Il Gattopardo Il Gattopardo

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LuigiF Opinione inserita da LuigiF    22 Ottobre, 2022
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Semplicemente un capolavoro

Un grande capolavoro della letteratura propone sempre molteplici temi e presenta diverse chiavi di lettura. Il Gattopardo va annoverato tra i grandi capolavori del '900 italiano e a questa regola non fa eccezione.
Anzitutto, il declino di una società descritto con ironia graffiante e a volte persino feroce. L' aristocrazia feudale siciliana, dopo secoli di cristallizzato e incontrastato dominio, si vede soppiantare dall'emergere di una borghesia cittadina più lesta ad accodarsi ai vincitori in casacca rossa. Questa borghesia, che in fondo ambisce soltanto a farsi aristocrazia essa stessa, morde le caviglie ai potenti di prima, ma ben presto ne erediterà, oltre agli averi, pure i difetti. La celebre massima secondo la quale "tutto deve cambiare affinche' nulla cambi" ha valenza se inteso con gli occhi e i tempi lunghi della Storia, ma per ogni epoca, esistono vincitori e vinti, esaltati e umiliati quasi che il placido incedere della umanità sia in realtà frutto di continue turbolenze.
Sullo sfondo, Tommasi di Lampedusa pone l'atavico immobilismo della gente di Sicilia: un popolo dormiente incapace di cambiare perché intimamente convinto della propria superiorità. Come i loro predecessori, i piemontesi, ne' primi ne' ultimi invasori di quelle terre aride, falliranno nell'intento di portarvici una qualsivoglia modernità.
A questi temi si aggiungono e si intrecciano in un perfetto affresco storico impietose descrizioni dei cronici mali italici, delle giravolte opportunistiche di chi lesto sale sul carro dei vincitori, della meschina vanagloria dei nuovi potenti, dell'ipocrisia dei finti rivoluzionari.
Ciò che pero' più ho amato in questo romanzo è la raffinatissima analisi psicologica dei personaggi.
In primis del principe di Salina. In lui l'indole di uomo "astratto" combatte contro la necessità di adempiere ai compiti di uomo sociale. Assai più attratto dalle immutabili leggi degli astri, dalle profondità del sapere matematico, dalla violenza delle albe siciliane che accompagnano le solitarie battute di caccia, il principe sa di non poter sottrarsi alle pene del vivere sociale. Quale noia nel presiedere le dinamiche degli affari o nel risolvere logoranti beghe familiari; quali sofferenze nell'assistere al trito teatrino dei giochi politici o nel partecipare a sciocche feste di società, quale orrore nel non riconoscersi nei propri simili! Il principe è uomo solo e la sua solitudine malinconica, in cui l'immagine della morte si fa via via più amica, ha un che di eroico.
Padre Pirrone è altra figura chiave del racconto. Unico a cogliere appieno la natura malinconica del principe, la descrive di fronte a un compaesano addormentato, in uno dei passi memorabili del romanzo A differenza dell'omologo Manzoniano, Padre Pirrone è anello di congiunzione tra due mondi brutalmente separati: quello astratto dell'aristocrazia imbelle e indolente e quello plebeo ove il lavoro abbruttisce e la miseria incattivisce.
Lo scaltro e volgare Don Calogero, prototipo del "nuovo" che avanza, il dinamico e ambizioso Tancredi, l'arrivista Angelica, cui tutto si perdona grazie alla incomparabile bellezza sono funzionali alla narrazione e, seppure tratteggiati con inarrivabile eleganza, lasciano meno il segno.
A questi si aggiungono personaggi minori perfettamente incasellati in un affresco sociale di grande efficacia: Don Ciccio Tumeo, la cui volontà è tradita nel segreto dell'urna del plebiscito per l'annessione, il pomposo generale Pallavicino feritore di Garibaldi sull'Aspromonte, il timido burocrate piemontese Chevallier la cui ingenuità soccombe di fronte al disincanto del Principe ... e tanti altri ancora.
Discorso a parte merita Concetta: figlia del Principe, la giovane si vota al nubilato dopo essersi vista respinta da Tancredi. Se c'e' un simbolo della fine di un epoca, della disgregazione di un classe sociale, vittima di se stessa prima ancora che del nuovo che avanza, esso va ricercato in questa triste figura di zitella orgogliosa che finisce i suoi giorni a contemplare false reliquie accumulate per la cappella privata. Le enormi casse verdi contenenti la dote per un matrimonio mai celebrato, custodiscono tracce e cimeli di un mondo che si dissolve tra polverosi ricordi. Quale errore aver escluso quest'ultimo capitolo nella pur bellissima trasposizione cinematografica di Visconti!

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Cathy Opinione inserita da Cathy    13 Agosto, 2021
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«Un mucchietto di polvere»

Esistono romanzi così profondi, complessi, ricchi e stratificati che per quanto si possa leggerli e rileggerli attentamente si ha sempre la netta sensazione di non riuscire a comprenderli fino in fondo. Le sfumature, i dettagli, i livelli di lettura sono così tanti e così sottili da lasciare quasi disorientati. E se già capire davvero un libro del genere è una faccenda complicata, scriverne una recensione, poi, è ancora più difficile. "Il Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa è indubbiamente una di queste opere.
Si può dire che "Il Gattopardo" racconta la decadenza della nobiltà borbonica attraverso le vicende dei principi Salina: la famiglia aristocratica protagonista della vicenda riesce infatti a conservare intatti il prestigio e i privilegi all'indomani del 1861, ma al contempo vede i patrimoni disperdersi e gli immensi feudi disgregarsi un giorno dopo l'altro, come una zolla di terra stritolata in un pugno, davanti alla spinta incalzante di una modernità che i sonnolenti aristocratici del Sud non riescono a capire né a seguire.
Si può dire che racconta la delicata fase di passaggio dal Regno delle due Sicilie all'Unità d'Italia e, allo stesso tempo, l'ultima fase della parabola esistenziale del principe Fabrizio, quasi uno specchio che riflette il tramonto del mondo borbonico e ne condensa il significato essenziale. A questi temi fondamentali si ricollega il senso di morte e di decadenza che abbraccia entrambe le vicende, quella di Fabrizio e quella della vecchia nobiltà giunta al termine del proprio ciclo vitale e costretta a mutare forma per sopravvivere. Il profumo dolciastro del disfacimento, tanto nauseante quanto seducente, sembra giungere a Tomasi di Lampedusa direttamente dalla temperie decadente ottocentesca, permea il racconto e trova l’incarnazione perfetta nell’amatissimo cane del principe Fabrizio, Bendicò. «Fai attenzione», scrive l’autore in una lettera a un amico, «il cane Bendicò è un personaggio importantissimo ed è quasi la chiave del romanzo». Così importante da finire ridotto a «un mucchietto di polvere», come tutto il resto, il corpo stesso del principe, lo splendente Tancredi o le reliquie gelosamente custodite dalle vecchie principesse.
O ancora, protagonista del racconto è il necessario compromesso tra il vecchio e il nuovo: quest'ultimo viene sì accolto, perché bisogna farlo, perché altrimenti calerà come una scure spietata sulla testa di chi lo rifiuterà, ma per indirizzarlo nella direzione giusta, che tutto sommato non è poi tanto diversa da quella precedente. E il latte dal sapore dolcissimo della sopravvivenza aiuta a mandare giù anche i bocconi più amari, come un matrimonio molto al di sotto della propria classe sociale o la protezione e l'amicizia di soggetti che nel mondo di prima non si sarebbero mai potuti neanche avvicinarsi ai Salina.
"Il Gattopardo", insieme ad altre opere come "I Vicerè" di Federico De Roberto, segna la nascita di un nuovo modo di rappresentare la storia nel romanzo: essa non è più finalizzata al progresso e alla felicità dell'uomo, secondo la concezione ottimistica tipicamente ottocentesca, al compimento delle "magnifiche sorti e progressive", ma è una macchina spietata, insensata, che travolge gli uomini e i destini privati e non fa che portare nuove sofferenze, nuove ingiustizie, nuove tragedie.
Quale di queste interpretazioni è quella principale? Tutte, e nessuna. Tutte sono essenziali, ciascuna svela una prospettiva fondamentale del racconto, ma non può fare a meno delle altre, nessuna è in grado di abbracciare l'opera nella sua interezza e svelarne ogni segreto. Capire davvero, fino in fondo, un romanzo del genere è impossibile. Ci sarà sempre qualcosa che sfugge. Tutto quello che si può fare è abbandonarsi al piacere di una scrittura straordinaria, capace di indagare le pieghe più minute dell'animo umano con un'acutezza, una lucidità e una dolorosa compassione che hanno pochissimi uguali in letteratura.
Forse l’unica, possibile interpretazione globale si intravede nel cane Bendicò, che, come afferma l’autore, è «quasi la chiave del romanzo» ("quasi", appunto, perché neppure questa possibilità di lettura può dare il senso pieno del romanzo senza le altre): tutto passa, tutto cambia, tutto muore o si trasforma. Di tutto ciò che gli uomini desiderano e amano e aspettano e tramano per ottenere, alla fine, non rimane nulla. L'amore, il potere, la guerra, il denaro, la gloria. Tutto, perfino le illusioni, finisce così, in un misero «mucchietto di polvere», proprio come il povero Bendicò. La vita sembra non avere un senso ultimo. Eppure, se anche si accettasse questa amara consapevolezza, in fondo che cosa cambia? La vita umana sarà pure una corsa affannata verso il nulla, ma cos'altro potremmo fare se non viverla?

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lapis Opinione inserita da lapis    04 Giugno, 2020
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Sole e polvere

Sicilia, terra impastata di sole e polvere. Violento, sfacciato, narcotizzante, è il sole il vero sovrano dell’isola, che per sei mesi infuoca l’aria, prosciuga ogni goccia di energia e tutto avvolge in una nube di voluttuosa immobilità. La polvere è quella che copre la campagna arida così come l’argenteria e le porcellane degli imponenti palazzi aristocratici, simbolo del fasto sbrecciato e scolorito di un ceto che contempla il proprio declino.

Sono passati esattamente centosessant’anni da quel Maggio 1860 in cui il Principe Fabrizio di Salina, con il suo cipiglio sicuro e autorevole, osservava il mondo che aveva sempre conosciuto sgretolarsi davanti ai suoi occhi. Lo sbarco dei Mille, il Plebiscito, la crisi della nobiltà sono gli eventi storici che fanno da spunto a un romanzo in cui la storia rimane di fatto sempre sullo sfondo, percepita solo attraverso la presa di coscienza e l’interiorizzazione che ne fa il protagonista.
La sensazione che pervade le pagine è dunque una disincantata malinconia, quella di chi, trovandosi a cavallo tra due mondi, si trova a disagio in tutti e due. La vecchia aristocrazia, che corteggia la morte, ciecamente ostile al cambiamento, dall’alto della propria orgogliosa vanità. E la nuova classe di ricchi, grossolana e meschina, pronta, in nome dell’ambizione e dell’avidità, a cancellare con un colpo di spugna quell’apparato di memorie, tradizioni e valori che hanno sorretto il vecchio ordine.

“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.

A rendere “Il Gattopardo” un capolavoro non è la storia, ma l’uomo. L’intelligente ironia, il fascino seduttivo, l’animo inquieto, la rabbia orgogliosa: sentimenti che animano e rendono indimenticabili i suoi personaggi. La partecipazione di Tomasi di Lampedusa, che vi ha versato gran parte del proprio vissuto, saturando le pagine di dettagli, atmosfere, impressioni sensoriali. Alla sua pubblicazione, nel 1958, il romanzo fu pesantemente criticato perché stilisticamente e ideologicamente distante dal gusto del tempo, eppure, a distanza di decenni, esso dimostra la sua grandezza, rivelandosi una lettura capace ancora oggi di conquistarci con la sua elegantissima bellezza e il suo fascino decadente, che parla del disfacimento di un’epoca, di una famiglia ma, soprattutto, del tramonto di un uomo.

“Ho settantatrè anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due… tre al massimo. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni”

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MCF Opinione inserita da MCF    10 Settembre, 2019
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Nobiltà e ricchezza, due mondi a confronto.

Un grande romanzo ambientato nel periodo di transizione dal vecchio regime al nuovo che vede l’Italia unita grazie a Garibaldi; è imperniato sulla figura del principe Fabrizio Salina che si distingue nella società siciliana per il sangue blu, la figura possente e l'aspetto nordico ereditato dalla madre tedesca; ma non solo: è anche abile matematico e astronomo a differenza dei suoi avi. Queste peculiarità si traducono in una profonda capacità di analisi dell'ambiente circostante che gli permette di capire i limiti della mentalità sicula e prevedere l'evoluzione sociale e politica dell’isola; nessuno dei discendenti erediterà la sua intelligenza analitica. Altri personaggi che si distinguono sono l’adorato nipote Tancredi, bello affascinante ma senza patrimonio, Angelica, la futura moglie, figlia del sindaco che è un uomo del popolo, avido, ricco e interessato alla nobiltà della casata. Sullo sfondo, la moglie del principe, Maria Stella, bigotta e soggetta a crisi d’isterismo, le tre figlie tra cui Concetta, la maggiore innamorata di Tancredi e ricambiata che non perdonerà mai al padre di averla sacrificata per dotare l’amato della ricchezza che gli manca per soddisfare i suoi capricci. Dal libro è stato tratto il film di Luchino Visconti dal cast eccezionale: Burt Lancaster nei panni del principe, Claudia Cardinale nei panni della bellissima Angelica, Paolo Stoppa che interpreta il sindaco e Alain Delon nei panni di Tancredi.
Dal testo:
“Lui, il Principe, intanto si alzava: l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l’orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati. Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava, nelle case abitate dai comuni mortali, il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; a tra Villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. dita, d’altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e accarezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali e cercatori di comete, che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero”. Pag. 33.
“Poco dopo venne Russo il soprastante, l’uomo che il principe trovava più significativo tra i suoi dipendenti. Svelto, ravvolto non senza eleganza nella bunaca di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi, era per lui la perfetta espressione di un ceto in ascesa. Ossequioso del resto e quasi sinceramente devoto poiché esercitava le proprie ruberie convinto di esercitare un diritto. Fece cenno a Russo di sedere, lo guardò fisso negli occhi. “Pietro, parliamoci da uomo a uomo, tu pure sei immischiato in queste faccende?”. Immischiato non era, rispose, era padre di famiglia e questi rischi sono roba da giovanotti come il signorino Tancredi. “Si figuri se nasconderei qualcosa a vostra eccellenza che è come mio padre”. (Intanto, tre mesi fa, aveva nascosto nel suo magazzino, centocinquanta ceste di limoni del Principe e sapeva che il Principe lo sapeva”.

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leogaro Opinione inserita da leogaro    29 Giugno, 2019
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Elogio della decadenza

Il testo contiene spoiler.

’’Nunc et in hora mortis nostrae. Amen. La recita quotidiana del rosario era finita.” Questo l’incipit di un classico della letteratura italiana, reso ancor più celebre dalla trasposizione cinematografica con Claudia Cardinale.
1860. La Sicilia è ancora sotto il Regno Borbonico e Garibaldi prepara la Spedizione dei Mille. Il nobile Principe Fabrizio Corbera è colto ed elegante, ma anche burbero, altero e spesso tormentato da pensieri funerei. E’ discendente della nobile famiglia Salina, il cui stemma è un gattopardo, e conduce un’agiata vita di possidente con la sua famiglia, di cui il prediletto è il nipote Tancredi Falconeri, segretamente innamorato della cugina Concetta, figlia di Fabrizio. Garibaldi sbarca in Sicilia: lo scapestrato Tancredi si schiera al suo fianco e diventa presto ufficiale dell’esercito. Fabrizio vive questi cambiamenti con l’amara consapevolezza dell’inevitabile declino del ceto cui appartiene; celeberrima l’affermazione: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. I fermenti di rivolta sono diffusi in tutta Palermo: molti nobili fuggono, ma non Fabrizio, rassicurato dal nipote. Proprio grazie all’intercessione di Tancredi presso i Garibaldini, Fabrizio e la sua famiglia possono trasferirsi alla residenza di Donnafugata per le vacanze estive. Parlando con l’amministratore, Salina viene a sapere che il sindaco Calogero Sedara, in rapida ascesa politica, sta diventando ricco quanto lui. Decide quindi di conoscerlo, invitandolo a cena. Egli si presenta con la giovane figlia Angelica, che colpisce tutti per la sua straordinaria bellezza. Durante la cena, Tancredi racconta le recenti imprese garibaldine, ma Concetta lo rimprovera aspramente per i particolari troppo cruenti. Il giovane, così, si concentra su Angelica, che non rimane insensibile al suo fascino: di nuovo, Concetta riprende più volte il cugino per gli espliciti apprezzamenti su Angelica, senza far trasparire la “cotta” che prova per lui. Pochi giorni dopo, Tancredi tornerà a combattere nell’esercito piemontese che punta verso Napoli. Da Caserta, dove stava combattendo per scacciare i Borboni, Tancredi scrive una lettera allo zio Fabrizio in cui gli rivela il crescente amore per Angelica, pregandolo di intercedere presso il padre Calogero Sedara per averla in moglie. Il Principe si convince che l'unione con l’emergente classe sociale borghese possa capovolgere il destino della sua nobiltà avviata ad estinguersi, donandole vigore nuovo: “Noi fummo i gattopardi, quelli che verranno sono gli sciacalletti e le iene. E tutti quanti, gattopardi sciacalletti e iene, continueremo a crederci il sale della Terra”. Così, Fabrizio presenta la proposta di Tancredi a Calogero: anch’egli, convintosi dei reciproci vantaggi, acconsente. Alla notizia, Concetta reagisce con malcelata rabbia, credendo il suo amore sacrificato dal padre per salvare il prestigio della casata Salina. L’organista Ciccio Tumeo confida a Fabrizio di aver votato “No” al plebiscito per l’annessione ai Savoia, mentre il sindaco Sedara aveva proclamato il risultato come plebiscitario al 100%, falsando i voti: in Fabrizio, si radica ancor più l’immagine della scaltrezza del nuovo ceto che sta sgomitando per il potere. Finalmente torna a casa Tancredi, finito nell’esercito regolare dei Savoia dopo lo scioglimento dei Garibaldini. Tancredi e Angelica si amano senza trascurare, entrambi, quanto sia proficua la loro unione per soddisfare le rispettive ambizioni politiche e sociali. Dall’incontro tra i Sedara e i Falconeri entrambi cambiano: i primi diventano più raffinati, i secondi acquistano caratteristiche di economicità, che però ne incrineranno la storica deferenza del popolo. Un giorno, da Torino arriva un delegato reale per chiedere al Principe Salina di diventare Senatore del Regno d’Italia. Visti i vecchi legami coi Borboni e privo della spinta innovatrice ora necessaria, Fabrizio rifiuta proponendo al suo posto Calogero Sedara, ritenuto più scaltro e adatto alla nuova situazione politica creatasi. Ad un importante ballo mondano palermitano, magnificamente trasposto nel film di Visconti, Fabrizio balla con Angelica e la presenta come promessa sposa del nipote Tancredi.

--- inizio spoiler ---
1910. Sia Fabrizio che Tancredi sono morti, Angelica frequenta l’alta società borghese. Concetta, sempre infelicemente nubile, è rimasta proprietaria di Villa Salina. Ma il prestigio della casata è sempre più rarefatto: dei fasti passati, rimangono ormai soltanto buoni rapporti con il Clero. Negli anni della vecchiaia, Concetta riceve la visita del senatore Tassoni, ex commilitone di Tancredi, il cui racconto la riappacifica con i suoi ultimi 50 anni di vita, in particolare col ricordo di tutti quelli che riteneva responsabili della sua infelicità. Nella riabilitazione di Fabrizio, Angelica e Tancredi, Concetta chiude un’esistenza di amari ricordi vivendo gli ultimi scampoli della sua vita in uno stato di completa apatia.
--- fine spoiler ---

Romanzo piacevole, scritto con uno stile ricercato, caratterizzato da una narrazione generalmente lenta e talvolta fluida, con cambi di ritmo in base alle diverse situazioni. La scrittura è attenta a fornire al lettore vivide immagini dei luoghi per una piena percezione del paesaggio, degli ambienti, degli odori, delle situazioni. Libro che non va letto in modo distratto, né con una certa approssimazione: è una lettura che merita attenzione, per assaporare le descrizioni, immergerci nel contesto, vivere le scene. Non una lettura per sotto l’ombrellone, a mio avviso, ma un libro per riflettere, anche alla luce dei temi universali (amore, delusione, scaltrezza, ideologie…) che in esso vengono trattati.

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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    10 Dicembre, 2018
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Monumento all’umana caducità

Sono tornato alle pagine del Gattopardo dopo tanti anni, trovando la conferma, una volta di più, di quanto sia bello e necessario continuare a leggere e rileggere i classici.
Questa volta ho scelto la versione in audiolibro, splendidamente interpretata da Toni Servillo. Una versione che esalta la parabola esistenziale del Principe di Salina, quel suo rimirar le stelle a fronte della pochezza delle vicende umane.
L’arcinota denuncia del cinismo e dell’opportunismo che caratterizzano ogni epoca di veloce trasformazione (quel “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” ormai diventato proverbiale, tanto che ha finito per rinchiudere le bellissime pagine di questo romanzo in un recinto troppo angusto) si trasforma, in questa mia nuova “lettura”, nel disincanto di chi capisce tutti i limiti del vecchio come del nuovo ordine e li osserva con malinconico distacco.

Memorabili i dialoghi nei quali vediamo all’opera il Gattopardo nei suoi rapporti con i Borboni (l’udienza con re Ferdinando) , con i piemontesi (la visita del prefetto Chevalley, in cui rifiuta il seggio senatoriale), e con i suoi dipendenti (“questi liberalucoli di campagna”) tanto indolenti quanto calcolatori, avidi e rapaci, che rappresentano il ceto emergente, lesto a cogliere l’occasione per saltare sul carro del vincitore (“le rondini avrebbero preso il volo più presto”), miseri “sciacalletti e iene”, destinati a rimpiazzare i gattopardi e a costituire la futura classe dirigente soprattutto in forza dei loro limiti e della loro inconsapevolezza.
Don Fabrizio si trova più a proprio agio con uomini schietti e sinceri, “snob” ante litteram, come l’organista don Ciccio Tumeo, che sdegnati dal conformismo truffaldino dei tempi nuovi preferiscono aderire tardivamente alla fazione sconfitta (“ero un fedele suddito, sono diventato un borbonico schifoso”) e trova intellettualmente e spiritualmente più stimolante il rapporto con esponenti di un potere eterno e carico di storia come il gesuita padre Pirrone. Solo per dovere sociale subisce la frequentazione, in tempi diversi, tanto della decrepita aristocrazia in disarmo, quanto dei rozzi e incolti uomini nuovi, come quel don Pietro Sedara che con rassegnato senso di ineluttabilità accoglie persino nella propria famiglia.

A plasmare il romanzo, più che i fatti e gli avvenimenti, sono soprattutto i pensieri del Principe, l’indulgenza verso la debolezza umana (“non era lecito odiare altro che l’eternità”), il continuo richiamo della sensualità (“pecco per non peccare più”) e le numerose riflessioni sulla Sicilia (“questo è il paese degli accomodamenti”), sulla sua storia (“sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate”) e sui siciliani (“in Sicilia non importa far male o far bene, il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare”).

All’ombra del Principe, a movimentare, contestualizzare ed intervallare il flusso principale della narrazione, si consumano anche vicende minori, come lo struggimento dickinsoniano della figlia Concetta, infelicemente innamorata del cugino Tancredi, o come il dramma privato di padre Pirrone, chiamato a risolvere nel più tradizionale dei modi una vicenda d’onore che coinvolge la sua famiglia.
In conclusione, un romanzo che pare un monumento alla caducità umana, che si apre nel mese di maggio 1860 tra gli eccessi di un giardino dagli odori fin troppo prepotenti e nauseabondi e si chiude esattamente cinquant’anni dopo nello stesso mese, tra ossa, carcasse imbalsamate e polvere da gettare nell’immondizia.

Non stupisce che alla sua uscita, negli anni ’50 della ricostruzione post bellica, non abbia incontrato lo spirito del tempo, né che molti addetti ai lavori abbiano criticato l’argomento passatista, l’orientamento antistorico, lo stile decadente e poco innovativo. A noi che leggiamo per puro diletto, Tomasi di Lampedusa regala invece una prorompente sensazione di bellezza e immortalità, tuttora in grado di affascinarci, anche per via del continuo filo di ironia, che non viene mai meno. “Ho settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto un totale di due, tre al massimo. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare, tutto il resto: settant’anni”.

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ChiaraC Opinione inserita da ChiaraC    15 Ottobre, 2018
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Non leggerti i riassunti da Wikipedia, compratelo

Ma ne vogliamo parlare? Il mio voto è 10. Una perla: intelligente, parole pesate al punto giusto, metafore raffinate.
Un gattopardo è lo stemma della famiglia Salina, casata fedele ai Borbone che, ahimè, si trova a vivere il brusco passaggio dal Regno delle due Sicilie all'Unità d'Italia. Il punto di vista è quello di Fabrizio, principe di Salina, nobile indolente e conscio che la vita come lui la conosce è ormai destinata a finire.

Ma della figura di Fabrizio ne vogliamo parlare? Uomo che passa le sue giornate in un pendolo che oscilla tra noia e insofferenza verso la realtà che lo circonda. La moglie casta e pura che grida "Gesùmmmaria" durante i rapporti. Le figlie bigotte. Il prete che gironzola nel casato dei Salina. Una realtà borbonica descritta in modo lucido e devastante.

E della figura di Angelica ne vogliamo parlare? Vi siete accorti di che perfetta perfetta metafora sia dell'Italia nascente? Ha studiato al Nord Italia ed è arrivata al Sud seducendo gli uomini con la sua bellezza, la sua novità, con la sua giovinezza. Eppure sotto sotto Angelica è una volgarotta, durante le cene cerca di contenersi per non togliersi il cibo dai denti con le unghie.
Sarà fortunata solo perchè gli uomini le attribuiranno le qualità che simulerà con maestria, e sposerà Tancredi, delfino di casa Salina, che guarda caso si è convertito ed è passato da essere un pro-Borbone a promotore dell'Unità d'Italia.
E Angelica, come si scoprirà nel libro, ha le gambe che "sono sempre state troppo corte rispetto al corpo". Non vi dice nulla questo particolare?


Lo stile è introspettivo, leggero, il libro scorre che è un piacere. Ma Elio Vittorini come ha fatto a lasciarselo scappare?
Ragazzi, questo libro è una perla da leggere in particolar modo se si è meridionali, in modo da capire cosa ha causato e come si è arrivati al disfacimento delle due Sicilie.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    01 Settembre, 2018
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L'ultimo Gattopardo

“Il Gattopardo” fu scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa fra il 1954 e il 1956. Il manoscritto venne però respinto dall'editore Mondadori e da Elio Vittorini per conto dell'editore Einaudi fra il 1956 e il 1957, anno in cui l'autore morì. Nel 1958 l'editore Feltrinelli pubblicò l'opera e il successo fu grandissimo, anche se, purtroppo, post mortem. Il romanzo vinse il Premio Strega nel 1959 e nel 1963, Luchino Visconti ne trasse un celebre film, interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon.
La vicenda si apre nel maggio 1860, pochi giorni prima dello sbarco dei Mille ed è ambientata in Sicilia. Viene raccontato il momento del passaggio dal governo dei Borbone all'unificazione italiana dal punto di vista di una famiglia della grande nobiltà palermitana, i Salina, il cui stemma nobiliare, è, appunto, un gattopardo. Il protagonista è don Fabrizio, un uomo ormai di mezza età all'inizio della narrazione, colto e aristocratico. Ha avuto sette figli ma il giovane a cui è più legato è il nipote, figlio di sua sorella, Tancredi, rimasto orfano di entrambi i genitori e del quale il re Borbone lo aveva nominato tutore. Tancredi è un ragazzo brillante e molto scaltro, ironico ed irresistibile. Sarà proprio lui a pronunciare la celebre frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, mentre sta preparandosi ad unirsi ai Mille, non certo perché seguace delle idee democratiche e repubblicane ma perché, essendo molto furbo, aveva già capito quali sarebbero stati i vincitori e si apprestava a saltare sul loro carro per salvaguardare i propri privilegi. In seguito Tancredi trova la sposa ideale nella bellissima Angelica, una borghese molto ricca che faceva proprio al caso suo, visto che lui, pur essendo un Principe, non aveva un soldo.
Non sorprende che il romanzo sia stato inizialmente rifiutato dai principali editori italiani degli anni Cinquanta del Novecento. Nel clima letterario di allora “Il Gattopardo” si collocava come un'opera fuori contesto, con uno stile e dei contenuti del tutto originali e diversi rispetto alla situazione storico-culturale di quegli anni. Questo ce lo fa apprezzare anche di più, se possibile.
Indimenticabile la figura del principe Fabrizio, intellettuale pessimista e profondamente disilluso, che si accinge a spietato osservatore della realtà siciliana, in cui sembra non scorgere nessun segno di miglioramento con il procedere del tempo e della storia. E tanto più è pessimista verso gli uomini quanto è in grado di provare conforto e sollievo attraverso le stelle, i pianeti, la natura ed anche la morte, accolta come parte indissolubile e necessaria della vita stessa.
In conclusione quindi, un'opera di grande spessore letterario, che non possiamo non leggere o rileggere con grande piacere e soddisfazione intellettuale.

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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    14 Aprile, 2017
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Il Gattopardo

È un romanzo storico che si legge e si rilegge sempre volentieri per la memorabile descrizione della Sicilia risorgimentale.
L'austero ed elegante stile narrativo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si carica di una ulteriore dose di malinconia nell'edizione audiolibro letta da Toni Servillo, grazie alla sua voce ideale per narrarne il prezioso contenuto. IL GATTOPARDO, pubblicato postumo nel 1958, è stato un autentico caso letterario che ha reso immortale l'opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di quest'unico memorabile romanzo.
È il contenuto l'elemento fondamentale dell'opera, reso celebre anche grazie allo stile narrativo vibrante, fortemente descrittivo.
IL GATTOPARDO del titolo è sia la figura animalesca che troneggia sullo stemma araldico dei Salina, sia il personaggio del Principe, Fabrizio di Salina. È quest'ultimo la colonna portante di una famiglia destinata sempre più a crollare dopo la sua dipartita. È un uomo forte, energico, passionale, già in là con gli anni, fiero della sua posizione, ostinatamente attaccato alla sua nobiltà ormai in decadenza. A lui si contrappone il giovane nipote, Tancredi, con le idee più aperte e innovative sull'Italia che si sta formando.
Un'altra figura che lascia il segno è quella della bellissima Angelica, figlia di Don Calogero Sedara, un rozzo, ricco e spregiudicato signorotto di Donnafugata, il quale, grazie alla sua ricchezza, sta comprando l'intero paese.
Tanti sono gli eventi, narrati dettagliatamente o lasciati intuire, che vengono sviluppati e raccontati dalla perfetta narrazione di Tomasi di Lampedusa. Tanti gli esempi perfetti di connubio tra forma e contenuto che IL GATTOPARDO contiene.
Memorabile nelle tante descrizioni affrescate è la Sicilia, da leggere tra le righe, le pagine i capitoli, ma percepita perfettamente attraverso i sensi. Colori, odori e sapori di Sicilia sono altrettanto co-protagonisti delle vicende narrate.
La storia narrata è “speciale” in un modo tutto suo o, quantomeno, è da considerare raccontata in modo speciale. È la vicenda della nascente Italia vista dalla parte di coloro che stanno diventando i decadenti, “perdenti” di un'epoca di sfrenato rinnovamento. È la storia di una stirpe di sangue blu che sta perdendo il suo colore, il suo luccichio, svanendo nella polvere dei tempi.
IL GATTOPARDO è un'opera di altissima letteratura, un libro di storia, un modello di stile, una filosofia della condizione umana, un racconto della Sicilia e dei siciliani. È un romanzo storico che merita di essere apprezzato anche in questa mirabile edizione audio.

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Romanziere Opinione inserita da Romanziere    23 Marzo, 2016
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Letteratura italiana del '900

Si sono versate fluenti parole a proposito di questo romanzo, a un certo punto del quale, dentro un'innocua parentesi, compare un avverbio di tempo che pare specificare quale sicilianità Tomasi di Lampedusa stia cercando di ritrarre: «i Siciliani (di allora)». Questa precisazione invece -da buon paradosso- non fa che estendere al di là di ogni limite temporale la valenza di un'opera incentrata sul concetto di inevitabile trasformazione. L'autore sfogliando cinquant'anni di storia umana (1860-1910) fissa sì lo sfogliarsi, petalo dopo petalo, dell'aristocrazia siciliana, ma di fatto trascende il complesso -e forse impossibile- mutamento dei siciliani in italiani.
A differenza di quanto si potrebbe immaginare infatti, nel romanzo, il rapporto fra componente storica e narrazione vede la prima al servizio della seconda; questo poichè tutta l'opera è in fondo un'allegoria esistenziale della condizione umana. Agli occhi del lettore il Gattopardo (il protagonista Don Fabrizio Corbera Principe di Salina, figura possente nel corpo e nello spirito) è legittimato ad essere grande per discendenza, ceto, rappresentanza, meriti, ma diviene immortale in quanto consapevole della propria caducità.
Una sicilia impervia nei luoghi e nello spirito fa da sfondo alle poetiche e malinconiche descrizioni che rendono il romanzo nostalgico come nostalgica è la disillusione. E allora per Tancredi e Angelica figli del compromesso storico l'amore «si richiudeva nel silenzio, striato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per desiderate paure, per un aderire rassicurante delle membra».
La scrittura di Tomasi è limpida, le sue similitudini intense. Durante le otto parti del romanzo nulla è mero riempitivo: ogni personaggio financo un cane, ogni comparsa, ogni luogo, ogni stanza, gesto, dettaglio, raggio di luce è posto dalla parte giusta della bilancia per far quadrare un meccanismo letterario possente.
Così una caratterizzazione dei personaggi tra le più vivide della letteratura italiana dai tempi dei Promessi Sposi, si unisce a un gusto narrativo simile (a mio avviso migliore in quanto magico nell'autenticità) a quello che di recente ha trovato consenso di ampio pubblico fra le pagine di Gabriel García Márquez.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    07 Luglio, 2015
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Declini spaventosamente sincroni

Provo una certa amarezza se penso che l'autore è morto soltanto un anno prima della pubblicazione di questa sua opera, annoverata tra i grandi capolavori italiani, narrante un importante periodo storico della nostra terra.
"Il Gattopardo" è un pó l'affresco della nascita del Regno d'Italia, della caduta borbonica, dell'ascesa di Garibaldi, della fine dei casati e dei feudi italiani. Questo affresco prende vita osservando le vicende di casa Salina, casato nobilissimo, e nella persona del principe Fabrizio "il Gattopardo" Salina, ispirato al bisnonno dell'autore. Il suo stile accurato anche se non facilmente fruibile, ci racconta in maniera romanzata la nascita dell'Italia e la fine della sua nobiltà, come casta.

Il principe Salina è un nobile purosangue, uno che ci tiene alle tradizioni, alle buone maniere, all'educazione, alla cultura. Uomo autoritario, statuario. Egli è la rappresentazione della nobiltà italiana di quel tempo, il suo declino rappresenta alla perfezione quello della parte di società a cui appartiene. Garibaldi combatte le sue battaglie, e questo dà inizio al silenzioso declino del Principe ma un nuovo inizio per un popolo; un inizio che buono o malvagio che sia, dipende dai punti di vista.
Il principe di Salina però, non è un uomo da farsi da parte così facilmente, da abbandonare senza combattere quello che nei secoli uomini come lui, anche della sua stessa famiglia, hanno conquistato col sudore con il sangue. Ed è un uomo che sa quando accettare i compromessi, e per un certo tempo ci riuscirà. Inutile a dirsi però, quel che è andato su dovrà inevitabilmente scendere, come sempre, e la caduta di un uomo, anche di uno come Salina, è la vecchiaia. Sarà pauroso osservare come il declino carnale di quell'uomo proceda parallelamente a quello di un'epoca. Spegnendosi insieme con lo stesso lento e doloroso passo.
Un finale angoscioso, per quella che in fin dei conti è parte della nostra storia.

"[...] noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.”

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    03 Aprile, 2015
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Il poema dell'immobilità

“Il Gattopardo”. Volendo commentarlo, ti prende uno strano scoramento: non sai davvero da dove iniziare, se esaltarne lo stile elegantissimo o piuttosto la preziosità del contenuto... Ci pensi, e intanto ti cattura la mente tutt'altra idea: il fatto che si possa diventare un autore immortale anche se si è scritto un unico libro. E' il singolare destino toccato a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che ultima il volume nel 1956 ma in vita ne vede incredibilmente rifiutata la pubblicazione (ciò accadrà solo nel 1958, un anno dopo la sua morte, ed a cura di un altro grande scrittore: il ferrarese Giorgio Bassani).

Il Gattopardo è l'animalesca figura che troneggia, quale stemma araldico, sulle ville e gli edifici della casata dei Salina, e sulla gran parte di un restante patrimonio che si sta sempre più assottigliando.
Nell'anno del Signore 1860, mentre l'avanzata dei Garibaldini sta turbando il sonno del re e della nobiltà meridionale, il Gattopardo è più d'ogni altro il principe Fabrizio di Salina: un uomo monumentale, forte come un albero secolare, padre e padrone, di uno stile che può possedere solo l'ultimo discendente di una genealogia nobiliare persa nel tempo. Ma tutto questo non tocca la sua capacità di vedere ciò che è desolatamente evidente: la nobiltà sta morendo, e la borghesia (ceto di grossolana avidità, per i suoi gusti) sta venendo a prenderne il posto.
Il trasferimento precauzionale di tutta la famiglia da Palermo alle residenze di Donnafugata diventa, per il principe, un'insperata occasione: la rituale accoglienza riservata dal paese al loro arrivo, l'omaggio personalmente portato da don Calogero Sedara (il rozzo signorotto che, con la sua volgare spregiudicatezza, sta diventando padrone del paese), l'apparizione della sua bellissima figlia Angelica nella villa dei Salina, l'impressione che ella suscita nel giovane Tancredi (il nipote prediletto del principe, tanto da preferirlo persino a suo figlio Francesco Paolo), l'innamoramento che nasce tra i due giovani, tutto converge nella lettera che Tancredi – nel frattempo aggregatosi alle spedizioni garibaldine – invierà allo “zione” perché possa farsi latore della proposta di matrimonio all'avvenente figlia dei Sedara.
Una proposta nella quale don Fabrizio intravede il mezzo più indicato per celebrare una sorta di “compromesso storico”: far sì che l'unione con la classe sociale che sta diventando motore di sconvolgimenti epocali possa capovolgere il destino di una nobiltà avviata ad estinguersi, e donarle vigore nuovo. O almeno così sembra a chi è rifugiato, quasi segregato, in dimore ancora sfarzose, sebbene nei luccichii di quello sfarzo si rifletta un immobilità totale, inevitabile preludio alla fine.

“Il Gattopardo” è un capolavoro di forma e contenuti. Lo stile con cui è scritto non è esattamente tra quelli oggi in voga: ma la misura, la ricercatezza, la “pulizia”, ne fanno qualcosa da trattare con un rispetto assoluto, anche tra i classici. E' un moderno poema. Degno di stare in uno di quegli speciali scaffali che il bibliofilo allestisce sempre da qualche parte nella libreria di casa. Accanto ad opere come l'Odissea, o la Divina Commedia.
E' una vicenda “speciale”... o quantomeno raccontata in modo speciale: la vicenda della nascente Italia vista dalla parte dei “perdenti”, di una stirpe di sangue blu che sta decolorandosi nella polvere dei tempi. E' altissima letteratura, libro di storia, modello di stile, filosofia della condizione umana; racconto della Sicilia e dei siciliani.
Persino la parentesi su padre Pirrone, il fidato confessore dei Salina, vuol dirci qualcosa di preciso... prima di chiudere con il commiato del principe e la scomparsa di una gloriosa casata in uno sconfortante anonimato. Come è giusto che sia, sembra dire, sornione, l'autore.

“Noi fummo i gattopardi, quelli che verranno sono gli sciacalletti e le iene. E tutti quanti, gattopardi sciacalletti e iene continueremo a crederci il sale della Terra.”

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De Roberto, Bufalino, i romanzi storici di Camilleri, ma anche "La metamorfosi" di Kafka.
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giov85 Opinione inserita da giov85    27 Agosto, 2014
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Lo specchio di un'epoca storica

In questo romanzo Tomasi di Lampedusa, narra la storia del principe Fabrizio, capostipite del casato siciliano dei Salina, il cui stemma è un Gattopardo, nel periodo dell’Unità d’Italia. Il crocevia storico non era di certo proprizio per il ceto nobiliare che viene minato dalla graduale ma inesorabile ascesa della borghesia. La decadenza della famiglia Salina in questo romanzo è specchio della decadenza di tutta la nobiltà sotto i colpi della Storia.
Il vero punto di forza dell’intero romanzo è il personaggio del Principe Salina. Una personalità complessa: aristocratico di razza, legato al proprio stemma, di grande cultura, amante della scienza, unico modo per riuscire a sentirsi dominatore di un mondo che sempre più sfugge al controllo, ed allo stesso tempo consapevole che il nuovo corso che gli eventi storici avevano preso, con la fondazione del Regno d’Italia e con la spinta innovatrice tanto declamata dai “conquistatori” piemontesi, si sarebbe ben presto risolta in un nulla di fatto. La disillusione del principe fa sì che possa acconsentire al matrimonio del nipote Tancredi, da lui fortemente ammirato, con la bella Angelica, figlia dei Sedara, appartenenti al nuovo ceto di arrampicatori sociali.
Memorabili due passi del romanzo: il colloquio del Principe con il Cavaliere piemontese Chevalley che era venuto ad offrirgli un seggio di Senatore d'Italia, rifiutato dal Salina in quanto si considera troppo colluso con quell’aristocrazia che nel corso dei secoli è stata la responsabile dell’immutabilità della situazione siciliana (“Vengono per insegnarci le buone maniere, ma non lo potranno fare perché noi siamo dei”); e, negli ultimi capitoli, l’agonia del principe, che esegue un bilancio della propria esistenza fra l'orgoglio della propria nascita, le piccole soddisfazioni e la consapevolezza della vacuità delle cose (“Ho settantatrè anni, all'ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due tre al massimo. E i dolori, la noia quanti erano stati?...Tutto il resto:settant'anni”).
Un libro fantastico che è utile, inoltre per comprendere come alcune dinamiche storiche in atto nel corso dell'Unità di Italia, siano ancora oggi responsabili dell'attuale stato di cose.

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I viceré
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    03 Aprile, 2014
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La solitudine di un aristocratico

Il romanzo è stato pubblicato a metà anni '50, in piena crisi del Neorealismo. La sua diversità ha fatto discutere, ma i più l'hanno accolto come un capolavoro, anche se non facilmente collocabile nelle tendenze letterarie del tempo.
Esso è ambientato in Sicilia nel periodo, almeno per la prima parte, dello sbarco di Garibaldi. Protagonista è il Principe di Salina, Don Fabrizio, campione di aristocraticità. Il Gattopardo è il suo emblema.
Egli vive nella sontuosità del suo rango, ma è consapevole del declino di casta, anche economico: per mantenere i fasti di famiglia, deve vendere possedimenti, comprati dalla nuova borghesia rampante (L'autore coglie bene le dinamiche sociali dell'epoca).
Il personaggio comprende, inoltre, che pure il momento storico-politico non è propizio all'aristocrazia, di cui si considera esponente 'di razza'. Frequenta, sì, gli ambienti della nobiltà siciliana, ma con un'estraneità che ne fa un'eccezione: fra la vecchia generazione, pare essere l'unico dotato di consapevolezza storica, e la sua passione per l'astronomia tende a rendere più acuto il tormento esistenziale del tempo che scorre e trascina con sé il vano e l'effimero delle cose di questo mondo. Ne rimane attonito, sgomento e vulnerabile, pur nella maestosità della persona e nelle esteriorità richieste dal casato.
Vede nel giovane nipote Tancredi colui che è al passo coi tempi, che ha capito che è il momento di 'cambiare perché nulla cambi', che si avvicina ai Garibaldini affinché la nobiltà non venga spazzata via, anzi conduca la Storia nei propri interessi.
Le sue simpatie per questo giovanotto non ricco lo portano ad accogliere favorevolmente il fidanzamento con Angelica, figlia di un facoltoso possidente un po' rozzo, un nuovo ricco. La ragazza è stata educata in un prestigioso collegio, pertanto viene considerata accettabile sia nella forma, sia sopratutto nella 'sostanza'. Questo amore è poco più di un'infatuazione, ma al momento tanto basta.

La solitudine del Principe non deriva certo solamente dalla consapevolezza della decadenza di classe e dalla pura formalità dei rapporti coi suoi pari; in lui, come abbiamo visto, ardono le inquietudini esistenziali, il pensiero della morte che non arretra di fronte a stemmi e privilegi.
In questo può essere paragonato all'Innominato del romanzo manzoniano. Ma lui non trova l'abbraccio di un Cardinale Borromeo.
Quando, nella malattia, lo condurranno al consulto di medici illustri, la morte gli apparirà, quasi a non smentire il suo temperamento galante, nelle vesti di un'elegante signora di "maliosa avvenenza": "era lei. la creatura bramata da sempre, che veniva a prenderlo".
A quali travestimenti siamo capaci di sottoporre Colei che recide il filo della vita!

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    12 Luglio, 2013
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Immutabilità patologica

Siamo in pieno Risorgimento e lo sbarco a Marsala di mille camicie rosse guidate dal generale Garibaldi porta un’irreversibile sconvolgimento socio-politico negli equilibri siciliani: l’aristocrazia borbonica, classe finora dominante sull’isola, sta per essere soppiantata dall’ambiziosa e ascendente borghesia. Don Fabrizio, principe di Salina, vive questi cambiamenti con l’amara consapevolezza dell’inevitabile declino del ceto cui appartiene. Imponente, colto, elegante, ma anche burbero, altero, diffidente e tormentato da funerei pensieri, il protagonista del libro dedica il suo tempo alla caccia, a qualche peccatuccio extraconiugale e soprattutto allo studio degli astri, vero e proprio rifugio per la sua anima troppo spesso angustiata. Intelligente e scettico, si rende presto conto che l’impeto innovatore nato con l’Unità d’Italia porterà soltanto l’illusione del cambiamento, ma le cose resteranno sempre uguali. Anche il sorpasso che l’aristocrazia subisce nella scala sociale serve a ben poco, anzi, non fa altro che peggiorare le cose, perché manda al potere una borghesia incolta e ferocemente assetata di potere e denaro. Per salvare il salvabile Salina si vedrà costretto a fare buon viso a cattivo gioco e ad imparentarsi con uno dei maggiori rappresentanti del rozzo ceto rampante, il tanto disprezzato Calogero Sedara, esempio lampante di una nuova classe dirigente arricchitasi troppo in fretta. Ma il matrimonio tra il suo amato nipote Tancredi, per lui l’unico discente degno di essere il suo erede, e Angelica Sedara, pur permettendo la sopravvivenza del suo antico e nobile casato, non riuscirà comunque a salvare il Principe disilluso da un’inevitabile morte spirituale, nonché fisica. La bellezza della Sicilia, il fascino dell’epoca in cui il romanzo è ambientato, il carisma di Don Fabrizio, lo stile elegante dell’autore sono tutti elementi che rendono quest’opera uno dei maggiori capolavori della letteratura del novecento. Interessante l’analisi storica, ottima quella psicologica del protagonista, ricercato il lessico, piacevole la presenza di personaggi secondari simpatici e ben curati come Padre Pirrone, Don Ciccio Tumeo e il cane Bendicò. Bella e struggente la parte dedicata alla morte di Salina, ma il meglio dell’opera sta forse nel dialogo tra il Principe e il prefetto Chevalley, aspra, rassegnata e pungente constatazione sull’immutabilità patologica della Sicilia e dei Siciliani, ma più in generale dell’uomo e del mondo intero. “Tutto cambia affinché nulla cambi” è un motto certamente ancora e sempre più valido in un’epoca, la nostra, caratterizzata da una finta politica dell’alternanza e dalle frottole del bipolarismo e del “voto utile”.

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marcogiuf Opinione inserita da marcogiuf    04 Luglio, 2013
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UN PRINCIPE RASSEGNATO

Indubbiamente Tomasi di Lampedusa possedeva quel dono che è stato proprio di pochi autori: il saper fondere contesto storico, psicologia dei personaggi e descrizioni degli ambienti.
Don Fabrizio Salina rappresenta in pensieri e modi la decadenza della classe sociale cui appartiene, incarnandone più che mai i sentimenti. Contraddistinto da un carattere introverso, dalla personalità complessa e dai pensieri cupi ("funerei"), egli ha una predilezione per il peccato e per le stelle, possiede un tutt'altro che vago sentore di morte e un "ego" che, via via nel tempo, s'indebolisce. Forse non è troppo azzardato dire che l'autore abbia voluto usarlo quale metafora del suo ceto all'epoca descritta.
Tancredi Falconeri, nipote prediletto di Fabrizio, è al contrario un homo (quasi) novus che avrebbe il compito di provvedere a tener alto il nome della famiglia. Tuttavia sceglie la strada del "rivoluzionario garibaldino" (fino a che punto fedele?), che in seguito rinnegherà. Ambiguo più d'ogni altro, prima seduce la povera figlia di Fabrizio Concetta poi l'abbandonerà ormai innamorato perdutamente della bellissima Angelica (nomen omen). Concetta non supererà mai il dolore.
Ho scelto questi due personaggi per la recensione perché secondo me sono essenziali; non solo la storia si sviluppa quasi soltanto intorno alle loro vicende, ma anche perché così contrapposti e così legati (come il nuovo Regno d'Italia) danno il senso di ciò che veramente Tomasi di Lampedusa voleva descrivere: un'epoca sfarzosa e allo stesso tempo disadorna.

Un cenno particolare, infine, merita la Genialità (con la G maiuscola) descrittiva dell'autore, che fa immergere ogni lettore perfettamente nella scena, sciogliendolo tra le pagine pallide e la sgargiante Sicilia. "Il gattopardo" è un libro che va gustato da cima a fondo, valicando l'istinto di interromperlo che forse può prendervi all'inizio. È un libro che piacerebbe qualsiasi persona, a una condizione: che non vi abbiano costretto a leggerlo. Se così fosse, non leggetelo: sarebbe una totale perdita di tempo.

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Consigliato a chi possiede qualche nozione storica sull'epoca che va dal 1850 al 1900, per capire ciò che sta dietro alle righe.
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    18 Aprile, 2013
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Intenso e denso

Classico della letteratura italiana, che rimane impresso soprattutto per lo stile e la potenza del linguaggio, che, da solo, trasmette raffinatezza ed umanità. Le parole sono scelte con cura, c’è eleganza nello stile, c’è poesia, c’è leggerezza. E poi la fotografia storica, sia sociale che paesaggistica, che viene offerta di questa Italia e di questa Sicilia della metà dell’Ottocento resta davvero una pietra miliare nella nostra letteratura: ne esce l’immagine di una terra che cambia la propria pelle senza cambiare il proprio sangue. Il contesto storico è solo il pretesto con il quale l'autore affida al protagonista le proprie riflessioni sulla condizione umana e sulla realtà siciliana. E questa regione acquista un’immagine nobile ed affascinante, barocca e ricca, senza tralasciare una puntuale analisi politica che anche i politici dei giorni nostri farebbero bene a rileggere.

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manu chan Opinione inserita da manu chan    14 Gennaio, 2013
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Siamo rimasti quelli, e null’altro


Il gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il suo nome trae spunto dal simbolo della famiglia dei Salina, parenti lontani dello stesso autore. Il racconto delle vicende che hanno segnato gli anni di potere della casata, è ambientato nella Sicilia borbonica e post-unitaria; e, sebbene al suo interno siano numerosi i riferimenti storici, non può essere classificato come romanzo storico. I personaggi, tutti realmente esistiti, sono stati parenti dello stesso autore, che ne ha voluto raccontare le vicende come esempio della società siciliana del tempo. Scritto con il cuore alla Sicilia e alla penna, il gattopardo è oggi un classico tradotto in tutte le lingue.
La storia della sua pubblicazione è abbastanza travagliata: il romanzo venne rifiutato più volte sia dalla casa editrice Mondadori ed Einaudi, che annunciò il mancato consenso all’autore pochi giorni prima della sua morte, che avvenne nel 1957. La prima edizione fu curata da Giorgio Bassani nel 1958 per “Biblioteca in letteratura”, anche se furono riscontrate imprecisioni e qualche incoerenza con il manoscritto; la prima edizione con la “Universale Economica Feltrinelli” avvenne soltanto nel febbraio 1963.
La storia si destreggia leggiadra tra le vicende e i pensieri di Don Fabrizio, il capo-famiglia ancora legato alla vecchia classe dirigente. Egli non ha fiducia nel cambiamento e, sebbene sia circondato da una numerosa schiera di figli e parenti, è un personaggio estremamente solo, se non fosse per le stelle, unico approdo sicuro da cui attinge serenità volgendo lo sguardo al cielo. Tomasi di Lampedusa utilizza Don Fabrizio per esprimere la sua opinione riguardo al cambiamento generazionale che ha colpito la Sicilia del tempo, legata ancora a una struttura tipicamente feudale che sembra reggersi da sola. L’autore ha modo di dare voce ai moti perpetui che sembrano aleggiare nel cervello dei siciliani che "non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria, ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla”. La voce rammaricata e rassegnata è la rappresentazione di una Sicilia segnata dai secoli, dalle dominazioni e dal paesaggio desertico, che non vuole cambiare perché si accontenta ad essere “così com’è”. E’ come se tutti stessero per muoversi per raccoglierla da terra, ma nessuno si muove, e così rimane in quello stato fino a quando non capisce che ce la può fare da sola (succederà?). E così i siciliani si chiudono in un mondo a se stante fatto di pettegolezzi, clima torrido e tradizioni conservatrici, l’ignoranza, i monumenti che vengono dal passato che sono “magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come fantasmi muti”. Il suo nipote Tancredi è l’emblema del ricambio dei ceti, Angelica quello di una bellezza sempiterna, Concetta quello di una vita persa nell’oblio della tristezza e Don Calogero quello di un politico con una gamba alla forma di governo passato e l’altra a quella nuova, con l’obiettivo di ottenere potere, in qualsiasi modo, Don Ciccio l’unico povero fedele al re di Napoli che si vede zittito da un sistema locale che cerca la novità più che il cambiamento. Bendicò non è figura trascurabile: tutt’altro! Come già l’autore aveva indicato a chi aveva raccomandato di riuscire nella pubblicazione del libro, egli rappresenta una figura-anello che non può essere in alcun modo dimenticata: il cane, sempre dimostratosi fedele e compagno al padrone Don Fabrizio, è la rappresentazione stessa della loro famiglia, il suo essere va di pari passo con quello dei Salina, la sua figura, rappresentata in secondo piano, rappresenta il punto fermo dell’intera narrazione: presente dalla prima all’ultima pagina.
La scena più rappresentativa è quella dell’incontro con Chevalley, segretario della prefettura, che propose a Don Fabrizio di entrare nel senato della nuovo Regno appena costituito. E ancora una volta la riflessione ricade sulla Sicilia e sul riciclo di cariche che il Regno vuole per assicurarsi il ben volere dei cittadini, che credono che il cambiamento di fatto non c’è perché le persone sono rimaste sempre quelle e sul rifiuto, sullo sfogo di Don Fabrizio, che tiene sulle sue spalle la consapevolezza dell’essere di questa terra. Cambierà qualcosa? Basta un seggio in Senato a cambiare qualcosa?
Lo stile che l’autore utilizza è sfarzoso: le parole e l’uso della sintassi sembrano dipingere il quadro rappresentante ciò che la Sicilia è: con i suoi limiti, con le sue bellezze, con le sue ragioni e i suoi perché. In modo scorrevole, il lettore si lascia attirare all’interno delle camere rococò e nei saloni immensi dove si ballano mazurke fino al mattino…
Il gattopardo è il racconto del passato del presente e del futuro della Sicilia, di quello che siamo come suoi abitanti e che non cambierà mai. Nel sangue scorre l’appartenenza ad una terra tanto grandiosa quanto pigra, che si accontenta delle sue ricchezze, mantenute dalla natura, sorella di questa regione. “Bisogna che tutto cambi perché non cambi niente”, perché oltre il tempo, al passare delle storie, delle dominazioni e dei personaggi, ci accorgiamo che siamo rimasti sempre quelli e null’altro.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    29 Agosto, 2012
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L'ineluttabile scorrere del tempo

Sarebbe difficile giudicare quest'opera senza tener conto del contesto storico da cui essa è stata originata. Un epoca a sè stante, a cavallo tra due secoli, in bilico sul sottile confine tra un passato ridotto a brandelli e un futuro quanto mai incerto, in subbuglio sotto il ribollire impetuoso dell'Italia Unita.
Un clima di apparente ottimismo, esito inevitabile degli ultimi fuochi romantici che hanno animato la neonata Italia nei primi anni. Strascichi di ideali che ben presto saranno obliterati dallo sconforto, dalla sfiducia.

Il Gattopardo, famosissimo romanzo di Tomasi di Lampedusa, accoglie in sé la contraddizione insita in tale periodo, riflettendo nella progressiva decadenza dell'aristocrazia siciliana, il progressivo spegnersi della vita, l'ineluttabile, ora sublime ora terribile scorrere del tempo.
In effetti, in più punti, la trama appena accennata, costituita da pochi fatti e innumerevoli monologhi, sembra giocare sul parallelismo tra questi due elementi.
Nella figura di Don Fabrizio Salina si realizza la crisi politica e esistenziale di un uomo preso alla sprovvista dall'incedere della clessidra della vita. Riprendendo un tema caro alla precedente letteratura europea, da Proust a Mann, il tempo è il cuore ipnotico di un mondo in pieno declino.
E' un testo che appena oltre la superficie del nostalgicamente onirico paesaggio siciliano, ammantato da un sole intenso ma tenue, forte ma delicato, sfrutta l'argomento storico non solo per una riflessione politica, arguta e condivisibile, e straordinariamente attuale, ma anche per trasformare gli occhi di un uomo che si avvia alla vecchiaia, in lenti che deformano la realtà nell'imperante pensiero della morte, memento mori!

Ed ecco che i paesaggi ricalcano nella delicatezza stilistica, l'avvento della fine definitiva, sfruttando un linguaggio quasi poetico in cui ricorrono incessantemente rimandi alla morte. La campagna è sterile, i frutti secchi, la popolazione sfiorita, i sorrisi ombre di una vita che sfugge fra le mani. Il tutto mentre l'eco risorgimentale si propaga nell'entroterra della Sicilia e, paradossalmente, il vento innovativo, sarà destinato ad un esito uguale, se non peggiore, alla situazione precedente.

Perchè, ed è qui che Il Gattopardo, la decadenza e il tempo trovano connubio perfetto, in Sicilia vige un clima di "metafisica sicilianità", un luogo in cui il tempo storico si annulla nella dimensione di una fierezza che sfocia nell'orgoglio, un sentimento di vanagloriosa stoltezza che rende i siciliani refrattari alla novità, fedeli a norme di comportamento mai poste in discussione.
Il tutto mentre nessuno faccia nulla per opporsi, come Don Fabrizio con lo sguardo verso il cielo, gravato dal peso del tempo, sconfitto dai granelli di sabbia del tempo che bruciano sulla pelle fino a rendere l'uomo un guscio il cui interno è evaporato. Eppure "finché c'è morte c'è speranza", almeno quella della tranquillità.

Leggere il Gattopardo è come camminare soli in un palazzo aristocratico in declino, mentre i passi rimbombano negli ambienti sfarzosi, vani tentativi di sopperire ad un potere ormai nullo, ultimo squallido simbolo di una forza inesistente. Aggirarsi tra le stanze di un palazzo, di un uomo svuotato dagli anni, mentre i rumori dall'esterno, il clamore degli avvenimenti storici arriva attutito, e noi, fedeli al nostro spirito, ci sediamo su una poltrona aspettando di arrivare alla fine, senza opporci, mentre ci sfilano davanti, senza aver possibilità di raggiungerli, rami di discendenti che hanno perso il ricordo della propria origine.
Un testo senza dubbio consigliato, stilisticamente ottimo, che cerca, non sempre riuscendoci, un equilibrio tra decadenza e morte, un'occasione per riflettere lontano da quel lieto fine che seppur mitigato predomina le opere precedenti. Il Gattopardo è forse uno degli antipodi del decadentismo, che ancora non riesce a svincolarsi dall'appendice romantica. (Preciso di non aver letto i Viceré, quindi non posso fare paragoni).

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rakovic Opinione inserita da rakovic    25 Giugno, 2012
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bignami de "I Vicerè"

Prendete un grande libro semisconosciuto di fine '800, "I Vicerè". Fatelo leggere ad uno studente del liceo e fategli fare il riassunto. Prendete tale riassunto ed usatelo come sceneggiatura per un filmone con un cast di grido: ecco servito "Il Gattopardo". Per me una delusione perchè avevo già letto "i Vicerè" e così mi è sembrato sovrastimato: il grande film ha contribuito al suo successo. Leggete il libro di De Roberto e mi darete ragione....

Dopo la conquista della Sicilia da parte dei Mille, le famiglie aristocratiche legate a doppio filo ai Borboni si sentono crollare il mondo addosso. Nel romanzo viene presa come esempio la famiglia del Principe Fabrizio Salina (in realtà Giulio Fabrizio Tommasi da Lampedusa, bisnonno dello scrittore) che assiste schifato alla crescita della borghesia in contrapposizione alla decadenza della aristocrazia. deluso dal nipote Tancredi, schieratosi con gli invasori, finisce comunque con l'appoggiare la fazione politiche che nel plebiscito popolare appoggia l'annessione al Piemonte. Successivamente però rifiuta la carica di senatore nel nuovo regno e muore così come muore il mondo dove era nato e cresciuto.
Ma come dargli torto? In quel periodo storico per un siciliano medio il Piemonte era su Marte, mentre quel modus vivendi nel quale le classi medio-agiate erano inesistenti sembrava incrollabile... Aggiungiamo spesso la inettitudine degli aristocratici che pretendevano di avere determinati privilegi per diritto acquisito e non per meriti ed il gioco è fatto: spariti i Borboni che sostenevano il meccanismo questo è crollato come un castello di carte coinvolgendo nella caduta anche le classi sociali meno agiate. Il fenomeno del brigantaggio sarà figlio di questo sconvolgimento socio culturale..

Paradossalmente sarà la prima guerra mondiale ad unire l'Italia: lì Siciliani e Piemontesi saranno costretti a parlare una lingua comprensibile per tutti e pur nell'inutilità di quello scempio creeranno le basi per una vera unità d'Italia.

Comunque leggete i Vicerè!!!

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peucezia Opinione inserita da peucezia    14 Marzo, 2012
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cupa decadenza di un'epoca

Unico romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, forse vagamente ispirato ai Vicerè di De Roberto per ambientazione e periodo storico racconta attraverso i malinconici occhi del principe Fabrizio Cordera di Salina la decadenza dell'epoca borbonica e dei privilegi nobiliari a favore di una casta meno colta ma più scaltra e meschina con l'avvento dell'Unità d'Italia.
E' stato un male o un bene chiudere un mondo negativo per aprirne un altro non certo migliore? All'interrogativo Lampedusa da' la risposta nelle frasi del principe rassegnato al passaggio di consegne, amareggiato dall'avanzare di un nuovo già stantìo eppure incapace di lottare perché nato già vinto.
I personaggi positivi della storia sono tutti dei vinti ( di verghiana memoria): il colto e triste don Fabrizio, dongiovanni fedele alla timida e malaticcia consorte Mariastella, la casta Concetta mentre nonostante l'aria da simpatico sbruffone Tancredi, arrivista al punto giusto, sua la frase "bisogna che tutto cambi perché tutti resti com'è", è annoverato tra i personaggi negativi accanto alla bella Angelica e a suo padre don Calogero che rappresenta in toto tutte le negatività dell'epoca nuova.
Tuttavia risulta difficile definire Il gattopardo un romanzo storico tout court, si tratta piuttosto di un romanzo sul cambiamento, che sia di un'epoca o anche di una situazione inserito in un particolare contesto.
Protagonista assoluto Fabrizio di Salina, simbolo delle vestigia di un tempo irreplicabile. Romanzo moderno sia per stile che per tematiche ascrivibile alla corrente del flusso di coscienza per le continue riflessioni del principe.
Capolavoro della letteratura contemporanea.

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i vicerè, opere sul risorgimento
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dmcgianluca Opinione inserita da dmcgianluca    30 Settembre, 2011
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Il Gattopardo

Stilisticamente perfetto, scritto in un linguaggio carico di poesia malinconica e capace di evocare immagini di un passato molto attuale. Tomasi di Lampedusa è abilissimo a descriverci i difetti della sua terra così bella e così dannata. Dove gli abitanti, dopo venticinque secoli da conquistati hanno sviluppato una serie di meccanismi infallibile che impedisce il cambiamento. Tutto è racchiuso nella famosa frase "se vogliamo che tutto rimanga com'è bisogna che tutto cambi", ma questa è una sintesi estrema.

Ciò che più mi piace di questo libro è la sua delicatezza e la sua raffinatezza d'altri tempi. D'altri tempi solo lo stile, perchè i difetti della società che ci descrive, sono gli stessi di cui ci lamentiamo oggi e che ahime, non abbiamo ancora aggiustato. Questo ci biasima, perché almeno una volta avevano stile e raffinatezza, adesso manco quello.

Voglio citare un passaggio che mi ha colpito profondamente:
"Ancora una volta il Principe si trovò di fronte ad uno degli enigmi siciliani; in questa isola segreta, dove le case sono sbarrate e i contadini dicono di ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede lì sul colle a cinque minuti di strada, in quest'isola, malgrado il suo ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito."

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    14 Aprile, 2011
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Tutto cambia, per restare sempre uguale

Premetto che ci troviamo davanti a un'opera di valore assai elevato, tanto che ormai Il gattopardo è da tempo un classico della letteratura.

Il romanzo si focalizza sulla figura del principe Fabrizio Salina, aristocratico colto, scettico di fronte ai nuovi tempi (la narrazione ha come iniziale riferimento lo sbarco dei mille in Sicilia e pertanto il 1860), ma contemporaneamente consapevole della fine della società di cui è parte.

Nel suo ramo familiare figura il nipote Tancredi, prediletto perché questi rappresenta, con il suo opportunismo e la sua audacia, la nuova forza che si sprigionerà dal vecchio mondo ormai morente, per dar luogo a una società solo apparentemente nuova, poiché il mutamento sarà solo esteriore e il potere continuerà a restare ben saldo nelle mani della vecchia classe dirigente a condizione che questa si impegni in questa apparente rivoluzione per orientarla verso i propri fini.

In questo quadro il Principe Salina asseconda il nipote nei suoi giochi, senza tuttavia prendervi direttamente parte, ma solo come semplice spettatore dello sviluppo storico, con una sorta di consapevole rassegnazione che, se anche tutto e nulla cambia , per la sua classe sociale, per questa antica nobiltà sicula legata alla terra non ci sarà più futuro.

E in effetti tutta l'opera è pervasa da un opprimente senso di decadenza, che si rispecchia nella desolata campagna siciliana, negli antichi e decrepiti paesi, nei palazzi quasi abbandonati da una aristocrazia pigra e incapace di alimentare le ragioni della sua stessa esistenza. Al riguardo, giustamente famosa è la scena del ballo di Palermo, con la crudele rivelazione, per il principe Salina, della deformazione della morte sui volti allegri dei giovani che gli stanno intorno.

Ci sono pagine di stupenda bellezza, quali quelle in cui il gesuita Padre Pirrone, prelato personale della famiglia Salina, andato a trovare la sua vecchia madre, spiega a un addormentato erborista le caratteristiche dei nobili, oppure quelle della morte del principe, in una stanza d'albergo, con una descrizione del trapasso che raggiunge i vertici dell'abilità narrativa.

Benché la vicenda sia ambientata nel XIX secolo lo stile non è proprio dell'epoca, ma nemmeno del secolo successivo in cui l'opera è stata redatta; non c'è una parola di troppo, né una di meno, non è per nulla ridondante, ma nemmeno scarno, non è costruito, ma nemmeno stringato, insomma è uno stile del tutto personale e irripetibile che mai stanca, pur invitando a soffermarsi sul vero significato di tutte le frasi.

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Lady Libro Opinione inserita da Lady Libro    12 Aprile, 2011
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Un romanzo ancora attuale

Questo libro mi ha coinvolta ed entusiasmata molto. Mi sono perfettamente immedesimata nel personaggio di don Fabrizio e, forse è una cosa strana, ho trovato il romanzo molto attuale. Tutti i personaggi di questa storia sono indimenticabili, ma i miei preferiti sono don Fabrizio, Tancredi e Padre Pirrone. Il finale così significativo mi ha toccata profondamente... Leggendo questo romanzo continuavo a chiedermi cosa provasse ogununo della gente del popolo italico a vivere in una nuova Italia in pieno Risorgimento con tutte le sue guerre, disgrazie e novità... Un libro che fa riflettere molto.

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MATIK Opinione inserita da MATIK    03 Gennaio, 2011
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Il Gattopardo

Un Principe: Don Fabrizio "Il Gattopardo", un nipote Tancredi e la bellissima Angelica!
Un grandissimo ritratto di una famiglia siciliana all'inizio della sua decadenza, l'arrivo delle truppe Garibaldine e l'Italia unificata sotto un nuovo Re. In questo periodo è collocato questo splendido romanzo che ci racconta le gesta del Principe Salina, viene analizzato il suo modo di pensare verso il nuovo che avanza, lui rispettato, amato, temuto ed al quale si deve comunque e sempre obbedire adesso è costretto a subire la venuta di nuove persone da corteggiare ed con le quali si deve solidarizzare e confrontare. Un popolo siciliano, che è difficile da assoggettare alle nuove regole "Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perchè noi siamo gli dèi."
Meravigliose sono le descrizioni dello scrittore dei sontuosi ambienti dei palazzi dove questi ricchi vivevano circondati da un'immensa aurea di potenza verso il resto del popolo e dove loro svolgevano la vita di tutti i giorni e nei quali davano dei grandi ricevimenti con balli splendidi, mentre all'esterno tutto stava cambiando loro continuavano a vivere secondo i loro canoni e le loro eterne convinzioni di prestigio.
Il capitolo VII dove avviene la morte del Principe è molto toccante, con grande efficacia lo scrittore ci rappresenta "la morte" con le sembianze di una bellissima donna!
Un libro da leggere sempre e comunque, consigliatissimo!

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Jan Opinione inserita da Jan    31 Dicembre, 2010
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Unità...d'Italia?

Adoro tutta l'opera del principe di Lampedusa.
Triste destino il suo, così avvelenato dalla schiacciante "concorrenza" dei grandissimi scrittori siciliani del suo tempo è passato, come si usa dire,alla storia solo per questo grande affresco storico.
Solo...mi sa di blasfemia.
Il Gattopardo è la svolta epocale di una Civiltà, di un difetto profondo come le radici della Trinacria affette dal morbo del latifondo, di un periodo risorgimentale che ancora oggi viene dibattuto e sottoposto a revisionismo.
Il principe Fabrizio prima ancora di vedere il proprio blasone sopito e schiacciato dai piemontesi farà a tempo, suo malgrado, a constatare come la borghesia riesca a trionfare sul suo polveroso e antico stemma araldico.
La morte che aleggia fino alle ultime mirabili pagine di questo capolavoro è una resa incondizionata a molto, a tutto.
Tancredi, il nipote in cui Fabrizio si rivede, è l'emblema finale e forse spettrale di un mondo al crepuscolo che lascia grande tristezza al lettore.

Per chi non l'ha ancora letto, e lo invidio, segnalo come Tomasi di Lampedusa abbia concepito l'avvento della morte in una maniera sublime, meravigliosa, superba.
Tutto questo romanzo, fortemente siculo, rasenta la perfezione.

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