Se questo è un uomo
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Uno studio pacato sull’animo umano
Una straordinaria indagine sulla psicologia umana. Ciò rende Se questo è un uomo un memoriale differente rispetto agli altri. Primo Levi non ha voluto aggiungere nulla di nuovo sulla crudeltà dei lager nazisti, non ha voluto formulare nuovi capi d’accusa nei confronti dei suoi torturatori. Ha, invece, voluto andare più a fondo per provare a capire le cause che hanno condotto l’essere umano ad un esperimento sociale tanto terribile come quello dei campi di concentramento e di sterminio. L’autore, perciò, vuole condurre uno studio pacato, privo di odio, sull’animo umano. Ne esce un quadro ricco di spunti. Lo stile è lineare ed è completamente assente la retorica. Come dice in una recensione del 1948 Italo Calvino (Se questo è un uomo era uscito nel 1947 nella collana di saggi della casa editrice Da Silva di Torino), nella scrittura di Levi ci sono: la potenza delle immagini, l’acutezza psicologica e la sobrietà. I fatti narrati, come evidenzia lo stesso Levi, sono tutti reali e sono stati vissuti in prima persona da Levi presso il campo di lavoro di Monowitz, vicino ad Auschwitz. Levi è sopravvissuto all’orrore nazista. È stato salvato dai suoi studi da chimico, da una buona dose di fortuna, come egli stesso ha sempre ammesso, e dall’incontro con un civile di nome Lorenzo, che lo ha aiutato porgendogli alcuni beni di prima necessità e ricordandogli sempre che «era ancora un uomo», nonostante tutto. I capitoli a partire dal 1958 (prima edizione targata Einaudi, che aveva rifiutato il libro appena dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale) sono 17. È stato, difatti, inserito tra Sul fondo e Ka-Be il capitolo Iniziazione. In questo modo I sommersi e i salvati è divenuto il nono capitolo, quello centrale. È questo il capitolo più importante nella riflessione di Levi, dove evidenzia che nel lager si perde il confine tra bene e male. Il lager come una gigantesca esperienza biologica e sociale, perché vengono rinchiusi in uno stesso posto migliaia di individui costretti ad una vita costante, controllabile, identica per tutti, quindi perfetta per una sperimentazione. Levi in questo capitolo descrive la legge del lager, che riassume con le seguenti parole: «a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto». E poi parla dei prominenti ebrei, che sono un tipico prodotto del lager. Sono schiavi che ricevono una posizione privilegiata, un certo agio e una buona possibilità di sopravvivere. Per quello che ricevono, però, tradiscono la solidarietà dei compagni, sono sottratti dalla legge comune, sono odiosi e odiati e diventano con il tempo sempre più feroci, crudeli e tirannici nei confronti degli altri. E ancora nel capitolo I sommersi e i salvati ci porta quattro significativi esempi di gente comune che egli ha incontrato e osservato nel lager. Gli ultimi due meritano un’attenzione particolare: Elias, fortissimo fisicamente, ed Henri. Il primo ci dice Levi è un ladro, ha l’istintiva astuzia degli animali. È felice nel lager, perché fuori sarebbe un criminale o un pazzo mentre dentro trionfa e prospera. Il secondo, invece, sopravvive grazie alla pietà che gli serve per ampliare le sue conoscenze e amicizie; Levi ci spiega che Henri cattura i soggetti, li impietosisce e inizia a far rendere questa sua conoscenza. Ma non c’è soltanto il capitolo nono. In quello successivo, ad esempio, Levi cerca di restituirci il sentimento provato dai nazisti nei confronti degli schiavi del lager. Lo fa con lo sguardo che Pannwitz, colui il quale è chiamato a selezionare chi potrà entrare nel commando chimico, rivolge a lui: viene descritto come lo sguardo che si rivolge ad esseri di natura diversa. Sempre nel capitolo Esame di chimica il capo del commando chimico, un criminale di nome Alex, si pulisce la mano sulle vesti di Levi «senza scherno e senza odio». Un’altra scena da cogliere e su cui riflettere è quella che conclude il capitolo Ottobre 1944, il quale descrive la terribile selezione avvenuta in quel mese nel lager. Il protagonista è Kuhn che ringrazia Dio per non essere stato selezionato, ma al suo fianco ha Beppo che invece è stato appena condannato a morire. Levi conclude: «Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn». Se Lorenzo ricorda, come detto, a Levi che appartiene ancora al genere umano, invece sarà nell’ultimo capitolo, Storia di 10 giorni, che Levi riscoprirà l’umanità, quando Towarowski, uno dei pochi rimasti con lui nel campo quando avviene l’evacuazione nel gennaio 1945, propone di dare un pezzo di pane proprio a Levi, a Charles e ad Arthur che si erano spesi per lui e per gli altri presenti nello stanzone. A questo gesto Levi pensa: «Il lager è morto, gli haftilinge (i detenuti) stanno lentamente tornando uomini».
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SENZA MEMORIA NON SIAMO NIENTE
Chi meglio di un uomo che ha vissuto l’Olocausto può raccontare le atrocità perpetrate da quello che un uomo non lo è mai stato.
Primo Levi racconta nella sua più grande franchezza la sua esperienza terribile nei campi di concentramento di Auschwitz, dove il rispetto non esiste, la dignità viene calpestata, la libertà privata, il dolore sbeffeggiato e l’anima strappata.
Una biografia che è una testimonianza di ciò che è accaduto, vissuto in prima persona da un giovane e forte ebreo che l’unica colpa che aveva era di essere ancora vivo, insieme ai suoi compagni come lui con cui aveva condiviso dolori, speranze, preghiere e paura, il racconto del mito della razza che creò il più grande massacro di tutti i tempi, dove uomini, donne e bambini vennero svuotati della loro essenza stessa si esseri umani e resi numeri, codici, come se fossero oggetti da smistare, spostare, buttare, scartare senza pietà. La speranza persevera nei piccoli brandelli di lucidità di alcuni prigionieri più deboli ma in quelli in cui la ragione è ancora viva, dentro lo sanno che la speranza nei campi di concentramento è la prima a morire.
In fondo la pietà non esiste in quell'inferno, ma nonostante tutto, Primo Levi sopravvive, La guerra è finita e lui è vivo ma non può tacere su quello che è accaduto, perciò decide di raccontare la sua esperienza in un libro che è fonte inestimabile di storia per comprendere che la memoria è la chiave di tutto: se ci dimentichiamo di ciò che è stato e di come è accaduto, perdiamo l’intelligenza di capire che tutto quello scempio non deve più accadere.
Non è un libro da recensire come tutti gli altri, non è possibile giudicare come una persona esprime i suoi pensieri, i suoi sentimenti e le sue emozioni ma è sicuramente una Testimonianza da leggere da chiunque almeno una volta nella vita.
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Nemmeno questo è un uomo
Questo non è un romanzo, e colui che lo ha scritto non è uno scrittore, nella vita faceva tutt'altro, era un chimico; e però per i casi della vita, e di quelli più tragici, è divenuto suo malgrado un testo essenziale per la crescita intellettiva di ognuno di noi.
Un libro che non può mancare nelle competenze dei protagonisti del vivere civile, meglio ancora quando più sono giovani, facilmente ricettivi ad assorbire quanto rilevato, e sopratutto a non dimenticarlo.
Perché ricordare, mai come in questo caso, è necessario, direi indispensabile.
Primo Levi non è un romanziere, e perciò la sua scrittura non è fluida, armonica, articolata; non si perde in iperbole o allegorie del buon scrivere, non è uno scrittore in senso classico, ha uno stile asciutto, scarno, freddamente cronologico, a tratti nervoso.
Eppure descrive bene quello che è essenziale riportare, quello che desidera mostrare all'umanità intera, e così facendo emoziona, coinvolge, compartecipa i lettori nelle vicende che descrive, proprio perché non è uno scrittore, ma è molto di più: un testimone.
Direi una rarità, un diretto testimone, molto attendibile, un cronista in presa diretta, un’Oriana Fallaci presente in prima linea, sul posto degli orrori.
Una mente lucida e scientifica, in grado di riportare le vicende vissute, con sgomento ma attendibilità, attenendosi esclusivamente ai fatti crudi che lo vedono protagonista, anche se sono fatti di orrore allo stato primordiale.
Il tutto filtrato dalla sua sensibilità di comune mortale, per niente una persona fuori dall'ordinario.
Primo Levi è stato un intellettuale che ha vissuto sulla propria pelle, assai di più nella sua mente e nel suo animo lacerato, il più vile sterminio di popolo, voluto dalla follia nazista, recluso in un campo di concentramento tedesco durante gli ultimi tempi prima della caduta del Reich.
E per fortuna sua, perché come da lui stesso ammesso, fosse durato ancora un poco la sua prigionia, non sarebbe sopravvissuto per raccontarla, tanto indicibili erano le condizioni di vita in cui erano costretti non per sopravvivere, ma per trascinarsi fino all'epilogo inevitabile.
Fin dall'inizio Levi comprende di trovarsi letteralmente in un Inferno dantesco, ma senza niente di letterario o di allegorico: solo fame, botte, umiliazioni fisiche e morali, demolizione completa dei corpi e degli spiriti secondo un ordine logico, assurdo, irreprensibile e irrevocabile, banale nella sua essenza come sempre sa essere banale il Male.
La stessa ignobile, lurida, beffarda, bugiarda, laida insegna all'ingresso del campo di sterminio, o di sterminio tramite lavoro estenuante fino a consumare le persone, come vogliamo definirlo, quella tristemente nota che recita “Il lavoro rende liberi”, redatta nella lingua gutturale dei presunti superuomini, altro non è, per il colto Levi, che un preciso richiamo a ben altra, e assai più nobile insegna, la famosa “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” all'ingresso dell’Inferno dantesco.
Così come all'opera di Dante richiama il medico che seleziona crudelmente, con asprezza e immorale malignità i deportati secondo le attitudini lavorative, deciso a trarne ogni forza lavoro fino allo stremo dei poveri sventurati: del tutto identico, nell'immaginario del recluso Levi al Minosse distributore dei dannati nei vari gironi infernali.
Lavoro fino allo stremo, e indegnità, e crudeltà, e vessazioni, e botte, e affamamento, tutto il campionario dei campi di concentramento nazisti è sciorinato addosso ai poveri sventurati, tutto è disumanamente attuato per l’annientamento fisico e morale dei prigionieri, la loro forzata degradazione a reietti, a larve umane, la maniacale progressiva persecuzione volta alla degradazione dell’uomo da parte di altri uomini, fino alla perdita, alla completa cancellazione di ogni sorta di dignità umana.
Fino all'epilogo finale, scontato, e presagito da subito allorché si viene schedati all'arrivo e identificati da un numero progressivo.
Basta poco a comprendere che è in realtà un codice, che indica il numero di prigionieri transitati per il campo, un numero assai superiore alle poche migliaia effettivamente presenti, in visibile appello quotidiano: non è difficile pervenire alla tragica conclusione.
Quello che è il dolore più grande, il vero trauma amaro, straziante, angoscioso, è la constatazione, la triste verifica di quanto accade, quanto può verificarsi a un uomo quando posto in simile atroci condizioni di vita, si riduce inevitabilmente a qualcosa di degradante, abominevole, funesto e infelice: alla perdita totale della propria umanità.
Non più dignità, nessuna decenza; nessun onore o onorabilità, meno che mai nobiltà o correttezza, per non parlare di solidarietà concordia, aiuto, mutua assistenza.
Ognuno per sé, ciascuno per sé; e la moralità dei prigionieri sopravvissuti diviene pari a quella dei propri carcerieri.
Qualcuno, come Levi stesso, si chiede i motivi, ne cerca le ragioni, continua tenacemente a credere nell'unità, nell'intesa, nel calore, nella condivisione, ma lui e altri come lui sono semplicemente sommersi dall'inevitabile, spietata indole di sopraffazione che prende coloro che, spogliati dall'ultima parvenza di umanità, desiderano semplicemente salvarsi, anche a costo di divenire, per esempio, un kapò, passare tra le file degli aguzzini a danno dei propri compagni, magari solo per una razione di cibo supplementare. I sommersi e i salvati.
Si salverà Levi da questi orrori, la scamperà, anche se lui è con tutta evidenza un sommerso, sia pure per caso, e ne porterà allora testimonianza diretta di quanto ha vissuto, quasi una forma di redenzione personale, una remissione del peccato, e ne scriverà allora accuratamente.
In prosa, come in versi.
Gliene siamo grati, tutta l’umanità deve innalzargli un monumento per aver levato la sua voce.
Anche se…talora mi viene da pensare, davanti a certe immagini. Se davvero è servito.
Perchè nemmeno questo è un uomo, dottor Levi, dopo decenni, dopo una Resistenza, costretto a emigrare stipato su un barcone sconnesso, o su un gommone sfiatato, a rischio della vita, dopo aver pagato il viaggio con fame e con botte, violenze di ogni genere, specie se donne; e tutto per…per un po’ d’erba al limite dei feudi. Forse.
Nemmeno questo è un uomo, costretto a urlare la sua rabbia contro una recinzione, a piangere con i figli al gelo sugli scogli.
Nemmeno questi sono uomini, perché non sono di razza ariana, per loro i porti sono chiusi. Sempre.
Considerate se questo è un uomo.
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Il trionfo della ragione
Rileggere questo memoriale che riunisce in sé la fattura del documento storico e la statura di un prodotto artistico di indubbia qualità letteraria, è ancora una volta fonte di arricchimento e di scoperta, di stupore e di ambascia. Lo si dimentica col tempo, rimane certo il ricordo netto , quasi episodico, sorretto dalla struttura testuale stessa, di un dolore universale che non lascia insensibile nessuno, l’urgenza di quella meditazione perpetua alla quale ci ammoniva lo stesso Levi (“Meditate che questo è stato: /Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/(…) /Ripetetele ai vostri figli.)e una presunzione di aver già conosciuto e capito. E invece no, l’opera, all’ennesima lettura, ricorda la sua intima essenza, il suo obiettivo di fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano, paralizza e toglie il fiato, apre una notte, quella notte alla quale “occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere”. Si procede per gradi, in modo meticoloso, a comprendere lo svilimento dell’uomo, il suo annientamento morale prima che fisico; si familiarizza con luoghi e relativa nomenclatura, con la loro rigida organizzazione, con i giorni e le notti scandite da fatica e fame , riposo e sogni. Levi riesce a restituirci l’indicibile e a far comprendere la scomparsa della morale, l’ inutilità di parole quali “bene “ e “male” “giusto “ e “ingiusto” dentro un spazio deprivante e teso all’annientamento totale. È una vita ambigua quella all’interno del lager, ma Levi da buon scienziato non smette un attimo di analizzare il fenomeno e lo restituisce come i dati di un esperimento. In modo oggettivo, data la reclusione forzata di uomini di diversa provenienza e condizione, visto il regime di sottomissione al quale sono sottoposti, considerato il mancato soddisfacimento dei più elementari bisogni, lui registra che l’uomo non diventa brutale, egoista , stolto ma teso al soddisfacimento dei suoi bisogni, tutti legati a doppio filo alla sopravvivenza, che lo stesso non fa altro che ridurre al silenzio le consuetudini e gli istinti sociali. L’umanità è sepolta, la bestemmia invade l’animo quando ancora la preghiera resiste. La mente incessante osserva, analizza ed elabora, risolve. La mente vince il corpo, lo piega e lo ricostruisce. E si apre un nuovo giorno. E il nuovo giorno avrà il sapore della ragione.
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Conoscere un Lager
Anni fa, avevo fatto una "gita" ad Auschwitz e ne ero rimasto sconvolto e pietrificato.
Poi leggendo questo libro, avevo dato un senso agli orrori commessi in questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini.
L'autore ha il pregio, di raccontare questa immane tragedia, mantenendo sempre un tono abbastanza distaccato, freddo, non esaltato, non drammatizzato.
Sembra solo che voglia raccontare quello che succedeva, senza dover farcire il linguaggio con frasi ad effetto o superlativi, che andrebbero a nuocere il resoconto storico e umano che egli ha così fin troppo perfettamente descritto.
Il tema è molto delicato, soggetto a miriadi di interpretazioni.
Levi è stato un partigiano anti fascista, appunto deportato ad Auschwitz. Come ne sia uscito vivo è puro miracolo, come abbia avuto la forza di scrivere quello vi accadeva è qualcosa di veramente unico e grandioso, poichè le atrocità che ha visto o sopportato, a mio avviso sono qualcosa che già difficilmente uno può cercare di riportare alla mente, figurarsi mettere il tutto su carta, i dettagli, le torture, la fame, il freddo, la paura che logora. Ci vuole coraggio e grande cuore.
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PER NON DIMENTICARE
I dolorosi versi che aprono il romanzo di Levi non lasciano alcun margine di dubbio: “Se questo è un uomo” è un libro che nasce dall’impellente bisogno di raccontare, di testimoniare l’allucinante esperienza dei campi di sterminio nazisti, affinché la gente possa rammentare quel che è stato e servirsene come perenne monito contro la barbarie della guerra e l’insensata violenza dell’uomo sull’uomo. Eppure, a dispetto di ciò, “Se questo è un uomo” è un libro che non mi aspettavo. O meglio, gli orrori dei lager, che le immagini dei documentari girati dagli Alleati hanno portato fin nelle nostre case con effetti presumibilmente analoghi a quelli che avrebbero potuto avere filmati provenienti dagli spazi siderali più profondi, tanto lontane erano dal nostro sicuro ed ovattato mondo del dopoguerra, sembravano poter legittimare un romanzo dai toni biblici e apocalittici, con rabbiosi strali lanciati a piene mani contro gli odiati nazisti e panegirici inneggianti alla superiore dignità dell’ebreo perseguitato ad ogni capoverso. Invece niente di tutto questo, che pure avrei probabilmente perdonato all’autore in nome di una letteratura di impegno civile che nell’urgenza di portare il suo scottante messaggio è indotta talvolta a dimenticare il senso della misura, niente di tutto questo, dicevo, c’è nel romanzo di Primo Levi. Nonostante sia raccontato in prima persona e riporti esclusivamente fatti realmente accaduti, esso è una descrizione pacata e disincantata di avvenimenti che pure si svolgono spesso ai limiti dell’immaginabile.
L’abilità di Levi, che certo non lo farà passare alla storia come un grandissimo romanziere ma che nondimeno rende le sue opere altamente avvincenti, è quella di lasciar parlare i fatti. Una volta varcata la soglia del lager, lo scrittore non può più permettersi di essere un affabulatore, e solo in misura assai limitata rivestire il ruolo di commentatore della Storia: la scottante materia umana con cui Levi entra in contatto e che fedelmente riversa sulla pagina scritta lo rende forse simile a un documentarista, assai più efficace quando descrive che non quando sillogizza. Il suo stile è duro, scabro, privo di fronzoli, perfettamente aderente alla realtà narrata. Una sola, brusca frattura lo contraddistingue, nel momento in cui il protagonista fa il suo ingresso nell’inferno concentrazionario. Il linguaggio, che fino ad allora scorreva lineare e riflessivo, diventa all’improvviso nervoso, frammentario, spezzettato. Per qualche pagina, quasi che il ricordo di quegli avvenimenti riemergesse nella memoria di chi li ha vissuti con la violenta vividezza del passato, Levi sembra incurante delle forme e dei tempi grammaticali (si prenda come esempio la frase seguente: “…la porta si è aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta… Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete interrogò il tedesco…”). Poi il ritmo ritorna placido e sommesso, malinconicamente consapevole del fatto che “la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”.
Vengono così rievocate, in una successione non strettamente cronologica ma dettata piuttosto da esigenze emotive, le esili e minute vicende del campo, che punteggiano le massacranti giornate di lavoro in Buna e le notti agitate nei fetidi dormitori: anche quelle apparentemente più insignificanti, quelle che sembrano dare maggiormente sull’aneddoto, sono in realtà altrettanti fondamentali tasselli della più grande tragedia umana della nostra era. Il lager si rivela infatti come la materializzazione di una cosciente e programmatica volontà di distruggere l’uomo, nello spirito più ancora che nel corpo. “Si immagini un uomo – scrive Levi – a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana: nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità”. Il lager è quindi, come afferma nel libro un vecchio ebreo tedesco, “una grande macchina per ridurci a bestie”. In quella drammatica lotta per la sopravvivenza che è diventata l’esistenza quotidiana, dove tutto è freddo e fame e botte, diventa così essenziale preservare dall’annientamento almeno la propria dignità umana. “Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso”. In un microcosmo dove tutti, e in primo luogo i propri compagni, “ci sono nemici o rivali” è però quasi impossibile conservare quest’ultimo barlume di umanità: assai più facile è lasciarsi vincere dall’indifferenza o dalla rassegnazione, o concentrarsi sul proibitivo compito di districarsi alla meno peggio tra le mille assurde regole che pilotano le vite degli individui verso un precario, informe domani.
La popolazione del lager tende spontaneamente a dividersi in due categorie nettamente distinte: i sommersi e i salvati. I primi sono gli haftlinge assuefatti al loro misero destino, uomini in cui è scomparsa ogni traccia di pensiero e di intelligenza, “gregge muto e innumerevole” caratterizzato dal “torpore opaco delle bestie domate con le percosse”; i secondi sono invece coloro che, riposto ogni senso etico, hanno saputo “organizzarsi” e, per mezzo di furti, corruzioni e delazioni, riescono ad evitare le selezioni, cinicamente ed egoisticamente consapevoli che mors tua vita mea. Levi, rivelandosi un profondo conoscitore della natura umana, respinge la comoda e consolatoria pietà verso le vittime e, con una sincerità davvero autolesionistica, mostra l’abbrutimento bestiale e il profondo degrado morale cui esse sono pervenute. Nel medesimo tempo, però, egli ci fa capire che questa condizione abietta altro non è se non l’ennesima, lancinante offesa perpetrata dalla barbarie nazista, di modo che la dignità dell’uomo calpestato e violentato fin nel profondo dell’animo viene alla fine ristabilita in maniera naturale, più nitida e consapevole, in quanto più crudamente autentica. La stessa vergogna che coglie gli individui quando sono messi di fronte alla loro vigliaccheria, soprattutto dopo le crudeli parentesi delle selezioni per le camere a gas o delle impiccagioni di quei pochi disgraziati che in qualche modo hanno saputo ribellarsi, la vergogna cioè di essere giunti al più infimo livello della condizione umana, diventa così la premessa di una testimonianza di altissimo valore morale, lascito insostituibile che Levi ha voluto tenacemente tramandare ai posteri affinché non dimenticassero mai l’immane tragedia dell’Olocausto.
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Morgen früh
A volte il silenzio è una grande forma di rispetto verso qualcosa di più grande di noi.
Per questo avevo deciso di non scrivere nulla su questo libro, su questa lucidissima testimonianza di quell'orrore senza fine che, per quanto ci si possa sforzare di comprendere, non riusciremo mai veramente a capire.
Neanche lontanamente ad immaginare.
Ma poi le parole sono arrivate con prepotenza, non potevo ignorarle.
Anche per rispetto.
Sono troppe le cose che ci mancano per un'adeguata comprensione, troppe...a partire dal senso delle parole.
Ed è esattamente quello su cui vorrei soffermarmi, quello che più mi ha segnato, perché rivoluziona completamente il concetto di "significato".
Noi siamo uomini liberi e siamo abituati ad usare la lingua degli uomini liberi.
Le parole che pronunciamo sono fortemente legate alla nostra condizione.
Pensiamo al concetto di "fame"...
La fame che conosciamo noi è quella legata ad un'abitudine, è quella di chi magari ha saltato un pasto, o addirittura quella autoimposta di chi si mette a dieta.
La fame di chi è libero anche di non mangiare.
Non potremo mai capire la fame di chi aspettava che il vicino di cuccetta morisse, per potergli togliere un misero pezzo di pane dalle mani.
Noi non sappiamo assolutamente che cosa sia...
Pensiamo al "freddo"...
Il freddo di chi stava ore e ore nudo con i piedi nella neve, di chi si ammazzava di fatica sotto la pioggia gelida, con il vento che tagliava in due e sognava un pezzo di stoffa asciutto o un minimo calore che asciugasse, già sapendo di non poterli avere.
Il freddo di chi ha conosciuto "l'inverno dell'anima".
Cosa posso saperne io, di questo freddo, di questo gelo, mentre leggo tutto ciò sotto il mio morbido e caldo piumone?
Come posso permettermi anche solo di scrivere queste righe?
Pensiamo alla "stanchezza"...
Non quella che intendiamo noi, quella che si può spazzare via con qualche buona ora di sonno, no.
Ma quella capace di uccidere, quella che, attraverso il corpo, urlava che era finita, che non ce la si poteva fare più, che il disfacimento era vicino e le forze non sarebbero bastate per superare il prossimo giorno.
Uno dei tanti, tutti uguali.
Pensiamo al "dolore"...
Noi cerchiamo di immaginare qualcosa, qualcosa di spaventoso, di terribile, di insopportabile, ma in realtà si trattava di altro.
Si trattava di qualcosa che dovrebbe avere un altro nome.
Un nome capace di racchiudere l'inimmaginabile.
Ma soprattutto, pensiamo alla "paura"...
Quella che abitava gli occhi di chi sapeva di dover morire...sì perché la paura passa sempre dagli occhi, attraversa il corpo e muore nel cuore.
Quella di chi ha perso completamente l'idea di futuro...tanto che, nel gergo del lager, "mai" si diceva "morgen früh"...ovvero "domani mattina".
Niente di strano, perchè per molti "domani mattina" non sarebbe arrivato mai.
E poi forse la parola più importante: "uomo".
Cos'è un uomo?
Cos'è un uomo a cui viene tolto tutto?
Cos'è un uomo senza i suoi vestiti, le sue scarpe, il cibo, l'acqua...il proprio nome?
Un uomo amputato dei suoi affetti, tutti?
E cosa rimane di un uomo se gli togli anche la dignità?
Se lo privi dei pensieri e della capacità di riconoscere se stesso e gli altri come "uomini"?
Niente. Assolutamente niente.
In fondo io, qui, al sicuro della mia libertà e arrogandomi un diritto che non possiedo, sto parlando di cose che non so.
Ma lui, Primo Levi, le sa bene...ed ha scelto di tramandarcele, ha speso una vita per farci comprendere l'incomprensibile, per narrarci l'immane sofferenza che ha vissuto e far sì che noi non permettessimo più, mai più, un orrore simile.
Il rispetto per lui, per la sua storia e quella di tutti coloro che sono morti e hanno subito tale orrore, passa dalla lettura di questo libro.
Dal silenzio che ne consegue o dalle parole che non possono essere trattenute.
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DIPLOMAZIA E RIFLESSIONE
Qualche mese fa la mia prof.ssa di religione fece vedere a me e alla mia classe un video di una intervista a Levi e rimasi molto colpita dalla sua diplomazia e compostezza; ogni domanda aveva una completa, approfondita e precisa risposta, pronunciata senza pensamenti o giri di parole.
Avevo grandi aspettative per questo libro, ma ne sono rimasta un po' delusa.
Premetto, secondo me tra sapere e capire c'è un'abissale e fondamentale differenza. In "Se questo è un uomo" io cercavo una testimonianza struggente, capace di emozionare e tormentare il lettore, rendendolo partecipe dell'immenso dolore, provato solamente perché si crede in ideali differenti.
Con questo libro non pretendevo di capire l'inferno del Lager - mi rendo conto questo sia impossibile -, ma mi aspettavo di comprenderne almeno una parte.
Levi è un genio perché offre tutti gli elementi necessari per poter conoscere e permettere un'interpretazione personale del dolore; ora, io mi rendo conto di intromettermi in gusti personali e non mi meraviglio se molte persone saranno contrarie al mio pensiero, ma, a mio parere, il libro non fornisce altrettanti elementi per poter capire la situazione trattata. In altre parole, ora so una parte di storia dei prigionieri, ma non sono riuscita a mettermi in contatto con loro, non li ho sentiti vicini durante la lettura; questo mi ha delusa.
Io ho 17 anni, è logico che io sia curiosa e avida sia di conoscenza, sia di emozioni; consiglio a tutti lo studio di questo libro, ma credo anche che il documento sia più appropriato a una lettura adulta; i giovani hanno bisogno anche di una dose maggiore di coinvolgimento emotivo.
L'analisi atomica di una tragedia
Una di quelle letture "difficili" che vanno fatte, assolutamente. I motivi? Molteplici.
1. Preservare il ricordo di una strage disumana che non va mai dimenticata, per non ripeterla, per stare in guardia.
2. Per convincersi che non esistono atrocità impossibili soltanto perché non vengono vissute in prima persona, che uomini come noi hanno sofferto pene impensabili e non partoribili nemmeno nei nostri peggiori incubi.
3. Per apprezzare la vita, per capire quale grande dono è viverla e come possa esserci strappata facilmente dalle mani; come migliaia di uomini, donne, bambini che avrebbero voluto viverla l'hanno vista scivolare via nel sangue, nel dolore, nella disperazione, senza possibilità di appello. "Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case"…
Non c'è molto da dire, inutile ripetere riflessioni trite e ritrite, che andrebbero stampate a fuoco nella mente di ogni essere umano, grande o piccolo.
"Se questo è un uomo" e più di un semplice titolo, è quasi il simbolo di una tragedia. La lettura di questo libro non fa altro che ricordarci quello che dovrebbe essere alla base della nostra umanità, e lo fa nel modo più brutale, mostrandoci quello che accade quando queste basi vengono a mancare.
Primo Levi ci offre la sua testimonianza, paradossalmente distaccata, di quella che era la realtà dei Lager, quegli inferni in terra che hanno mietuto vittime senza distinzioni. È un'analisi quasi fredda, uno scomponimento in atomi che ci vengono mostrati singolarmente al microscopio; uno studio fatto nel modo che ci si aspetterebbe da un chimico quale era Primo Levi, che ha messo da parte la rabbia infinita dell'uomo che quelle atrocità le ha vissute e ce ne ha fornito un resoconto obiettivo.
Una cosa mai vista prima.
Pensi alla domanda: "se questo è un uomo", e sai che Primo Levi si riferisce ai prigionieri, ma in fondo anche e soprattutto agli oppressori (seppur non lo dica), agli artefici della distruzione di quegli esseri umani; ai "non uomini" che hanno sperimentato negli altri lo stesso annientamento, constatando che negli oppressi questo non può portare ad altro che alla morte.
Leggetelo.
"Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga."
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la scelleratezza del genere umano
Ho letto diversi libri riguardo l'olocausto, ho visto documentari e ho ascoltato diversi racconti MA, Primo Levi, ha un modo lucido di narrare e analizzare le vicende e le persone che é comune a pochi scrittori. "Se questo é un uomo" é stato un viaggio alla scoperta della crudeltà umana, della cattiveria allo stato puro, dei pregiudizi infondati. Esseri umani ridotti ad essere fantasmi di sé stessi, a lavorare per tentare di sopravvive, donne non più tali e uomini non più virili. Un libro scritto per il bisogno di comunicare agli altri ciò che davvero sono stati i campi di sterminio. Consiglio vivamente la lettura di questo scritto di Levi, a tratti sentimentale per la tristezza trasmessa, a tratti critico per l'analisi sociale delle persone.
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...Infin non avrà più senso dire: domani.
"Se questo è un uomo" è la storia di un uomo speciale: prima dell'esperienza nel Lager, del racconto degli stenti e delle fatiche, dei profili degli amici incontrati, delle riflessioni sulla vita che scorre inesorabile e che potrebbe smettere di farlo tra un battito di ciglia e l'altro, "Se questo è un uomo", è la bellissima (sì, bellissima) storia di un uomo. Di Primo Levi.
E tutto questo è fantastico, bizzarro e sorprendente allo stesso modo: perchè nonostante i suoi sforzi di far capire a noi, figli dell'era moderna che mai potrà inalare la più grande tragedia, forse, potrà solo perpetrarne la memoria, che nei campi, gli uomini, non c'erano più, che erano solo Haftlinge (cme Primo spesso ricorderà), cose, numeri, oggetti sviliti dalla ferocia umana, più mi sforzo di convincermi che "Se questo è un uomo" è il monito che ricorda che , in Primo Levi, riconosco un grande uomo.
Un uomo riuscito a mettere da parte la sua sensibilità, a calare la maschera della larva che volevano diventasse, a "sapersi organizzare", a far finta di seguire ogni regola; un uomo perfettamente consapevole del suo deperimento quotidiano, ma con un cervello frizzante che pesca dai ricordi maledetti ora la Divina Commedia, ora le formule chimiche su cui a Torino lavorava e che nel campo gli torneranno utili.
Primo Levi era uno dei tanti, italiano torinese laureato in chimica, un numero "grande" (cioè uno degli ultimi arrivati) prima, un numero "piccolo" dopo, uno dei migliori e più conosciuti, sino all'alba dl 27 gennaio 1945. Uno che riuscirà, nonostante il freddo paralizzante, la fame ottenebrante e la malattia-carnefice, a destreggiarsi, ad arrangiarsi, a difendere la vita, con l'arte dell'accontentarsi, ricordandosi di smettere di pensare e sforzandosi di non capire.
"Se questo è un uomo" è uno di quei libri che fanno rivoltarsi nel letto, che ti impediscono di addormentarti subito, che ti fanno mangiare tutto sino all'ultimo boccone. E' una lezione di vita. E' una storia, niente di più, niente di meno: ed è proprio la semplicità e la freddezza di spirito con cui sbatte in faccia questa dura realtà, che lascia senza parole. E sarà stato proprio questo l'effetto sperato.
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Chimico o scrittore?
Primo Levi in questo romanzo - documento scrive in modo quasi freddo ed estremamente razionale il suo percorso all'interno del campo di concentramento, offrendo un quadro perfetto di quella che fu la sua vita all'interno di Auschwitz, senza mai cadere in lamentele e sensazioni, con una lucidità che onestamente mi ha quasi lasciata perplessa. Il racconto nonostante le atrocità ormai note a tutti non è mai stucchevole e il tono con cui Levi lo descrive non è mai drammatico. Levi scrive come se ci stesse raccontando una sua giornata normale. E' sicuramente questa lucidità mentale che accompagna il romanzo, la caratteristica principale di Levi, caratteristica che ho apprezzato molto.
Levi non condanna, raramente si lascia andare a giudizi e onestamente non vuole emozionare o coinvolgere il suo lettore. Gli offre semplicemente un resoconto. Memorabile il passo in cui viene menzionato "Il canto di Ulisse" e il modo e l'affanno con cui Leva cerca di tradurlo ad un suo compagno. Unica salvezza il linguaggio, il comunicare, il poter aggrapparsi alla parola. Nonostante Levi sia stato un autore importante e riconosciuto, credo che il fatto che fosse stato un chimico si possa notare in ogni pagina del libro, proprio per questa sua capacità di narrare senza voler emozionare, semplicemente per descrivere qualcosa, capacità che credo manchi a molti autori di formazione puramente letteraria.
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Quando la morte viene invocata
La letteratura sull’olocausto è vastissima; e io dico: per fortuna. Nel senso che non esiste altra forma di umana consolazione che poter testimoniare e raccontare ciò che appare inconcepibile e difficilmente descrivibile. L’impulso che spinge Primo Levi a scrivere questo libro-verità, nasce, appunto, dal bisogno di narrare e far conoscere l’inferno vissuto in terra nel campo di sterminio di Auschwitz.
L’autore vive una normale vita di studente fino al 1938, anno delle famigerate leggi razziali, per poi continuare gli studi e laurearsi in Chimica. Viene quindi deportato nel febbraio 1944 nel lager di Auschwitz e rimane per un anno fino alla liberazione da parte dei reparti russi; egli condivide insieme agli altri deportati le atroci sofferenze, e gli atti di inumanità perpetrati costantemente dai suoi aguzzini. La morte è sempre presente e pronta a prevaricare in qualsivoglia circostanza, per decisioni arbitrarie, per pura coincidenza.
Primo Levi sa benissimo di essere stato “fortunato” per quell’internamento che avviene in un periodo in cui, a causa della carenza di manodopera, i nazisti avevano deciso di allungare la vita di alcuni deportati per poterli sfruttare nel lavoro; infatti, l’essere un chimico gli consente di venir utilizzato nella fabbrica di gomma interna al lager. In tale orrendo contesto, di annichilimento dell’anima e di ogni forma di pietà umana, nasce e si consolida in Levi la brama e l’anelito in una letteratura di testimonianza da parte di chi è sopravvissuto che consiste non solo nel narrare, ma, principalmente, di essere ascoltato e creduto in quanto tutto ciò che ha vissuto si spinge al di là della comprensione umana.
Quindi un libro-verità sconvolgente, agghiacciante, terrificante, da leggere per non dimenticare quello che l’essere umano è riuscito a commettere e a subire.
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Per non dimenticare il significato di dignità.
Non ricordo il giorno in cui l’ho comprato. Non ricordo nemmeno la prima volta in cui l’ho letto. Sicuramente però, è l’unico libro che leggo almeno una volta in un anno da almeno due decenni. SE QUESTO E’ UN UOMO è un romanzo sulla dignità. La forza narrativa, lucida e cristallina fluisce nel racconto, spinta dalla necessità di gridare al mondo che è esistito un luogo, dove essa è stata annullata. Ma cos’è la dignità? Semplicemente il rispetto della creatura vivente in quanto tale. Primo Levi ne descrive, nel libro, il suo annientamento fatto in modo scientifico, fino a ridurre l’uomo un oggetto. Spogliato della definizione di essere umano, nel campo si usa un termine specifico per chiamare i prigionieri: Haftling, ossia pezzo. Un pezzo che se si rompe si deve semplicemente sostituire. Ci racconta dell’abisso nel quale la mente può precipitare nel disparato tentativo di sopravvivere. Ci descrive vari modi nei quali quei prigionieri hanno difeso la loro dignità. Io credo sia un libro che ognuno dovrebbe leggere. Ci può indurre a riflettere su che fine può aver fatto la nostra, di dignità.
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Questo NON è un uomo
Agghiacciante.
Non c'è aggettivo più preciso per descrivere il mondo che Primo Levi ci fa conoscere. Un mondo che si immagina soltanto (per fortuna!) e che certamente nessuno può comprendere fino in fondo senza averlo vissuto.
Ciò che maggiormente colpisce di questo libro è l'atmosfera che si respira in ogni singola pagina, dal viaggio in treno fino all'uscita dal campo di concentramento. Un'atmosfera di straniamento, come se la realtà fosse cristallizzata in una dimensione atemporale di crudeltà, orrore e distruzione. Distruzione dell'uomo, della sua anima, della sua mente, del suo corpo. Perchè questo è ciò che accadeva nei lager che Levi ci presenta dall'interno. E il quadro che ne emerge è persino peggiore di quel che ci si immagina: un posto in cui non esiste la dignità, dove non esiste il rispetto, dove non esiste l'empatia. Dove non esiste l'uomo. Aveva ragione la grande Hannah Arendt che vedeva nei nazisti uomini comuni dal pensiero annebbiato a causa di un'ideologia soverchiante e mistificante. Ma è davvero possibile una tale crudeltà, un tale delirio di onnipotenza, una tale sottomissione alla lucida follia di un uomo come altri? E' davvero questo un uomo? Può essere questo un uomo? Può un uomo annullare un altro uomo, come se tutto ciò fosse normale? FIno a dove può condurre la paura del diverso?
Sono interrogativi a cui lo stesso Primo Levi non è in grado di dare una risposta, ma ciò che conta è che rimangano sempre presenti nelle nostre menti. Per non dimenticare e, soprattutto, non ripetere.
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COnsiderate se questo è un uomo
Era da tempo che desideravo leggere questo libro, anche se ho sempre cercato di rimandare per paura di affrontare questo tema piuttosto forte, ma finalmente mi sono deciso e l'ho davvero divorato.
Tralasciando lo stile ed i contenuti di questo romanzo che sono comunque interessantissimi e per nulla scontati, la cosa che più mi ha colpito, che più mi ha sorpreso è l'assenza in tutto il testo di qualche espressione di odio vero, di ricerca di vendetta contro i numerosi assassini o comunque colpevoli di tutto ciò da parte dell'autore/vittima.
Come è possibile non provare odio, non desiderare vendetta per qualcuno che ha fatto così tanto male a noi e ad altri milioni di persone?
Questa è una cosa su cui secondo me bisogna fermarsi a riflettere, da cui possiamo imparare davvero qualcosa di importante da applicare nella nostra vita di tutti i giorni.
Un libro che tutti dovrebbero leggere e su cui tutti dovrebbero riflettere.
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L'inferno sulla terra
Libro-testimonianza di una grandezza unica. Primo Levi racconta la sua esperienza di prigionia nel lager da un punto di vista psicologico e ci fa sentire oltre che il freddo, la fame e la stanchezza, che stremano il corpo, anche le umiliazioni e le privazioni morali che portano i prigionieri a sentirsi annullati dal punto di vista umano ed a perdere la coscienza di sè. L’uomo non aveva più un nome. La sua umanità era diventata un fantasma. E’ un libro agghiacciante, drammatico, vero, crudo, duro, profondo, doloroso, di grande eleganza narrativa. Da leggere per provare a capire. Anche se ritengo che capire nel profondo un’enormità come questa, senza averla vissuta, sia impossibile. E’ un libro necessario, che ti cambia, a qualsiasi età lo leggi. E ti fa guardare il mondo con occhi diversi. E ti fa riscoprire il concetto di dignità, portando un profondissimo rispetto per tutte le PERSONE che hanno vissuto tutto questo e per tutti coloro che ne sono morti.
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Il diritto, il bisogno, il dovere di ricordare
Su una delle più immani e macabre tragedie non del '900 ma della Storia intera, quale è stata la Shoah, abbiamo un materiale vastissimo. Memorie, documenti, fotografie, campi di sterminio ormai musei e numerose rappresentazioni cinematografiche. Tuttavia ancora oggi vi sono individui che negano questa cruda realtà, questo atto scaturito dalla malvagità insita nella natura umana, non vogliono ricordare per non soffrire bensì per continuare a vivere con gaiezza e giocosità le superficialità che buona parte del mondo d'oggi ci propina. Ma non bisogna gettare l'indicibile inumanità commessa dalla Germania del Terzo Reich nell'abisso dell'oblio, poiché- purtroppo- essa non necessariamente rappresenta un caso isolato ma, se trova un terreno reso fertile da una continua azione di menefreghismo e indifferenza, attecchisce immediatamente, dando origine a sciagure ancor più nefaste. Proprio per questo bisogna vincere la nostra reticenza verso il cruento, il crudo per porre mattone dopo mattone una muraglia che permetti che mai più un pregiudizio, una intolleranza assumano una veste ideologica, dei dogmi, una teoria perché il risultato di tutto ciò sarà una spirale di male e dolore e infine il Lager. Questa è la volontà di Primo Levi ( e di tantissimi altri superstiti, studiosi, intellettuali) e del suo capolavoro, “Se questo è un uomo”, del quale abbiamo il dovere di rendere intramontabile e di trasmettere di generazione in generazione.
1943
Il giovane torinese laureato in chimica ed ebreo amante della montagna, Primo Levi, dopo 4 anni di segregazione dovuti alle leggi razziali fasciste, il 13 dicembre viene catturato per aver partecipato ad un tentativo di intervento partigiano e viene deportato al campo di Carpi- Fossoli.
1944
Il campo in provincia di Modena viene preso in gestione dai nazisti,i quali avviano tutti gli ebrei presenti (anziani, donne, uomini, bambini inclusi) su un convoglio ferroviario con destinazione Auschwitz, Polonia. Qui inizia la parabola discendente degni internati i quali-sin dal viaggio in un treno-merci che è più per animali che per uomini- presto dovranno subire lo spietato assalto nazista alla dignità umana e all'annesso progetto di disintegrazione di ogni forma di umanità. L'obiettivo: la morte dell'anima, dello spirito, molto più tremenda di quella del corpo, che rappresenta anzi la liberazione dalla non vita imposta. Levi sarà costretto a conoscere il fango, la sporcizia, la fame, la fatica e la legislazione inversa che domina il grigio campo di lavoro di Monowitz ( a circa 7 chilometri dal “centro amministrativo” di Auschwitz). Questo è un mondo al di qua del bene e del male, dove domina come legge “mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicinato”, diviso in sommersi- i “Muselmann” i quali dedicano tutte le loro forze al lavoro e alla sottomissione non avendo ancora imparato “la nostra arte di fare economia di tutto, di fiato, di movimenti, perfino di pensiero- e i salvati- i “Prominent” che usano l'astuzia, il furto, il contrabbando, il tradimento dei propri compagni per poter vivere un poco di più. In questa Torre di Babele si è privati del proprio nome (sostituito da un numero) , del tempo, della giustizia (in quanto domina la violenza, l'arbitrarietà e la corruzione delle SS), ma comunque bisogna perseverare perché, come dice l'ex sergente austro-ungarico Steinlauf, “il Lager è una grande macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; anche in questo in luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civiltà”. E tale immenso sforzo nell'inferno, nella casa dei due volte morti che è il Lager, per Levi non sarà sprecato, perché i Russi stanno per arrivare...
Con uno stile scarno, lineare, ma proprio nella sua semplicità incredibilmente evocativo, l'autore è riuscito a realizzare un resoconto oggettivo ed esplicativo di una orribile tragedia, arricchendolo con pagine toccanti ( come il canto di Ulisse, dove Levi tenta di insegnare l'italiano ad un suo compagno servendosi dei versi di Dante), dando vita ad un opera sublime, nonostante la crudezza delle pene narrate.
Proprio per questa maestria evocativa, questa capacità di giungere diritto al cuore, per questo raziocinio, rimasto comunque nell'anima dell'autore provata dalla “follia geometrica” del nazismo, consiglio ardentemente “Se questo è un uomo”, affinché tutto lo sforzo dei sopravvissuti non sia stato invano, affinché non si dimentichi mai cosa è stato commesso durante il Terzo Reich, affinché i testimoni di questa tragedia non siano più assaliti di notte dagli incubi in cui la loro storia non viene ascoltata o presa minimamente in questione, affinché non avvengano mai più bestializzazioni di siffatta maniera. Perciò “meditate che questo è stato:/ vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa andando via,/ coricandovi alzandovi;/ ripetetele ai vostri figli.”
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Sguardo lucido sulla follia
Si tratta sicuramente di uno dei libri più importanti, se non addirittura il più importante, di quel particolare filone letterario dedicato alla follia del Nazismo e alla tragedia dei campi di concentramento. Questo libro fu scritto nel 1947, epoca in cui il neorealismo italiano si sviluppò ai massimi livelli, raggiungendo dei picchi narrativi che porteranno la nostra nazione alla ribalta del mondo letterario (quanto tempo...). Il racconto, però, si discosta in maniera decisa dai canoni stilistici del neorealismo, assumendo una propria ed autonoma fisionomia, che lo porta ad essere uno dei grandi classici del Novecento. L'aspetto che maggiormente colpisce il lettore è la fredda lucidità con la quale Levi racconta le atrocità naziste: l'analisi del lettore è priva di ogni retorica o emotività, il suo sguardo, lucido e preciso, rispecchia la volontà di raccontare in modo documentaristico le immani crudeltà a cui Levi ha assistito personalmente. Il suo approccio "giornalistico", se mi passate il termine, si realizza soprattutto nella narrazione sobria e asciutta, priva di qualsiasi manierismo e spogliata da qualsiasi tentativo di abbellimento o di cesellatura. Ed è proprio questo l'aspetto che, secondo me, colpisce a pieno l'immaginazione del lettore. "Se questo è un uomo" non è solo un diario o una memoria. Ma è anche uno studio attentissimo alla società e alla antropologia di quel mondo assurdo chiamato "campo di concentramento". Sembra quasi che Levi sia interessato a capire, analizzare e sviscerare scientificamente le leggi che regolano quel mondo e i suoi abitanti. La sua chiarezza da scienziato (non dimentichiamoci che Levi era un chimico), ci aiuterà a comprendere con la massima razionalità possibile il mondo dei Lager e le bestialità dei suoi aguzzini.
Per questo penso che ci troviamo di fronte al libro che meglio di tutti è riuscito a far comprendere al mondo intero, l'orribile abisso di follia nel quale eravamo precipitati. Le pagine di Levi scorrono velocemente e la lettura si mantiene sempre interessante e coinvolgente.
Se già non avete letto questo libro, fatelo immediatemente...
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VERO E TAGLIENTE
Un libro sulla follia nazista, sulla cattiveria umana che non si pone limiti, sul razzismo, sul male che l'uomo può fare ai suoi simili, sulla vita nei lager.
La sofferenza di Levi e dei suoi compagni ci arriva tutta, pagina dopo pagina, come ci arriva la speranza, quella speranza loro che non equivale altro che ad arrivare al domani.
Un libro da leggere almeno una volta nella vita e non solo a scuola.... per non dimenticare!
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Se questa è una vita
CONTIENE SPOILER!
Lo so che mi sono dilungata moltissimo con questa recensione, ma non potevo fare diversamente.
Non potevo in poche righe spiegare tutto quello che questo libro racconta, non ci sono riuscita.
Questo libro è considerato un romanzo di testimonianza ed è stato scritto da Primo Levi nel biennio 1945- 1947.
L’autore non scrisse questo libro per smuovere accuse verso qualcuno, ma per il bisogno di far sapere alla gente cosa accadeva e cosa hanno realmente passato milioni di ebrei e non solo in questi luoghi intrisi di morte.
Attraverso questo libro l’autore ci racconta la sua angosciante esperienza: una lotta quotidiana per la vita.
Una vita vissuta nei campi di concentramento sotto gli sforzi, le malattie, le intemperie, senza cibo o acqua a sufficienza e sotto le molte angherie inflitte dalle guardie della SS.
Levi è sopravissuto alla deportazione nel campo di Monowitz, un lager minore che faceva sempre parte del complesso di Auschwitz.
Nella prefazione lo scrittore spiega al lettore che è stato un bene per lui essere stato internato solamente nell’anno 1944, quando le condizioni dei prigionieri erano già migliorate di molto rispetto agli anni precedenti.
La maggior parte degli eventi è stata descritta in ordine cronologico, tranne per qualche eccezione.
Dopo la prefazione ci troviamo ad affrontare il primo capitolo contrassegnato con il titolo “Il viaggio” attraverso questo ci viene spiegata la situazione delle persone che sono state deportate nel campo di transito di Fossoli in provincia di Modena.
Ci spiega con precisione le tappe che fa questo treno carico di gente che viene trattata come le bestie, se non peggio e come devono stare, cioè in condizioni a dir poco vergognose.
Ci narra anche che molti dei “compagni” di questo sventurato viaggio moriranno nel tragitto a causa delle condizioni in cui sono costretti a sopravvivere.
Nei successivi capitoli intitolati “Sul fondo” e “Iniziazione” cominciamo a scorgere le prime scene del campo di concentramento.
Tutti i prigionieri verranno spogliati dei loro averi e verrà consegnato loro la “divisa” a righe, verranno rapati a zero e non verranno più chiamati con il loro nome di battesimo, ma attraverso un numero seriale che gli verrà impresso a fuoco sull’avambraccio.
Subito dopo il lettore scoprirà e capirà tutte le leggi di sopravvivenza del campo e incontrerà le varie ostilità e difficoltà di comprensione che c’erano tra le guardie ed i deportati.
Nel quarto capitolo “Ka-Be”, l’infermeria, verremo a conoscenza che Levi è stato assegnato a questo blocco, nel quale capirà che molti dei suoi compagni hanno già perso la vita.
Tutto ciò lo farà abbattere ancora di più e gli darà la certezza che molto probabilmente anche la sua fine non è molto lontana.
Nei capitoli successivi, l’autore illustrerà i suoi stati di dormiveglia, la poca predisposizione ai lavori pesanti e le poche volte in cui riuscirà a mangiare fino quasi a saziarsi anche se il cibo non era dei migliori.
Nell’ottavo capitolo si apprende la nascita del mercato nero che si era sviluppato all’interno di questi luoghi. Il valore di scambio era soggetto a molti sbalzi in base alla disponibilità ed all’utilità del prodotto richiesto.
Nel nono, Levi farà comprendere che solamente chi riusciva a conquistarsi un posto di prestigio all’interno del campo aveva qualche possibilità di sopravvivenza in più rispetto agli altri.
Nel successivo si sottoporrà ad un esame di chimica che lo salverà da morte certa perché in questo modo si era conquistato un posto di prestigio ed utilità all’interno del campo.
Ne “I fatti dell’estate” ci fa conoscere il tracollo militare che subirono i tedeschi, mentre nei successivi capitoli ci viene illustrata la sua continua “ricerca”della sopravvivenza e le sue prime impressioni come chimico.
Per terminare, la “Storia di dieci giorni” descritta sotto forma di diario costituisce l’epilogo di tutta questa vicenda.
L’arrivo dell’Armata Rossa è già alle porte, i tedeschi evacuarono il campo facendo partire a piedi tutti i prigionieri sani.
Levi, nel frattempo, in questo periodo si era ammalato per cui il suo trasferimento non avvenne. Tutti i prigionieri trasferiti andarono incontro alla morte perché oramai i loro corpi erano troppo provati per uno sforzo di questo livello.
Verso la fine di questo racconto il protagonista ed altri prigionieri si daranno da fare per tenere in vita i compagni ammalati che non potevano provvedere da sé.
Lo stile dell’autore permette al lettore di immedesimarsi nei fatti, di scoprire e rivivere tutte le disgrazie che si abbatterono su milioni e milioni di individui.
L’autore descrive i fatti con molta precisione e scioltezza questo fa sì che la lettura sia veloce e leggera anche se i temi trattati non lo sono.
Questo libro è nato per far riflettere il lettore e per far si che non accada di nuovo un altro genocidio simile.
L’autore in tutto il libro non esternerà mai nessuna espressione di cattiveria sui suoi aguzzini o su quello che ha passato nei mesi interminabili che ha trascorso all’interno del campo.
Dovendo scegliere la citazione che mi ha colpito di più, mi sento di riportare questa frase “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.” proprio perché anche se i fatti descritti nel libro sono molto forti e talvolta il libro stesso è difficile da digerire bisogna che tutti lo leggano per poter comprendere tutto quello che i deportati han dovuto subire e per far sì che tutto ciò non accada un’altra volta.
Vi auguro buona lettura e mi scuso ancora per essermi dilungata così tanto!
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Lager e raziocinio: binomio possibile?
Dicembre 1943-Gennaio 1945.
Ecco il libro che narra quattordici mesi di (non?) vita dell'autore, il quale decide di lasciarci questa testimonianza perché avverte il 'bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi' delle sofferenze dei Lager.
Un memoriale atipico, in cui Levi non si ferma a registrare passivamente gli avvenimenti, ma si concentra sulla psicologia e sulle regole di "civilizzazione" (?) che vigono nel campo di concentramento, senza dimenticare gli stratagemmi e i sotterfugi che possono allungare la vita ai "privilegiati".
La deportazione, il Lager come 'Torre di Babele', la metafora dell'Inferno dantesco, il dormiveglia come riposo illusorio, i lavori gravosi, il labile confine fra vita e morte, la speranza dell'offensiva Alleata e la "selezione" dei nazisti sono soltanto alcuni dei temi trattati nel romanzo, con assenza assoluta di condanna etico-morale e uno stile tragicamente lucido, pensato e antiretorico.
'Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno'.
La tua speranza, credici, è anche la nostra.
Arrivederci, Primo, e grazie di tutto.
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Affinché non debba più accadere
Ancor oggi, anzi ora più che in passato, ci sono non pochi che dubitano che vi sia stato effettivamente l’olocausto. Accanto a quelli che per ideologia lo negano ci sono molti scettici e, purtroppo, tanti, troppi agnostici che si disinteressano completamente del problema.
I giovani, poi, nati molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ne hanno una vaga conoscenza, spesso maturata visionando pellicole sull’argomento, con il risultato che un’immane tragedia sta per venire sepolta dalla polvere del tempo e dell’indifferenza degli uomini.
I campi di sterminio, i famigerati lager non sono purtroppo una leggenda, ma una realtà che non deve essere dimenticata.
In questo senso la lettura di libri come Se questo è un uomo di Primo Levi non solo è opportuna, ma indispensabile e dovrebbe essere oggetto degli studi scolastici, per sapere, per capire, per evitare che un giorno ci siano nuovi olocausti.
Ogni volta che lo apro, che ne scorro le pagine soffermandomi su un punto o sull’altro, ritrovo l’emozione provata nel corso della prima lettura, perché il pregio della narrativa di Levi è di essere non romanzata, ma la descrizione della pura e semplice verità. L’autore, che racconta in prima persona essendo stato rinchiuso ad Auschwitz, non ricorre all’enfasi, né va alla ricerca della facile commozione, ma, con tono quasi distaccato, parla della sua esperienza e, pur descrivendo sofferenze e patimenti, ha il pregio di effettuare riflessioni che donano all’opera una valenza generale, non limitandola a una dolorosa esperienza personale.
In lui c’è pacatezza, desiderio di comprendere per rendere partecipe il lettore di una grande tragedia che supera ogni umana immaginazione.
Le lunghe giornate invernali, coperti da abiti che non riparano dal freddo, l’alimentazione insufficiente, i carichi di lavoro eccessivi, la spersonalizzazione dell’individuo che perde il suo nome, sostituito da un numero tatuato sul polso, portano in pochissimo tempo a un generale abbrutimento, in uno stato quasi vegetativo, dove ciò che conta è solo il presente, essendo il futuro anche prossimo del tutto inimmaginabile. E’ in queste condizioni che all’eccesso emergono le caratteristiche degli individui.
I deboli si lasciano andare, sono le vittime designate delle prossime selezioni fra chi ancora potrà vivere e chi invece sarà avviato alle camere a gas.
I raziocinanti rafforzano il loro spirito di conservazione e operano per sopravvivere giorno per giorno, per lavorare meno, per mangiare un po’ di più, arrivando perfino al punto di collaborare con l’aguzzino. E se fra questi la quasi totalità cerca di instaurare un rapporto con il carnefice che gli consenta di tirare ancora un po’ avanti, ce ne sono altri che, per attitudini, diventano simili alle crudeli SS e questi sono i Kapò, indispensabili peraltro nella gestione del campo di concentramento, vigilato da un ristretto numero di militari nazisti.
Levi ci descrive così una varia umanità, per lo più cenciosa, spettri che si agitano nelle tormente di neve, che s’impantanano nel fango primaverile, che boccheggiano nell’arsura estiva, tutti figuranti di una danza macabra che porterà all’annientamento della dignità umana e alla distruzione del Terzo Reich.
Ci sono pagine che non si possono dimenticare, sopra tutte le ultime, con i russi ormai alle porte e con i nazisti che eliminano gli ultimi prigionieri rimasti, fatta eccezione, per un motivo che non si saprà mai, per i ricoverati nell’ospedale da campo, forse perché ritenuti insanabili. Fra questi c’è l’autore che, questa volta con una commozione che passa dalla pagina all’animo del lettore, ci racconta delle giornate di ritrovata libertà nell’attesa dell’arrivo dell’Armata Rossa. E’ forse l’unico momento in cui, ipotizzando un futuro, l’uomo non è più così pragmatico e l’essere consapevole di esistere ancora, nonostante tutto, lo porta a scrivere della penosa fine di alcuni suoi ultimi compagni di sventura. Riaffiora così, se pur frenata, la pietà “Somogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.”
Se questo è un uomo è un capolavoro?
Lo è, per lo stile narrativo, per il modo di affrontare il tema trattato, per la capacità dell’autore di raccontarci la pura e semplice verità, pur essendo parte della vicenda.
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UNA VISITA INDIMENTICABILE
Ho scelto di leggere questo libro solo dopo aver visitato da pochi giorni Auschwitz e Birkenau, rendendomi conto cosa significa veramente la parola “campo di concentramento”. La lettura appena terminata mi ha fatto rivivere ancora una volta quei particolari e quelle sensazioni che solo una visita diretta può lasciare impresso nella mente. Non dimenticherò per tutta la vita questo giorno, che per me è stato come “toccare con mano” la crudeltà degli uomini, e convincermi purtroppo che tutto questo è successo veramente. Si, perché la prima cosa che viene spontanea chiedersi dopo la lettura di questo libro è come sia potuto succedere una cosa del genere. Non stiamo parlando di scantinati nascosti sotto qualche palazzo di periferia, ma di immensi complessi (in particolar modo il campo di Birkenau), dove tutto era alla luce del sole e quindi molto difficile far passare inosservato. Quindi la responsabilità di queste atrocità sono da imputare anche a coloro che sapevano ma non hanno fatto nulla. Come scrive anche da Levi nel suo libro; “i mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere”
La cosa che mi ha colpito leggendo questo libro, che non avevo colto invece nella visita guidata, durata ben 4 ore, è la determinazione con cui alcuni prigionieri rimanevano attaccati alla propria vita, diventando loro stessi spietati nel confronti di altre persone nello loro stesse condizioni. La legge del Lager infatti diceva: “mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino”. Un concetto forse vecchio come il mondo, che vale anche in natura: il più forte resiste il più debole purtroppo muore. L’unica speranza era infatti quella di RESISTERE!
Vorrei concludere dicendo che sento molto persone dichiarare che preferiscono non leggere o vedere certe atrocità per non soffrire, ma vorrei dire loro che grazie alla conoscenza e a testimonianze come questo libro, abbiamo qualche possibilità di estirpare questi mostri sul nascere.
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Una terribile testimonianza
Questa sarà una recensione difficile, pesante.
Vorrei riportare innanzitutto i versi della prima pagina:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepidi case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza un nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nei vostri cuori
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia che vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Se questo è un uomo è un romanzo autobiografico, è la testimonianza orribile di Primo Levi che ha vissuto in prima persona i campi di concentramento (Auschwitz).
Scrive questo documento, come dice lui, senza desiderio di vendetta, ma per far sapere , per scuotere le coscenze.A differenza dello scrittore a me ha fatto venire una rabbia colossale, vorrei urlare, vorrei che i carnefici soffrissero.
La storia della seconda guerra mondiale, ormai la conosciamo bene, quello che è successo in quei maledetti campi di sterminio lo sappiamo ma non è mai troppo tardi per ricordare e per provare rabbia e chiedere una giustizia che mai arriverà.
Levi ti porta con sé, ti immedesimi, vivi un esperienza intensamente dolorosa, respiri quella puzza di morte, ti sembra di sentire il sapore della zuppa e la vorresti anche tu.
A volte mi vergogno pensando che sono un uomo, come quelli capace di incredibili atrocità.
Non farò un reassunto del libro per due motivi:uno perchè la storia dei lager la sappiamo e due perchè quelle emozioni terribili io non so riportarle, quindi consiglio di leggerlo.
Una lettura ansiosa e vera.
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Un bagliore in mezzo alle tenebre
"Meditate che questo è stato. Vi comando queste parole".
Quello di Primo Levi è uno fra i libri sui campi di sterminio che ogni tanto mi capita di riprendere, perché in qualche modo fa più bene che male e, mentre racconta il buio della ragione, inaspettatamente illumina.
Può capitare all'inizio di un capitolo, alla fine, o nel bel mezzo della narrazione, di leggere una riflessione brillante, o una frase che emoziona, e si ha la sensazione confortante di scorgere un bagliore in mezzo alle tenebre. Allora capisci che essere uomini significa soprattutto questo: riuscire a tirare fuori la luce dall'inferno.
Lo sguardo di Levi si posa su prigionieri e aguzzini con una forza descrittiva e un'acutezza psicologica che si incontrano solo nei grandi scrittori. Per questo il libro è molto più che crudo resoconto di orrore e morte: non c'è speranza, almeno non per chi scrive, ma c'è l'analisi lucida di un'umanità che si muove in un contesto dove ogni regola è scardinata e si lotta solo per la sopravvivenza.
Nelle parole dello scrittore risplende la forza dell'intelletto, che non condanna e non assolve, ma rende magistrale testimonianza "di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all'uomo di fare dell'uomo".
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"Se tu sei un Uomo"
Cercherò di non essere banale e di non ripetere ciò che è già stato detto.
Se è vero che la storia è scritta dagli eroi e dai vincitori,è ancor piu vero che un eroe non è necessariamente un vincitore.
Scegliere di leggere questo libro,significa sapere di non poter più guardare al genere umano allo stesso modo,e,cosa ancor più disarmante,non si puo più credere in se stessi allo stesso modo.
Si,perchè sfogliando le agghiaccianti pagine(e quando Levi parla dell'inverno nel Lager le pagine sembrano fredde davvero)che diventano una ad una sempre piu pesanti e taglienti al tatto,come se la nostra stessa umanità venisse strappata via insieme al ricordo della dignità di quest'"uomo", il lettore non può fare a meno di sentirsi così schifosamente colpevole...!Colpevole di non riuscire nemmeno col piu audace e sudicio dei pensieri ad immaginare cosa significhi sopportare sulla pelle sottile,le ustionanti malvagità della guerra,di QUELLA guerra,quella per mezzo pezzo di pane secco,per un paio di scarpe laide...per dei miserabili resti umani,i tuoi stessi resti umani,che gelano insieme a quel che resta dell'"umanità"di chi incredibilmente aderisce,impassibile ma in fondo diverito, ad una follia virale che sembra non avere confini.
Mi chiedete se "se questo è un uomo" è un libro piacevole? io vi rispondo di no
Mi chiedete se consiglio la lettura,io rispondo assolutamente si,non per saperne di più della guerra,mostrando l'ovvia miserabile compassione verso uno dei deportati nei campi di concentramento,ma per portare con se quel macigno che è la responsabilità di non permettere,nel futuro,a nessuno,di pensare che che in qualche modo la vita di un uomo valga piu della vita di un altro uomo!
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Meditate che questo è stato
Nulla può sfuggire a chi legge questo libro. Non ti lascia indifferente. Ti lascia una ferita aperta e dolente.
Oltre a quanto scritto, dettagliatamente, c'è quel senso di estraneità. Un uomo che vive quell'orrore ed il cui unico modo per sopravvivere è quello di inserirsi in un'altra dimensione, vivendo con lucidità lo strazio ma nel contempo estraniandosi.
Un narratore che semplicemente racconta. Come se non fosse stato lui l'interprete principale. Un narratore che sussurra, senza guardarti negli occhi, tutto ciò che ha visto ma non ti vuol far carico di ciò che ha provato. Lui stesso incredulo che l'uomo sia riuscito ad arrivare a tanto.
E il non cercare pietà per lui porta immediatamente a volerla dare a tutta l'umanità, perché non ci chiede di giudicare, ma ci porta a vivere quell'orrenda sequenza di immagini forti e sussurrate sulla nostra pelle e nel contempo ci chiediamo anche noi, parola per parola, se questo è un uomo...
La sua salvezza che non lo porterà mai più a tornare come prima (e come potrebbe?), ma che inesorabilmente lo porterà al suicidio perché il carico di questa esistenza era troppo anche per lui, passato dall'inferno che si è portato dentro - devastandolo - per tutta la vita.
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L'opera di bestializzazione
Anzichè scrivere delle riflessioni, preferirei riportare solo qualche pezzo del libro, giusto per delineare il concetto base, per far comprendere, a chi lo leggerà, di cosa tratta il libro.
Come prima affermazione troviamo scritto:
"Il Lager è una grande macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare, che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della società."
Sono passati giorni, mesi, un anno e questo è quello che scriverà, alla fine del libro, l'autore:
"Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L'ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L'opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a concempimento dai tedeschi disfatti. E' uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell'uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce."
Questo deve bastare per dimostrare come il Lager è stata una macchina ingaggiata per distruggere non soltanto l'uomo, ma ciò che lo rende tale: la civiltà e la dignità.
Le bestie non sono mai state trattate in questo modo. Leggendo "Se questo è un uomo" ti rendi conto che in un mondo come quello, in una situazione come quella, la morte diventava la benedizione divina.
Mi chiedo come facevano a combattere, ad andare avanti, a cercare di sopravvivere.. Io avrei abbandonato tutto..per sempre!
"Distruggere l'uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice."
Ps. ho messo "Piacevolezza" 3/5 semplicemente per la storia narrata, che in sè per sè è dura e cruenta!
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Per me si va nella città dolente...
Ho atteso molto a recensire questo libro.
Da una parte mi frena un po' di pudore, dall'altra è come se, parlando di questo Testimone, inevitabilmente, spalmassi della salsedine su una cicatrice inesausta.
Lessi questo capolavoro dopo quattro anni che mi trovavo in Italia, ma già conoscevo, ovviamente, la fama di Levi.
Il suo stile tecnico parente stretto del gemizio.
Il suo incubo metascritturale freddo e deciso allo stesso tempo, come il pianto di una lama.
Il suo perenne distacco, che fu quello che lo azzannò.
Levi era un chimico, e come un chimico scriveva.
Era stato arrestato,lui torinese, nelle Valli di Lanzo, dove insieme a colleghi universitari aveva costituito un gruppo partigiano indipendente.
Così avvenne quella che Primo chiamò a suo tempo "la slogatura", la dislocazione.
Auschwitz, capitale della Notte.
Levi ridotto a "tuk"...pezzo.L'oggetto su cui il kapò, che si è sporcato le mani, se le netta con tranquillità. Come se l'uomo fosse diventato "cosa".
Levi che insieme ad un docente universitario ebreo tedesco viene spedito, per sfregio, a svuotare i buglioli. E mentre i due barcollano per il peso dei rifiuti organici, nel momento in cui la neve (quella vera, quella polacca)azzanna le loro vertebre ecco, stranamente, il docente che recita con inflessione germanica:
"Per me si va ne la Città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente...".
La condivisione della morte.
Una morte interiore, non esteriore.
Quella arriverà molto più avanti, nella sua Torino, città amata e odiata.
Città che lo lascerà solo.
Ed eccola,la slogatura.
Il tuk Levi rimane, l'uomo muore.
Non tornerà a casa mai.
Ecco, ho voluto ricordare tutto questo alla vigilia di Natale.
Perché anche là all'Ade faceva freddo, anche là c'era il Natale.
Solo che a nessuno, o a pochissimi, interessava di questa ...gente.
La perduta...gente.
Pio XII (futuro beato) sapeva, Churchill sapeva, gli USA sapevano.
E ora che tanti fanno finta di non aver saputo...be', domandatevi se questo è un uomo.
Non so se la risposta sarà pronta.
Quella di Levi è rimasta scolpita per le scale.
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Commento
Recensire un libro del genere è imbarazzante perché mettersi a commentare e/o “giudicare” una simile opera, anche se logicamente più che positivamente, è quasi peccato comunque visto che è un libro che dovrebbe stare in tutte le biblioteche, pubbliche e private, in tutte le scuole, che tutti dovrebbero leggere.
Primo Levi viene imprigionato ad Auschwitz nel '44 e per una serie di circostanze, per fortuna, per capacità e istinto di sopravvivenza è tra i pochi che possono raccontare l'esperienza. Secondo me sopravvive perché il destino, il fato, il cielo, chiamiamolo come ci pare, aveva deciso che lui doveva far sapere all'umanità, in questo e altri libri, cosa è stato in grado di partorire la mente umana, a quale grado di barbaria e mostruisità è arrivato il genere umano con Hitler e, come titola un altro libro, con “I volenterosi carnefici di Hitler”.
Il libro è un diario, a memoria, scritto dopo, ma una memoria fresca, vivida, come può essere di cose, di fatti, che ti segnano per sempre, che gni giorno, ogni notte, presumo, Levi ha rivissuto per tutta la vita fino a quando, forse proprio per non riviverle e soprattutto per non vedere più la tendenza a dimenticarle o a non crederle da parte di altri, si è suicidato.
E' una prosa semplice, pacata, praticamente senza astio e odio per i suoi carnefici e proprio per questo straordinariamente efficace e sconvolgente nonché anche apprezzabilissima dal punto di vista narrativo. Il racconto di come fu estirpata, sottratta, da ogni uomo la dignità e da come furono umiliati, degradati, offesi, ridotti a meno che animali o cose, uccisi psicologicamente, prima ancora che materialmente, milioni di uomini, scientificamente, con metodo e lucida organizzazione.
“Voi che vivete sicuri, nelle vostre tiepide case. Voi che trovate, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome. Senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo, come una rana d'inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole, scolpitele nel vostro cuore, stando in casa, andando per via, coricandovi, alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.”
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Un pugno allo stomaco
Primo Levi ha ventiquattro anni, quando viene catturato a Torino e deportato ad Auschwitz. Sarà tra i pochi a tornare e con questo testo lascia una testimonianza indelebile all'umanità intera sui campi di sterminio nazisti e sul relativo annientamento fisico e psicologico di uomini la cui unica colpa era di essere ebrei.
E' un libro che raccomando di leggere a tutti coloro che non l'avessero ancora fatto ed in particolar modo ai giovani, per conoscere e ricordare gli orrori perpetrati dagli uomini sui loro simili in nome di ideologie criminali.
Riporto di seguito un brano “ Si immagini un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi diritti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede, sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso...”
Una testimonianza forte, un pugno allo stomaco, ma questa è la nostra storia.
Da leggere e rileggere.
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