I Viceré
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Sangue blu
Romanzo storico di notevole valore, molto bello e interessante, sicuramente al di sopra delle aspettative. Un capolavoro della letteratura italiana particolarmente avvincente.
Benché inizialmente lo stile possa apparire un po' datato, già dopo le prime pagine m'è parso consono alla narrazione.
Ambientato in Sicilia nel periodo 1855-1882. Sullo sfondo gli avvenimenti nodali e i rilevanti cambiamenti della Storia siciliana e d'Italia.
Protagonisti i componenti della famiglia Uzeda, d'alta aristocrazia, "i Viceré", nelle loro vicende private e pubbliche.
De Roberto si rivela indubbiamente un grande scrittore capace di cogliere i riflessi sociali e umani dei mutamenti storici tramite personaggi assai ben delineati con profondità psicologica, tali da risultare vivissimi e credibili, alcuni indimenticabili, colti nelle loro ambizioni, passioni e contraddizioni, secondo la miglior tradizione del Realismo europeo.
Un quadro impietoso della nobiltà siciliana dell'epoca e del clero conventuale aristocratico fra monacazioni forzate e privilegi di casta.
"Il lusso esteriore degli Uzeda, che prima del sessanta pareva straordinario, adesso cominciava ad essere agguagliato se non superato dalla gente rifatta" .
"Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re ; ora viene dal popolo ... La differenza è più di nome che di fatto" .
"Il Gattopardo", nella propensione di Tancredi volta al cambiamento ' perché nulla cambi ' , sembra aver trovato qui un punto d'ispirazione.
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letteratura italiana ; romanzo storico
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Una razza di demoni
"Ella sapeva com'eran fatti, tutti quegli Uzeda; quando s'incaponivano in un'idea, neanche a spaccargli la testa li potevan rimuovere; erano dei Viceré, la loro volontà doveva far legge! Ma da un giorno all'altro, quando uno meno se l'aspettava, senza perché, cangiavano di botto; dove prima dicevano bianco, affermavano poi nero; mentre prima volevano ammazzare una persona, questa diventava poi il loro migliore amico". Nella Catania risorgimentale spicca una delle famiglie più note e potenti dell'intero, ormai agonizzante, Regno Borbonico, quella degli Uzeda, principi di Francalanza, discendenti diretti dei viceré spagnoli. Conosciamo l'influente casata etnea in occasione della dipartita di donna Teresa, vedova del principe Consalvo VII, evento nefasto che scatena una guerra intestina in una famiglia già divisa nella sostanza da antipatie, inimicizie, rivalità, invidie, ma tenuta unita almeno nella forma dalla rigida ed inflessibile matriarca, donna dal carattere vulcanico capace di mettere in riga l'intera parentela, di tessere le trame dei rapporti sociali, dei matrimoni, degli affari economici, di risollevare e rendere florido un bilancio lasciato in pessime condizioni dal defunto marito. La triste dipartita della vedova scatena un inarrestabile effetto domino che metterà a nudo le divergenze, i contrasti, le insanabili dispute tra i consanguinei, cognati, fratelli, figli, nipoti, personaggi così diversi per aspirazioni, desideri, abitudini, ma accomunati dallo stesso cieco orgoglio e dalla medesima indole irascibile. L'iracondo cognato Padre don Blasco, l'avida cognata "zitellona" donna Ferdinanda, il trafficone primogenito Giacomo, il dissoluto favorito Raimondo, le diametralmente opposte Chiara e Lucrezia, il pestifero nipote Consalvo, sono i principali protagonisti dell'epopea, con i loro capricci, gli amori, gli odi, i peccati, le macchinazioni, le meschinità, le vendette. Unica eccezione la nipote Teresa, sorta di santa in una razza di demoni. Nonostante la prosa secca, asciutta, priva di fronzoli, tipica del Verismo e del romanzo storico, la mole delle pagine e la quasi totale assenza di colpi di scena, il racconto scorre bene, risulta godibile ed interessante. De Roberto è bravissimo a caratterizzare pienamente ogni personaggio, raccontando la storia con dovizia di particolari, in terza persona, senza mai dare giudizi esterni, lasciando che sia ognuno dei protagonisti a narrare dal suo punto di vista e a qualificare agli occhi del lettore, nel bene e nel male, il suo comportamento. Per lunghi tratti il libro segue un filone quasi teatrale, per le ambientazioni ristrette, i tempi dei dialoghi, la melodrammaticità delle atmosfere, la grottesca comicità di alcune scene. Un grande palcoscenico su cui si alternano i protagonisti e una serie di personaggi accessori che gravitano attorno agli Uzeda, servi, lavapiatti, faccendieri. A fare da scenografia, l'Italia alle prese con un'unificazione finalmente riuscita, dopo tante difficoltà, dal punto di vista geografico, ma impegnata in un'altrettanto tormentata opera di amalgama civica, politica, sociale che, sotto alcuni aspetti, continua invano ancora oggi. Contesto nel quale i viceré si immergono prima con riluttanza, poi con abile trasformismo, dimostrando che possono cambiare i tempi, le istituzioni, le forme del potere, ma difficilmente cambieranno gli individui che lo detengono, in un mondo in cui la forma varia in continuazione, ma la sostanza, troppo spesso, rimane la stessa. "Per lui, il buon popolo che si lasciava taglieggiare dai Viceré era stato pervertito da false dottrine, da sciocche lusinghe: egli era sicuro che prendendo a quattr'occhi uno di quelli che più vociavano «libertà ed eguaglianza» e dicendogli: «Se foste al mio posto, gridereste così?» il fiero repubblicano sarebbe rimasto in un bell'impiccio. La quistione, dicevano alcuni, era che questi posti eminenti, queste situazioni privilegiate non dovevano più esistere: ma allora Consalvo sorrideva di pietà. Quasiché, ammessa pure la possibilità d'abolire con un tratto di penna tutte le disuguaglianze sociali, esse non si sarebbero di nuovo formate il domani, essendo gli uomini naturalmente diversi, e il furbo dovendo sempre, in ogni tempo, sotto qualunque regime, mettere in mezzo il semplice, e l'audace prevenire il timido, e il forte soggiogare il debole! Nondimeno piegavasi, concedeva tutto, a parole, allo spirito dei nuovi tempi".
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L’immobilismo meridionale e l’immutabilità di una
Romanzo capolavoro dello scrittore catanese Federico De Roberto, I viceré (1894) racconta la storia di una antica famiglia nobile, imparentata coi Viceré spagnoli, gli Uzeda, principi di Francalanza, nel passaggio dal mondo borbonico a quello sabaudo.
L’opera si apre con la morte della matriarca Teresa Uzeda, vedova di Consalvo VII,
“principe di Francalanza e Mirabella, duca d'Oragua, conte della Venerata e di Lumera, barone della Motta Reale, Gibilfemi ed Alcamuro, signore delle terre di Bugliarello, Malfermo, Martorana e Caltasipala, cameriere di S. M. il Re (che Dio sempre feliciti)”
e della numerosa famiglia di figli, nipoti, cognati e cognate che accorrono per la lettura del testamento. Nel corso della narrazione lo scrittore ci farà conoscere da vicino la storia e il carattere dei vari Uzeda, maschi e femmine, indistintamente. Lo sviluppo narrativo prosegue in gran parte in maniera lineare con qualche flashback, ma senza appesantire la scorrevolezza della trama.
De Roberto racconta la storia di una famiglia potente, di origine feudale, che si integra, non senza difficoltà, nel nuovo regime istituzionale creato dall’Unità d’Italia. Interessante documento dell’epoca, I viceré testimoniano l’impossibilità di mutare sostanzialmente le forme, le modalità con cui si esercita il potere in una società cristallizzata come quella siciliana. Nella parte conclusiva del romanzo, il “principino” Consalvo, ultimo degli Uzeda, si dedica all’ascesa negli incarichi politici fino a rappresentare la Regione in Parlamento e va a fare visita alla zia Ferdinanda, la zitellona, con cui aveva prima litigato, poiché lui dalle idee più democratiche e lei baluardo delle tradizioni e dei vecchi privilegi.
Emblematiche le parole di Consalvo rivolte alla zia:
“Vostra Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati!...(…) rammenti tutte le liti tra parenti, pei beni confiscati, per le doti delle femmine... Con questo, non intendo giustificare ciò che accade ora. Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo. (…)Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.»
Nulla è cambiato e niente cambierà: l’immobilismo meridionale diventerà un leit motiv di altre opere e di altri autori siciliani dopo De Roberto.
Un romanzo di ampio respiro, che narra la storia di una intera famiglia, dei suoi componenti, alcuni degni di ammirazione, altri degni di disprezzo per l’attaccamento al denaro e per la viltà: una descrizione dura, impietosa a volte, in cui prevalgono i motivi atavici del potere, dell’interesse, dell’egoismo individuale, della gelosia e anche della follia ancestrali.
Un classico eclissato da altri titoli più famosi, ma imprescindibile.
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La palude
Molto spesso, nelle recensioni o nei commenti critici sui "Viceré", si legge che il capolavoro dell’autore napoletano racconta la decadenza di un’antica stirpe aristocratica, quella degli Uzeda, principi di Francalanza ed ex Viceré di Sicilia per conto dei sovrani spagnoli. Insieme alla decadenza di questa nobile famiglia, si racconta quella degli ideali e dei valori risorgimentali, destinati a tramontare nell’Italia postunitaria, soffocati dal dominio dell’interesse privato e dall’ossessione per il denaro. Nessuno potrebbe mai negare, in effetti, che la famiglia degli Uzeda, nella quale dominano i matrimoni tra consanguinei, sia drammaticamente corrotta nel sangue, nel corpo e nella mente secondo i principi naturalistici seguiti dall’autore, preda di malattie e deformità non solo fisiche, ma anche mentali. Non si salva proprio nessuno: Lucrezia è ossessionata dall’idea di sposare il giovane avvocato Giulente solo perché la sua famiglia si oppone per poi iniziare a odiarlo, mentre sua sorella Chiara prima fa fuoco e fiamme per non sposare l’uomo che le impongono, poi se ne innamora follemente, cade nell’ossessione di una gravidanza impossibile e non esita a compiere qualunque gesto pur di dare un figlio al marito. Donna Ferdinanda vive per accumulare denaro e suo fratello Ludovico in funzione della carriera ecclesiastica. E poi la vecchia principessa Teresa, ossessionata dal secondogenito Raimondo al punto da danneggiare volutamente gli altri figli pur di favorirlo, il principe Giacomo, che pensa solo a sottrarre al fratello e alle sorelle la loro eredità, il conte Raimondo, che insegue gonnelle solo per il puntiglio di sottrarsi al fastidioso vincolo matrimoniale.
Tutti sono vittime di una vanità e di un orgoglio che sconfinano nella patologia, perfino la dolce, buona, obbediente Teresina, che pur di continuare a essere lodata, apprezzata e amata da tutti, quasi come la santa di famiglia di cui porta il nome, sacrifica la sua intera esistenza ai voleri del padre. In ciascuno di loro c’è un pensiero dominante, che lo avvince completamente e finisce con il rovinargli la vita, un po’ come i personaggi di "La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo" di Laurence Sterne. Caso emblematico è quello del conte Raimondo, che solo per puntiglio dichiara guerra all’intera famiglia per poter lasciare la moglie e sposare l’amante, salvo poi stancarsi anche di lei, ritrovandosi intrappolato per la seconda volta. Tutti inseguono la loro ossessione, non la felicità, e i risultati sono a dir poco tragicomici. Solo un grande talento come De Roberto può far morire dal ridere scrivendo un romanzo dal contenuto così deprimente.
Insomma, non ci sono dubbi che il termine “decadenza” calzi a pennello. Eppure leggendo il romanzo la sensazione più forte che si ricava è che in realtà l’intento dello scrittore non sia raccontare il decadimento di una stirpe, ma una situazione che cambia solo in apparenza, all’esterno, e in sostanza resta sempre la stessa. La materia di cui sono fatti gli Uzeda è identica a quella di cui erano fatti i Viceré loro antenati, secoli prima: orgoglio, vanità, pretesa di comando e di superiorità.
Lo stesso discorso, in un certo senso, vale anche per i fatti storici e sociali rappresentati. Il cambiamento sembra essere un fatto solo ed esclusivamente esteriore: i sovrani e i regimi si succedono, ma la realtà più profonda delle cose resta sempre uguale a se stessa nei suoi tratti fondamentali. A tenere le redini del comando, infatti, sono sempre loro, gli Uzeda. Tramontato il titolo di Viceré, siedono nel Parlamento della nuova nazione unita, ma in ogni caso continuano a occupare i primissimi gradini della scala sociale.
Lo stile è asciutto, secco, quasi teatrale, fondato solo sui dialoghi e sul discorso indiretto libero, e fa emergere l'orrore, il disgusto e il ridicolo senza bisogno di "spiegare" nulla. Tutto si manifesta da sé, perfettamente, nella sua evidenza cristallina e acquistando in tal modo ancora più forza, anche grazie alle numerose simmetrie sulle quali si regge l’architettura della narrazione: tra Chiara e Lucrezia (i cui percorsi sono, passo per passo, esattamente opposti), tra Ferdinanda e Consalvo (la prima inflessibile nella fede borbonica e conservatrice, il secondo pronto a mutare bandiera senza scrupoli per la brama di potere), tra Eugenio e Consalvo (il primo incarna forse più di chiunque altro la decadenza e la fine della vecchia nobiltà borbonica, mentre il secondo ha fiutato benissimo da che parte tira il vento e sa che la via della grandezza passa per Roma e il Parlamento).
Un gioco di equilibri, come se l'autore cercasse in qualche modo di dare un "ordine" alle caotiche follie degli Uzeda. Il parallelismo che forse colpisce più di tutti è quello tra l'inizio del romanzo, con il funerale da ancien regime della vecchia principessa Teresa, e la conclusione, con il modernissimo comizio elettorale di Consalvo: due mondi opposti che sanciscono un passaggio di regime, un passaggio nel quale, però, tutto sommato non è cambiato un bel niente. "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi" dice Tancredi nel Gattopardo e ci sta a pennello.
E forse ancora oggi, in fondo, la sostanza è sempre la stessa. Nel suo discorso conclusivo agli elettori, Consalvo promette tutto e niente: libertà, ma moderazione, democrazia, ma con ordine, rispetto della religione, ma anche della ragione, rispetto delle tradizioni, ma largo al progresso... Non è poi tanto diverso da certi discorsi che si ascoltano ancora oggi. Forse ormai i discendenti dei Viceré non siedono più neanche in Parlamento, eppure si può dire che sia cambiato effettivamente qualcosa? L’impressione dominante, dunque, non è che l'Italia e con lei gli Uzeda siano decaduti da un’originaria grandezza, ma che tutto anneghi lentamente, inesorabilmente in una palude stagnante, da sempre.
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Il cambiamento talvolta è utopia.
E' la storia di una famiglia catanese di antica discendenza spagnola, gli Uzeda di Francalanza, ambientata ai tempi del Risorgimento meridionale a partire dagli ultimi anni della dominazione borbonica sino all'Unità d'Italia e oltre.
In letteratura anche straniera vi sono parecchi esempi narranti le variopinte saghe familiari tramandate nell'arco di due-tre generazioni (basti pensare al colosso 'Cent'anni di solitudine') ma questa, a mio parere, è per noi italiani particolarmente interessante dal punto di vista storico e patriottico dato che soprattutto nella seconda metà del libro, trasuda di quel periodo sì tanto delicato che portò alla nascita del 'Belpaese'.
Sono rimasta colpita dal comportamento e dal significato di alcune frasi pronunziate da individui di spicco animanti la saga, terminologie e atteggiamenti d'approccio purtroppo molto comuni ai giorni nostri, in questo caso dovuti a decenni di pessima politica e scarsa rappresentazione dell'interesse del privato cittadino nonché i soliti caos tra partiti e politicanti e inghippi elettorali vari per non perdere l'amata 'poltrona'...
Ma rimanendo nel testo c'è un passaggio negli ultimi capitoli, ad esempio, ove il Duca parlando con un parente del nipote ribelle Consalvo, lo scellerato che qualche anno prima neanche ventenne s'era dato alla bella vita accumulando ingenti debiti poi ricaduti sulla famiglia, dichiara apertamente e con sorprendente naturalezza:
"Pensi ancora alla destra e alla sinistra? - esclamò ridendo il Duca, che aveva in tasca la formale promessa d'un seggio al Senato – Non vedi che i partiti vecchi sono finiti? Che c'è una rivoluzione? Chi può dire che cosa uscirà dalle urne a cui hanno chiamato la plebe? Un vero salto nel buio...”
Ecco, proprio queste frasi, considerando il periodo storico in cui furono dette ovvero pochi anni dopo la nascita della nazione Italia, fanno letteralmente rabbrividire, nascondendo, e neanche troppo, un chiaro senso di sfiducia e stanchezza morale già allora presente!
Nel libro emergono altri temi importanti e attuali quali il danaro, l'onore, le battaglie legali per successioni ereditarie con relativi conflitti e ripicche tra fratelli di sangue e parenti vari, il prestigio, la discordia familiare, l'infedeltà coniugale, l'avidità di fama e soldi, l'avarizia anche di sentimenti, insomma di tutto un po'...
E dunque, non c'è affatto da meravigliarsi: niente è cambiato in oltre un secolo di storia della nazione o per meglio dire, rovesciando il senso della frase, se pensavamo di trovare almeno nei primi anni di unità nazionale più purezza e meno guerriglie, più fiducia nelle istituzioni di conseguenza maggiore energia costruttiva da parte del popolo stesso - da quel momento reale protagonista e artefice del proprio futuro - ci sbagliamo di grosso!
Da annoverare certamente tra le letture 'd'obbligo'.
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Avvincente
Il romanzo narra le vicende della famiglia Uzeda, appartenente alla vecchia aristocrazia siciliana di origine spagnola, alle prese con un importante crocevia storico: il disfacimento del Regno di Napoli e la nascita del Regno d'Italia. Fra vecchi privilegi accumulati dalle famiglie nobiliari e nuovi obblighi nei confronti del neonato stato unitario, i componenti della famiglia si barcamenano ciecamente alla ricerca di profitti, vantaggi personali e del mantenimento di quella vecchia supremazia di cui sono depositari in quanto eredi dei Viceré di Sicilia. La storia si basa su innumerevoli personaggi, tutti ben delineati, alcuni addirittura grotteschi nel loro realismo, che formano una galleria che non ha uguali nella letteratura italiana. Spiccano di sicuro in questo corteo di caratteri la principessa Teresa Uzeda, vendicativa, dispotica, arrogante, che fa di tutto pur di assecondare i capricci del terzogenito Raimondo, mortificando tutti gli altri figli; l'erede del titolo, Giacomo, accaparratore seriale di ricchezze, il cui unico obiettivo è quello di riconcentrare nelle sue mani quel patrimonio che la madre gli aveva negato; lo zio Don Blasco, blasfemo ed arrogante monaco benedettino, che "reagisce" alla dissoluzione del convento di cui faceva parte, imposta dal Regno di Italia, con l'acquisizione di numerose proprietà e che, dimentico dei dettami dell'ordine di cui fa parte finirà col condurre una vita quasi laicale. A questi personaggi, se ne associano molti altri, tutti ondeggianti fra due vizi estremi: il relativismo morale ed etico da un lato e il gretto conservatorismo dall'altro. Tutti insieme, i membri della famigla Uzeda, forniscono uno spaccato estremamente realistico del disfacimento morale dell'aristocrazia all'affacciarsi della modernità: la nobiltà non è più tale per sangue, per famiglia, ma rimane tale alla luce dei privilegi e delle proprietà acquisite.
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Il primo dei gattopardi
Quando la matriarca della nobile famiglia degli Uzeda, Viceré di Sicilia sin dai tempi dei re spagnoli, muore, le sue ultime volontà innescano una faida interna alla sua diretta discendenza e ai suoi collaterali. La caparbia e ottusa volontà di Giacomo di preservare i diritti di primogenitura e il titolo di principe porta allo scoperto non solo i rancori, ma anche le tare di una stirpe che da troppo tempo pratica l’endogamia: Chiara, nella sue isterica ricerca di una maternità negata, partorisce mostri; Lucrezia si inacidisce nell’odio per un marito sposato per pura ripicca; Ferdinando esprime la sua alienazione in bizzarri esperimenti agrari; Raimondo esercita le sue doti di seduttore seriale, marito infedele e padre senza amore. Nel frattempo il mondo intorno sta cambiando, o così sembra: la rivoluzione attraversa la Sicilia all’arrivo di Garibaldi, ai re spagnoli subentrano quelli piemontesi; ma gli Uzeda continuano a rappresentare la “razza padrona”.
«Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo … La differenza è più di nome che di fatto»: così Consalvo, ultimo e rampante virgulto degli Uzeda ed eroe negativo del romanzo, autocrate vecchio stampo dal volto liberale e dalle smodate ambizioni, giustifica “gattopardescamente” il suo attivismo politico al capezzale della vecchia zia borbonica. E conclude, facendosi portavoce dell’autore e della sua amara visione del mondo, che è proprio sull’opportunismo e sulla mancanza di scrupoli che galleggiano i potenti, oggi come ieri e come sempre: «No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa».
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L'epilogo di un mondo
L'EPILOGO DI UN MONDO
"La storia d'una gran famiglia, la quale deve essere composta di quattordici o quindici tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell'altro. Il primo titolo era Vecchia razza: ciò ti dimostri l'intenzione ultima, che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale d'una stirpe esausta."
(Federico de Roberto)
Con queste parole l'autore ci dà già l'idea del contenuto del suo romanzo. Ambientato in una Catania intimorita dal colera e indispettita della tirannide dei Borboni, si sviluppano le fila di un periodo caotico e importante per la Sicilia, sempre stata terra di conquista che non ha mai avuto un senso di appartenenza ad un unico popolo, ad un unico modo di pensare, mediante le vicende della famiglia Uzeda, principi di Francalanza e Mirabella, duchi di Oragua, conti di Venerata e di Lumera, baroni della Motta Reale, Gibilfemi ed Alcamuro, signori di Bugliarello, Malfermo, Martorana e Caltasipala, soprannominati i “viceré” per gli importanti ruoli di governo rivestiti dai suoi membri.
In un ampio lasso di tempo che va dal 1855 al 1882, l'autore ci descrive gli avvenimenti storici, risaputi da tutti, da un altro punto di vista: quello dei potenti, dei nobili, fedeli al giglio borbonico e ai privilegi che derivano da esso. Potrebbe apparire quindi una “copia” del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ma non lo è. Anche se il principium di fondo degli Uzeda è lo stesso dei Corbera (“ se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”) tutto il resto appare differente. Infatti, mentre nell'opera di Tomasi, la fine dell'aristocrazia viene rappresentato in modo rassegnato, nostalgico, quasi romantico, nei Viceré il crollo dei privilegi nobiliari diviene l'epilogo di un processo di decadimento morale e psicologico di un ceto sociale giunto al lastrico, destinato all'affondamento a causa del prorompere della vivace e aperta borghesia. Gli Uzeda così rappresentano l'exemplum per eccellenza di questa programmata uscita di scena che assume un aspetto grottesco e infernale
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L'opera è divisa in 3 parti, incentrate sulle conseguenze disastrose sia dell'arrivo dei Mille sia,soprattutto, del testamento della vecchia principessa Teresa Uzeda, donna malefica, vendicativa, volta solo ad assecondare le più strane richieste del terzogenito, il dissoluto, lussurioso conte Raimondo a dispetto dell'odiato primogenito Giacomo, roso dall'odio, dalla vendetta e dalla superstizione. Dietro questa “linea base” si muovono gli altri membri della famiglia che evidenziano la corruzione di questa potente famiglia prossima alla perdizione: invidia, odio, blasfemia, ignoranza, vendetta, lussuria e follia ( un esempio è costituito dal feto orribile partorito da donna Chiara Uzeda racchiuso in una boccia di vetro come souvenir della sua mancanza di dare un erede al marito). Ma il vizio peggiore di questo “branco” è la mancanza di unione che si può constatare nel palazzo Uzeda, una scimmiottatura degli stili più vari e strampalati voluti da ognuno dei principi di questa decaduta casata.
Con uno stile irto di cinica ironia che a volte può apparire pesante e caotico (soprattutto all'inizio del romanzo), l'autore con la sua opera ci descrive la fine tragica di un mondo, di un ceto che ancora oggi esiste ma che vive, solo, dei nostalgici ricordi di un'antica potenza e dei titoli , ormai “carta straccia” nella società moderna ed eguale di oggi.
Un romanzo assolutamente da non perdere, soprattutto per coloro che hanno letto o sono in procinto di leggere il Gattopardo. Buona Lettura, anche se sarà piuttosto lunga e impegnativa!
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Altro che gattopardo!!!
Bello, bellissimo, esauriente a 360 gradi. Spaccato fotografico di un periodo storico con l'iserimento di tanti personaggi dipinti a regola d'arte.
L'inizio è apparentemente caotico, sconnesso, irritante: l'importante è andare avanti ed ogni tessera troverà da sè il proprio posto, il dipinto prenderà forma e sarà sempre più avvincente.
Alla morte della principessa catanese Teresa Uzeda di Francalanza, discendente di antichi Vicerè spagnoli, si instaura una lotta intestina tra i discendenti alla pubblicazione del testamento. Le vicende della famiglia (numerosissime) con intrecci amorosi, corna, matrimoni combinati, suicidi per amore, preti pii e preti blasfemi, non mostrano all'inizio un vero protagonista, ma è la famiglia stessa la protagonista del romanzo. Successivamente, quando parallelamente alla storia degli Uzeda cresce prepotentemente la narrazione del quadro politico risorgimentale con lo sconvolgimento di una società di tipo feudale si assiste alla crescita di colui che è il vero protagonista del romanzo. Consalvo, un nipote della defunta principessa, destinato al sacerdozio si rivela come l'unica persona con la testa sulle spalle nel bene e nel male.
Abbondonati velocemente i panni del clero e successivamente quelli della nobiltà ormai allo sfacelo, si ricicla abilmente in politica come uomo della ....sinistra (!) e viene trionfalmente eletto alle elezioni del 1882.
Come dire, anche oggi niente è cambiato.....
Lo stile è avvincente, i personaggi dipinti con minuzia dei particolari. Altro che Gattopardo...
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Eccezionale
Sicuramente uno dei migliori romanzi della peraltro esigua tradizione narrativa italiana moderna... La trama è articolata e avvincente, De Roberto ha una visione assolutamente disincantata della società e delle relazioni interpersonali, che si snoda senza alcun cedimento a retorica o sentimentalismi di sorta, con una prosa scorrevole spesso piena di ironia . Questo romanzo ha avuto poco successo di quanto, a mio parere, meritasse , forse a causa del giudizio assai sfavorevole pronunciato da Benedetto Croce, oppure piu’ probabilmente per il suo anticlericalismo e la sua ottica sociopolitica, scettica al punto da non risparmiare neanche l'istituto della famiglia. Fortunatamente questa diffidenza e repulsione, ultimamente e’ diminuita ed anzi si sta’ assistendo ad una riscoperta di questo meraviglioso romanzo che fornisce un’interpretazione della vita antimanzoniana, ma a mio parere molto piu’ moderna. I personaggi sono incredibilmente veri oggi come ieri. Da una parte i potenti, che possono sempre tutto su tutti, e dall’altra parte i poveri che guardano con accettazione le sopraffazioni dei primi a volte incantati a volte con troppa arrendevolezza. Il ricco e il povero di ieri, di oggi e di domani, il tutto retto dalla sovrana ignoranza di sentimenti degli uni così come degli altri. In particolare, il profondo egoismo, l’autoaffermazione personale della maggior parte dei vicerè, così come la remissione, l’asservimento di alcuni personaggi, soprattutto femminili (come la principessina Teresina, la contessa Matilde, e forse alla stessa Chiara nei confronti del figlioccio), denotano la triste consapevolezza di non poter vivere senza il dolore della solitudine per inseguire la potenza e per mantenere l’apparenza di ciò che si ha.
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Tutto cambia per restare infine uguale
I Viceré è indubbiamente il romanzo più famoso di Federico De Roberto, un’opera piuttosto corposa che a stento ed eufemisticamente può rientrare in una collana di tascabili. Considerato da non pochi critici un autentico capolavoro (Sciascia addirittura scrive che dopo I Promessi Sposi è il più grande romanzo che conti la letteratura italiana), ma in un certo qual modo stroncato da Benedetto Croce (Il libro di De Roberto è prova di laboriosità, di cultura e anche di abilità nel maneggio della penna, ma è un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore) è in effetti un romanzo complesso, anche strutturalmente, e presenta luci e ombre, di cui tuttavia le seconde non ne intaccano l’intrinseca valenza.
E il valore è indubitabile, perché I Viceré, nel descrivere le vicende dei numerosi componenti della nobile famiglia siciliana Uzeda, finisce con l’essere la devastante biografia di una nazione, un’immagine impietosa di ciò che siamo noi italiani, con una narrazione impregnata da una forte vena critica e ironica.
La storia in effetti è costituita dalla vittoria, in apparenza, della rivoluzione patriottica siciliana e dal suo pratico insuccesso, con un esito quindi impietoso e deludente di tutto il processo risorgimentale, perché le risultanze siciliane vengono di fatto estese all’intero paese. In questo senso De Roberto è stato un’analista del fenomeno non solo attento a tutti i suoi risvolti, ma anche profetico, come infatti sembrerebbe testimoniare l’attuale situazione italiana, di Stato di forma, ma non di sostanza.
Per quanto ovvio balza subito alla mente un altro capolavoro, quel Gattopardo pur esso in grado di anticipare situazioni successive, ma scritto molto tempo dopo I viceré ed è quindi logico supporre fosse stato letto e in un certo qual senso preso a spunto e ad esempio da Tomasi di Lampedusa.
Dice bene Matteo Collura quando scrive che “Nel cospicuo contributo dato dagli scrittori siciliani alla moderna letteratura italiana, s’impone un dato costante: la delusione per la mancata rivoluzione promessa dal Risorgimento, il fallimento delle speranze dei meridionali nel compiersi dell’Unità d’Italia. Viene da lì gran parte dei mali che continuano ad affliggere questo Paese, la scarsa autorevolezza dello Stato, le divisioni e incomprensioni tra regioni del Nord e regioni del Sud e, propriamente oggi, il rischio dello scardinamento dell’unità nazionale.”.
Indubbiamente, basterebbe solo questa visione profetica per classificare I Viceré come un capolavoro, ma c’è dell’altro, quali la caratterizzazione dei personaggi, invero troppi, ma precisa e rappresentativa di modi d’essere e pensare, l’atmosfera quasi irreale di un corpo in decomposizione pronto però a trasmigrare in un altro, fermo restando l’obiettivo di conservare le proprie prerogative. Negli Uzeda c’è tutta una famiglia stranamente attuale, con vizi, furberie, astuzie, cialtronerie e perciò senza cuore. De Roberto non ha pietà per questi personaggi, ma non travalica mai il limite sottile fra avversione e odio, quasi da spettatore e cronista di fatti che avverte come emblemi di una realtà ben più grande.
Benedetto Croce non ha quindi compreso l’effettivo significato dell’opera, soprattutto quando dice che non illumina l’intelletto, forse perché aborre l’idea che quello stato di cui fa parte è una struttura altamente imperfetta che deriva dal fallimento delle idee risorgimentali, pregevoli, eccellenti nelle intenzioni, scomparse nella realizzazione.
L’opera è invece indubbiamente pesante, troppo lunga, e caratterizzata da un ritmo lento che induce a frequenti soste durante la lettura, difetto che tuttavia incide in modo trascurabile sull’effettivo rilevante valore.
Da leggere, senza dubbio.
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