada, soppressa da una mente ormai logora: è il dionisiaco, l’estasi, il piacere divino che erompe, consuma se stesso, brucia la vita nell’ardore inestinguibile di un amore alla disperata ricerca di uno sfogo, di liberazione. E se il narcisismo dello scrittore, o l’ultimo bagliore di reticenza lo trattengono, l’unico modo, l’unico spazio della catarsi è il sogno, un orgia inquietante, disgustante, grida infernali, ultimo preludio della fine.
Mann, omosessuale dichiarato, eppure padre di sei figli, accoglie l’esperienza biografica, l’estremizza (o forse la rappresenta), ammiccando alla filosofia, alla psicologia freudiana, con un pathos, un’acutezza capaci di penetrare nel lettore, nella sublime ascesa alla contemplazione del bene. Eppure ciò che resta è l’inquietudine, l’insoddisfazione, una sensazione asfissiante che toglie il sonno, un vuoto che è in definitiva il mistero dell’esistenza. Tutto si trasforma nell’opera di Mann, camaleontica nella descrizione del paesaggio Veneziano in disfacimento, dinamica nel tratteggiare le sensazioni del protagonista, alla ricerca di un modo per riscattare una vita, invero monotona, il cui peso si fa definitivamente opprimente.
Sullo sfondo una Germania vicina al Terzo reich, destinata a veder infrangersi quel modello si superuomo wagneriano o nietzschiano, un uomo integerrimo, capace di incarnare in sé i valori della moderatezza, dell’intelligenza, della penetrazione critica e della morigeratezza, di cui il protagonista della Morte a Venezia è simbolo evidente. L definitiva presa di coscienza di una duplice natura che è cifra distintiva dell’uomo: apollineo e dionisiaco devono necessariamente convivere nella dimensione della contemplazione della bellezza suprema, o inevitabilmente destinata ad un fallimento, la cui esplicitazione non può non essere la morte.
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Commenti
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Ben tornato, in formissima ;-)
@petra: questa recensione qua mi è costata tanta, tanta, tanta fatica.. penso ormai di aver individuato un mio genere :-)
@June: considerando le splendide recensioni che scrivi, è un grande complimento:-)
@CUB: mettiamola così : il tempo di studiare, così come il tempo di dormire, restringono il tempo di leggere :-)
@Alessandro: Un altro grazie....
@Alessia: ti pare che me ne vado senza salutare? ahahah
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