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Un generale scrittore
Gaius Iulius Caesar (Gaio Giulio Cesare) è probabilmente il personaggio romano più conosciuto e non solo per le sue indubbie qualità militari, ma anche come scrittore.
Ci ha lasciato due opere, fondamentali per comprendere una certa epoca: La guerra gallica e La guerra civile.
Il primo è senz’altro il testo più conosciuto, anche per motivi scolastici. Ricordo, anche se è passato molto tempo, che non era infrequente nei compiti in classe di latino la traduzione di brani del De bello gallico, circostanza del resto preferita dagli studenti, sia per la tematica che in un giovane appare più interessante, sia per l’essenzialità della scrittura di Cesare, meno complessa, per esempio, di quella di Cicerone.
Resta il fatto che essendo ormai un’opera classica, oggetto di studi scolastici, si tende a identificarla più come un libro di testo che non per quello che effettivamente è, e cioè la storia di un lungo e sanguinoso conflitto grazie al quale Roma, non ancora imperiale, sottomise definitivamente la Gallia.
Dalla lettura si può comprendere l’elevata cultura di Cesare che riesce a descrivere con minuziosità, ma senza essere greve, un’importante evento non solo bellico, ma anche politico.
Certo che la storia di un fatto narrata dallo stesso che ne è stato partecipe può sollevare più di un dubbio sull’attendibilità delle notizie fornite, ma non è questo il caso, perché il grande condottiero romano si dimostra per niente incline alla retorica, tracciando in modo semplice e scarno la cronologia degli eventi, tanto quasi da apparire un diario di bordo, ad uso e consumo del senato romano.
E’ un lavoro piuttosto lungo, diviso in 8 libri, scritto presumibilmente fra il 58 e il 50 a.C., corrispondente proprio al periodo in cui si svolsero i fatti. Nei primi sette libri, dettati ai suoi luogotenenti, Cesare ci fornisce un’attenta descrizione etnica e geografica non solo della Gallia, ma anche dei territori germanici prossimi al Reno e di quelli britannici. Si scopre così in lui un’attenzione e anche un rispetto per zone non propriamente romane e per le popolazioni che le abitano, circostanza che mi induce a pensare che l’uomo, e quindi non il console e generale, nutrisse anche ammirazione per questi nemici, il che però non gli impedì di farne strage. Questa lunga parte si conclude con la descrizione della battaglia di Alesia, in cui emerse fulgido il suo genio militare, e grazie alla quale, sconfitto Vercingetorige, re degli Averni e grande stratega, la campagna poté definirsi conclusa.
L’ottavo libro, che risulterebbe scritto dal fido Aulo Irzio, invece parla di fatti successivi alla guerra, come le spedizioni inviate a spegnere gli ultimi focolai di resistenza.
Il De bello gallico, scritto in terza persona, ebbe una funzione non solo diaristica, cioè di memoria, ma fu anche lo strumento con cui, in un equilibrio sostanziale fra fatti e descrizione degli stessi da chi vi fu coinvolto, Cesare difese la sua politica militare dall’avversione di larga parte del Senato che, non a torto, paventava un concreto pericolo per la sua autorità di fronte a questo generale di comprovate elevate capacità, riottoso ad obbedire alle direttive e animato da una grande ambizione.
La guerra gallica, in questa edizione dell’Editore Barbera comprensiva del testo latino a fronte, si avvale della eccellente traduzione di Lorenzo Montanari, che ha curato anche le indispensabili numerose note riportate alla fine dell’intera opera.
Se la prefazione di Anna Giordano Rampioni è breve, quasi essenziale, l’introduzione di Giovanni Cipriani e di Grazia Maria Masselli è assai più lunga, ma indispensabile per la comprensione dell’intero testo.
Sono in tutto tante pagine (oltre 600), ma si leggono quasi d’un fiato, a testimonianza delle qualità letterarie di Gaio Giulio Cesare, rivelatosi così, oltre che uomo di spada, uomo di penna.