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Il viaggio non è il mezzo, ma lo scopo....
Qualcuno disse "non esiste viaggio più affascinante di quello alla scoperta di se stessi", eppure pensare a "Siddharta" come ad un "percorso interiore" dentro la propria storia, come all'esasperazione del soggettivismo individuale dove latita la presenza del "divino", sembra estremamente riduttivo.
Infatti quello del protagonista non è un semplice errare nello spazio, è un cammino spirituale, scandito da una prosa dell'interiorità, contornato dall'incanto e dall'evanescenza di luoghi irreali,impalbabili fatti di fiumi, boschi, giardini, di risaie, di giacigli di spine, di preziosi tappeti,di sacre abluzioni, di formule magiche, di penitenti, santi, di predicatori, di monaci,di ricchi mercanti,di cortigiane, di contadini e di mendicanti.
Il viaggio è un esperienza iniziatica che un giovane Siddharta affronta in totale solitudine, una lenta ed inesorabile evoluzione spirituale che come dicevo, non si traduce in un inno all'individualismo perchè il protagonista non nega mai a se stesso la possibilità di incontrare l'Assoluto (quello che noi occidentali chiamiamo "Dio"), di entrare in contatto con una realtà che va oltre quella terrena e dalla quale dipende l'esistenza stessa.
Einstein affermava : "qual'è il senso della nostra esistenza? Il saper rispondere a siffatta domanda significa avere sentimenti religiosi" e in effetti vi è un aspirazione comune in ogni percorso spirituale: conoscere e trovare Dio per capire il senso della vita.
Lo stesso Sant'Agostino,nelle "Confessioni", vive lo stesso dramma del protagonista indiano, ovvero cerca il suo Dio nell'intimità della propria coscienza, in bilico tra l' inafferabile perfezione morale e le attrazioni mondane-terrene, però per il Vescovo di Ippona, l'uomo non è mai la misura ultima della Verità, perchè è Dio a narrargli il senso dell'esistenza ("Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in te").
Parlando di quest'opera dunque non si può tralasciare l'aspetto "religioso-filosofico" che pure esiste.
Per questo motivo, la scrittura di H. Hesse è simbolica, ricca di suggestioni "mitiche" e per il lettore occidentale, è veramente difficile comprendere fino in fondo il significato che l'immagine veicola.
Questo continuo interscambio fra narrazione (è il viaggio che rende questo breve romanzo un opera essenzialmente narrativa) e simbolismo religioso partorisce una complicata esegesi allegorica e figurale che difficilmente può essere interpretata correttamente se non si conosce la cultura indo-buddista.
Un esempio su tutti: di fronte all'immagine del fiume-oracolo, che istruisce il barcaiolo Vasudeva prima e Siddharta poi, non si può negare lo sforzo intellettivo che costringe il lettore occidentale a decifrare un messaggio latente che in realtà risuona solo come una bizzarra elucubrazione orientaleggiante.
Personalmente, quando ho letto questo passaggio, ripensavo al pastore errante di Leopardi che si ritrovò "a ragionar" con la luna su se stesso ("ed io che sono?") e sul proprio destino ma con una differenza: se il pastore esprime tutta la sua inquietudine fatta di domande senza risposte, al barcaiolo le correnti del fiume parlano.
Solo attraverso un attenta riflessione, ho capito che le acque di quel fiume sono caricate di un profondo sovrasenso simbolico: lo scorrere delle correnti rappresenta la vita, la musica del divenire, per questo Siddharta non può lasciarsi annegare tra quelle acque. Il fiume è simbolo di vita, diventa un ponte che unisce la vecchia e la nuova esistenza di Siddharta, che inaspettatamente gli riconsegna il passato (Kamala) e che gli regala il futuro (suo figlio).
Assorbendo il suono del fiume il protagonista, ormai in là con gli anni, impara ad amare il mondo e ad appartenergli senza confrontarlo con un "mondo perfetto" che in realtà è immaginario, inafferrabile.
Non solo il venerato fiume, ma "ogni brezza, ogni nuovola, ogni uccello, ogni insetto è altrettanto divino e può essere altrettanto saggio e istruttivo", questo è ciò che Siddharta apprende dopo il lungo peregrinare.
Se vogliamo pensare a quest'opera come ad un apologo, il vero insegnamento morale che H.Hesse ha (almeno a me) trasmesso è che bisogna attingere la saggezza non nei libri ma nella vita, attraverso l'esperienza perchè è possibile leggere il " libro del mondo" solo decifrando e studiandone le lettere e non adottando acriticamente " un significato congetturato in precedenza".
Nella vita di ogni uomo, Dio (l'Assoluto) parla; la sua voce risuona nella coscienza e non si fa udire finchè non le si da spazio: Siddharta stesso impara ad ascoltare quella voce quando preferisce una vita randagia alle comodità della casa paterna, quando, come il più umile dei discepoli, apprende dagli asceti l'esercizio del digiuno o la sospensione del respiro, quando si lascia inghiottire dalla città e conosce, attraverso la cortigiana Kamala, il piacere della carne, quando attraverso il gioco d'azzardo si scopre avaro, quando ha il coraggio di spogliarsi dei suoi abiti da signore e delle scarpe da "uomo raffinato" per indossare un vecchio grembiule, per diventare il garzone del barcaiolo ed imparare ad ascoltare il fiume sacro, quando attraverso suo figlio rivede se stesso e la crudeltà con cui un tempo aveva abbandonato suo padre, quando con lo spirito soddisfatto, l'anima tranquilla e con il cuore placato incontra Govinda e a lui "insegna" la beatitudine.
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Il viaggio non è il mezzo, ma lo scopo....
Per farti ricredere di questa affermazione leggi il Cammino di Santiago di Coelho è simile come argomentazione a questo libro, ma l'ho trovato molto più avvincente...