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La mite di Fëdor Dostoevskij
Scrive Ernst Bloch che l'esperienza dell'attualità non è uguale per tutti. Pare che sia stata l'attualità a dettare a Dostoevskij la storia narrata nella Mite. Grossman, nel ricostruire la genesi del racconto, ricorda che lo scrittore lo aveva progettato nel 1869 e ripreso 7 anni dopo nel Diario di uno scrittore, quando rimase colpito da una serie di suicidi verificatisi in quell'epoca, ma uno in particolare lo scosse. Una giovane sarta trasferitasi da Mosca a Pietroburgo, da sola, vivendo forse un dramma personale, si butta dall'abbaino di una casa di sei piani stringendo sul petto un'immagine della Madonna. Dostoevskij annota che questa creatura mite tormenterà il suo spirito. Da qui prende l'abbrivio della storia; la ragazza giace da poche ore sul suo letto di morte e il marito un usuraio, ex ufficiale, narra la sua "versione" dei fatti. In una sorta di monologo delirante e quasi annotando i pensieri che invadono la sua mente, il marito, a ritroso, ripercorre l'incontro e il tempo vissuto con la moglie rivolgendosi ad ipotetici ascoltatori come ad una rappresentazione drammatica. All'inizio una biondina esile e di media statura veniva ad impegnare degli oggetti, poi, in una situazione particolare, egli la nota e così conosce la sua misera vita; orfana di entrambi i genitori, sotto la tirannia di due zie e sotto la minaccia di un matrimonio con un mercante molto più vecchio di lei, sedicenne, la sposa lui, comperandola dietro un somma di denaro che offre alle sordide parenti. Il matrimonio, dopo un iniziale entusiasmo della giovane donna, si frantuma davanti ai silenzi di lui, al suo passato oscuro, aver forzatamente abbandonato l'esercito per una calunnia. La malattia della moglie prima, la rinata passione per lei e dopo il suicidio, aprono una serie di interrogativi in cui è difficile dipanare la verità. Perché la scelta di una morte così tragica? Incapacità di amare? Di sottrarsi ad un uomo ormai per lei estraneo? In questi rimandi di domande senza risposte, in un farneticare di colpe ammesse e poi ritratte, in un delirio misto di dolore e rimpianto, l'io narrante rimane impotente e disperatamente solo alla morte della giovane: “Quando ormai la porteranno via, io che cosa farò”? Dinanzi alla morte, in special modo, “scelta” si presenta il mistero di chi ci abbandona e il dolore di chi rimane (sia pure temporaneamente). Dostoevskij, nella nota dell'autore afferma di offrire ai lettori un racconto “fantastico”, sebbene lo consideri reale. Chiarisce che lo scritto non è un racconto nè un memoriale in quanto il protagonista non racconta, ma si racconta la vicenda, parla da solo, si contraddice sia sul piano della logica sia dei sentimenti. Ora si discolpa, ora accusa la moglie ora si perde in spiegazioni avulse dai fatti. Pensieri incoerenti si susseguono alla ricerca di una verità difficile da disvelare in maniera chiara e definita. Lo sviluppo del fatto si protrae per alcune ore e in maniera sconnessa rivolgendosi a se stesso e anche ad un immaginario ascoltatore, una specie di giudice. Come se proprio accadesse nella realtà e tutto venisse annotato e trascritto da uno stenografo certo in modo più conciso e scarno, soprattutto sul piano psicologico. E' questo che caratterizza il fantastico dell'opera, l'inverosimiglianza di chi mentre vive una situazione di dolore prenda quasi appunti mentre soffre e si dispera. Dei critici hanno definito questo stile “stenografico” riferire minutamente, nei dettagli, cercare di dare coerenza al flusso di pensieri che incoerenti sono. Il tema è quello del dramma di un uomo a cui il tempo per la verità è ormai sfuggito: “ Ho ritardato non più di cinque minuti” e la tragicità del gesto estremo della moglie dilania la sua mente e gli pone un interrogativo non più solvibile. Questo breve racconto, complesso nelle sue trame psicologiche, ha molteplici contrapposizioni bifronti: luogo reale/mentale, tempo cronologico/flusso della memoria, riflessione/azione, psiche femminile/maschile…. Il grande scrittore penetra negli animi umani e ne rappresenta le sconcertanti ambivalenze nell’angosciante ricerca d’identità dell’io che stigmatizza la nostra feroce pena dell’esistere.
La concessione della fantasia eleva la storia dalla sua realtà contingente e ne contraddistingue la sua grandezza artistica.